Una vita ben fatta

La scuola che vorrei dovrebbe mettere tra parentesi i voti […] La messa tra parentesi dei voti a scuola è secondo me utile perché il voto che stai dando al ragazzo di oggi deve trovare conferma nella buona operosità dell’uomo di domani.

Trovo azzeccato paragonare una classe a un organismo vivente. Ci sono classi che allo stesso stimolo reagiscono in modi differenti. Con alcune puoi metterci tutta la dedizione di questo mondo senza produrre il risultato sperato, con altre basta invece aprire bocca per accendere la scintilla dell’amore per la conoscenza.

L’aspetto più complesso del mestiere di docente credo sia profondere lo stesso livello di passione e impegno con tutte le proprie classi ricevendo in cambio sia nelle verifiche sia anche umanamente delle risposte di vario genere. Ci sono classi a cui dai tanto ma che ti restituiscono poco, questo è senz’altro l’aspetto più frustrante della mia professione.

In materia d’insegnamento credo che gli insuccessi siano importanti quanto i successi. Gli insuccessi ti invitano a fare un bagno di realismo, evitano di volare troppo alto e impediscono di farti troppo male quando cadi; non mettere in conto qualche caduta è da imprevidenti. Quando ti ritorna di meno dagli studenti devi mandare giù il boccone amaro e andare avanti facendo tesoro di ogni loro reazione, anche – e soprattutto – di quelle negative. Ciò può aiutare a diventare ogni giorno un professore migliore del giorno prima. E i successi allora? Be’, quelli sono carburante per l’anima e ti danno la forza per proseguire il cammino dell’insegnante.

Ho la sensazione che alcuni studenti – una minoranza – siano molte volte mossi da uno spropositato amor di polemica e abituati a sentirsi sempre incolpevoli dei loro scarsi rendimenti. Della serie: è sempre colpa di una forza esterna, sia essa il professore troppo severo, oppure il libro di testo difficile, o le dispense di cui non si legge bene una lettera su mille, eccetera. Come se fossero delle povere vittime in mano a carnefici che li vessano e li valutano come non avrebbe fatto nemmeno il famigerato inquisitore Tomás de Torquemada.

Ad alcuni studenti poco maturi basta una sola valutazione negativa per farli millantare chissà quale torto subìto. Puoi provare a farli ragionare dicendo loro che lo stesso professore che li ha valutati la volta prima positivamente e la volta dopo in maniera negativa, non può essere bravo nel primo caso e un asino ragliante nel secondo. Se gli si concede di averci preso in caso di valutazione favorevole, allo stesso modo bisogna fidarsi in caso di valutazione sfavorevole.

Ci tengo davvero che i miei studenti imparino ad accettare con serenità i voti, qualsiasi essi siano. La valutazione è importante, però più ancora conta capire che occorre studiare per acquisire un bagaglio culturale e delle competenze che possono tornare utili nella propria vita, non per un’effimera gratificazione. Per carità, i bei voti fanno gola a tutti e bisogna cercare di ottenerli senza però drammatizzare troppo se non si riesce a raggiungere il livello sperato. Insomma, se va bene un’interrogazione o un compito, bene, altrimenti non facciamone un dramma. Prima degli studenti questo dovrebbero capirlo i genitori, che dovrebbero aiutarci ad aiutare a far capire ai loro figli che un brutto voto non è la fine del mondo, purché non si smetta di volersi migliorare. L’anelito al miglioramento dev’essere uno sprone costante nella propria vita. Chi non si vuole più migliorare è pronto per il pensionamento anticipato.

La scuola che vorrei dovrebbe mettere tra parentesi i voti alla maniera dei fenomenologi, non toglierli, minimizzarli piuttosto. I fenomenologi ricalibrarono l’espediente filosofico della epochè, teorizzato dagli stoici al fine di sospendere l’assenso sulla realtà circostante. Il perché di questa sospensione gli stoici lo giustificavano vista la fondamentale incertezza di ogni conoscenza. I fenomenologi, più cauti degli stoici, intesero la epochè come un mettere tra parentesi il mondo per ritornare alle cose. Prima dell’avvento della fenomenologia, secondo il loro fondatore Edmund Husserl, troppo concentrati sul mondo i filosofi si erano dimenticati delle cose che in esso vi abitano e che sono meritevoli della più alta considerazione filosofica. La messa tra parentesi dei voti a scuola è secondo me utile perché il voto che stai dando al ragazzo di oggi deve trovare conferma nella buona operosità dell’uomo di domani. Cosa voglio dire? Conosco alcuni primi della classe che neanche si sono laureati, così come sono a conoscenza di studenti con difficoltà al liceo che sono letteralmente sbocciati all’università e poi nella vita lavorativa.

Ecco, io credo che il peccato originale della docimologia – scienza della valutazione – sia enfatizzare l’importanza dei criteri quantitativi, dimenticandosi le più importanti finalità qualitative dei voti, che sono solo uno strumento per raggiungere uno scopo più grande: la formazione di chi quel voto lo riceve. Per questo la valutazione formativa sarà sempre da preferire a quella sommativa. La media matematica dei voti non ci dice niente dell’educando a cui sto mettendo quel voto che non può mai essere fine a sé stesso, bensì un fine in vista del raggiungimento di un più alto grado di crescita personale dell’educando. Un professore che si dimentica questa valenza del voto ha venduto la propria anima al paradigma della scuola come azienda, che è di preciso ciò che mi spinge a pensare e sperare alla scuola che vorrei.

Sono convinto che finché si pensa a come si vorrebbe la scuola, c’è la speranza di poterla migliorare, che per me vuol dire restituirle la centralità che merita e che spaventa tanto quella parte ormai preponderante della politica che è inquinata dal pensiero economicista. Paragonare la scuola a un’azienda e utilizzare il lessico aziendale per descriverla ne ha sminuito il valore universale. Per fortuna che la maggior parte dei colleghi che conosco è lontana anni luce dalla visione ristretta degli economicisti; non si deve guardare tutto con la lente d’ingrandimento dell’economia, che è certamente una componente importante da considerare, seppure non può essere l’unica. Se la nostra società insegna a reputare dei vincenti solo quelli che riescono a fare soldi, la scuola che vorrei dovrebbe insegnare ai ragazzi che vince solo chi diventa ciò che è in potenza, realizzando la sua potenzialità umana come vorrebbe Nietzsche. Ergo: tutti potremmo vincere se riuscissimo a realizzare il nostro volere, diventando quello che in cuor nostro sappiamo di essere e non adeguandoci a quello che altri vorrebbero che diventassimo. Il vero perdente è colui che abdica al suo volere per inseguire quello altrui e con ciò si condanna a una vita insoddisfacente. Mentre conduce una vita soddisfacente chi fa quello che vuole e non quello che gli altri vogliono per lui.

A differenza della scuola come azienda, la scuola che vorrei non insegna a fare soldi, ma fornisce una metaforica cassetta degli attrezzi per condurre una vita ben fatta, come la testa di cui predicava Montaigne.

L’irriducibile fatica della vita

Il pensiero positivo è utile fino a un certo punto. Nessuno come un campione sa quant’è dura vincere, quanta fatica ci vuole per portare a casa un risultato importante. Ci si deve allenare a una genuina quanto salubre fatica quotidiana. Abituare un ragazzo alla mollezza è il peggiore torto che gli si possa fare e il migliore viatico per renderlo un adulto spiantato, deresponsabilizzato, scansafatiche, un reietto insomma.

Prendiamo i grandi campioni dello sport. Quando c’è il momento decisivo della partita, quello che ti fa vincere una finale, quando insomma deve fare goal, buttare di là dalla rete la palla, far muovere la retina del canestro, stampare una schiacciata sulle righe, è proprio in quel frangente che emerge il fuoriclasse. Noi dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi a diventare i campioni delle loro vite. Per farlo dobbiamo disingannarli, ovvero, togliere dalla loro testa l’inganno che va sempre tutto bene.

Il pensiero positivo è utile fino a un certo punto. Nessuno come un campione sa quant’è dura vincere, quanta fatica ci vuole per portare a casa un risultato importante. Ci si deve allenare a una genuina quanto salubre fatica quotidiana. Abituare un ragazzo alla mollezza è il peggiore torto che gli si possa fare e il migliore viatico per renderlo un adulto spiantato, deresponsabilizzato, scansafatiche, un reietto insomma.

Favoleggiare che se uno pensa di continuo positivo tutto gli si spianerà davanti è una pericolosa illusione. Chi ci crede magari raggiunge il satori buddhista, cioè si risveglia spiritualmente e acquisisce un superiore livello di consapevolezza: l’esistenza è sofferenza e noi dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per evitare situazioni che possono crearci attaccamento per qualcosa o qualcuno. Chi diventa consapevole di ciò, riesce poi a vivere in una maniera molto simile a quella auspicata dalle filosofie ellenistiche (epicurea, stoica, scettica), che vietano le passioni o, tutt’al più con chi non sa proprio farne a meno, si raccomandano di astenersene quanto più possibile. Come se fosse lodevole vivere senza provare passione per niente, neanche fossimo delle statue di bronzo, anziché creature palpitanti, in grado di sentire prima ancora che di pensare. Dunque, la sofferenza va accettata, bisogna prenderne atto; insomma, non può essere estirpata. Glorificata quello mai, non c’è gloria nel dolore, per quanto anni di catechismo hanno voluto insegnarci il contrario. Da cristiano, non penso di essere blasfemo nel dire che di Cristo ce ne è solo uno. Per quanto voglia disilluderci, credo che il buddhismo ci illuda più del cristianesimo, fermo restando la mia stima nei confronti di una religione che già Nietzsche aveva definito la più filosoficamente illuminata e che a me ricorda il nobile tentativo di affrancamento dalla condizione umana tentato dalle filosofie ellenistiche. Tentativo, questo, a mio avviso destinato a naufragare, per quanto lodevole nelle intenzioni, data l’essenza umana che è la sofferenza. Qui intendo essenza come ciò che vi è di più fondamentale in noi esseri umani fatti di carne e sangue, per dirla con Unamuno.

Perché considero il pensiero positivo una solenne fregatura? Può ingannare persone fragili pronte ad aggrapparsi al primo guru dispensatore di banalità trite e ritrite ma vendute a peso d’oro, non persone dotate di un minimo raziocinio. Questi santoni del marketing aziendale dei nostri tempi che cosa fanno se non liofilizzare filosofie occidentali o correnti di pensiero orientali creando slogan facilmente memorizzabili, che riconducono la nobile arte del pensare a formule semplicistiche del tipo: “Se vuoi, puoi, e se puoi, allora credici e ce la farai”. Che dire, mi dispiace per chi ci casca. Tu puoi, se sei. Se sei cosa? Se sei ferrato in quello che fai; se sei responsabile, competente, resiliente; se sei in gamba, insomma. Altrimenti, se sei una persona che vive seguendo i nuovi sofisti del self help, non ce la fai, non ci sono santi che tengono, dev’essere chiaro. Voglio che i miei ragazzi abbiano la cognizione di quanto sia duro ma possibile farcela. Lo sarà se saranno disposti a rimboccarsi le maniche e a lasciare da parte le lamentele. Chi si impegna ce la potrà fare, questo è il messaggio che deve arrivare. Prima si smetterà di ingannarli raccontando loro delle frottole e prima si farà loro un favore. Abituarli alle lamentele significa disabituarli alla irriducibile fatica della vita.

Da Machiavelli a Nietzsche

Per Machiavelli il principe non deve farsi troppi scrupoli nel prendere decisioni dalla moralità discutibile, quantomeno secondo l’usuale morale cristiana; così come per Nietzsche il Superuomo deve andare al di là del bene e del male cristianamente inteso.

Machiavelli riporta alcuni episodi tra cui uno particolarmente utile per comprendere i talenti di Cesare Borgia, il suo principe ideale. Si narra che “[…] non fidandosi della Francia e di altre forze estranee e non volendo correr rischi con esse, decise di ricorrere agli inganni.” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 93.) Famigerato rimane il tranello teso a Paolo Orsini, che Machiavelli riporta restando fedele agli eventi. “Il duca colmò costui di cortesie e lo rassicurò fornendogli danaro, abiti e cavalli, tanto che gli Orsini finirono, per dabbenaggine, col consegnarsi nelle sue mani in Sinigaglia. Cesare Borgia uccise i capi del partito degli Orsini, compreso Paolo, e costrinse i partigiani a diventargli amici. Pose in tal modo fondamenta assai buone al suo potere” (p. 93).

Cosa insegna l’inganno teso contro gli Orsini presso la rocca di Senigallia? Per la morale cristiana suscita riprovazione un simile modo di agire tanto spietato e vigliacco, invece Machiavelli pare sciogliersi come un ghiacciolo al sole nel raccontare questa che lui reputa una prodezza da fuoriclasse della politica dei suoi tempi. Questo perché per Machiavelli morale e politica non sono compatibili. Quel che è certo per lui è che il talento politico di un eccellente principe non si misura sul grado cristiano di bontà, quasi a voler suggerire l’idea che la bontà è un lusso che un consumato politicante non può permettersi.

Per essere incisivi in politica occorre talvolta essere spietati e all’occorrenza vigliacchi, perché l’insegnamento tratto dalla lettura de “Il principe” di Machiavelli è che: “il fine giustifica i mezzi” adoperati per ottenerlo. Per quanto di questa frase non vi è traccia ne “Il principe”. A ogni modo, è innegabile che alcuni passi dell’opera – fra tutti i capitoli diciotto e diciannove – si prestino a trasmettere una filosofia “amorale”, che Nietzsche definirebbe da Superuomo.

A questo proposito, il collegamento tra il principe ideale vagheggiato da Machiavelli e lo “Übermensch” nietzscheano è tutt’altro che infondato. Per Machiavelli il principe non deve farsi troppi scrupoli nel prendere decisioni dalla moralità discutibile, quantomeno secondo l’usuale morale cristiana; così come per Nietzsche il Superuomo deve andare al di là del bene e del male cristianamente inteso. Infatti, sia Machiavelli sia Nietzsche ritengono che per fare la storia e non limitarsi a subirla si debba avere: una condotta inflessibile pur di raggiungere i propri scopi politici secondo il primo e pur di accrescere la propria volontà di potenza per il secondo.

La filosofia del Drugo

Il Drugo è un debosciato o un maestro zen? Trovo la seconda ipotesi più corretta. Perché? Il Drugo abbraccia la logica paradossale degli orientali e si tiene alla larga dalla logica aristotelica degli occidentali imperniata sul principio di non contraddizione, che rinnega, proprio come Nietzsche.

Chi è il Drugo? Così come Jeff Bridges rispondo: “Io sono il Drugo!”. E lo siete anche voi se… amate prenderla come viene perché tanto, si sa, la vita è una giostra impazzita e bisogna assaporarla finché si è vivi… apprezzate la trinità drughiana, ovvero, quattro chiacchiere con gli amici, una birretta e una partitella a bowling, va bene però qualsiasi altro sport… adorate uscire di casa in pantofole o sandali o ciabatte 365 giorni l’anno… non vi scandalizza l’idea di andare al supermercato in vestaglia giusto per rifornirvi della vostra marca di birra preferita. Se avete fatto o fareste queste cose, be’, siete dei Drughi anche voi e vi meritate di rivedervi “Il grande Lebowski”, film capolavoro dei fratelli Coen. E se non vi basta e siete curiosi di sapere cos’hanno in comune Drugo e Nietzsche, vi consiglio di leggere il mio “Filosofi da Oscar”, libro che fa dialogare filosofia e cinema; un libro di filosofia per non accademici, ovvero che può essere letto e anche capito – si spera – da gente solo curiosa di filosofia, che ha avuto modo di degustarla a qualche festival estivo, che l’ha studiata al liceo – o avrebbe voluto ma ha fatto un’altra scuola – e vorrebbe riprenderla; insomma, chiunque abbia voglia di andare un po’ più a fondo delle questioni ed è stufo di rimanere fermo alla superficie (la superficialità è un vestito che ad alcuni sta più scomodo che ad altri).
Filosofi da Oscar” vuole essere un inno a una filosofia per tutti (e non solo per qualcuno). Perché poi, diciamocelo, il problema della filosofia è che si è sempre presa troppo sul serio e anche se è una cosa dannatamente seria – forse proprio per questo – ogni tanto i filosofi dovrebbero rilassarsi un po’ e “prenderla come viene”, alla maniera del Drugo.
Il Drugo è un debosciato o un maestro zen? Trovo la seconda ipotesi più corretta. Perché? Il Drugo abbraccia la logica paradossale degli orientali e si tiene alla larga dalla logica aristotelica degli occidentali imperniata sul principio di non contraddizione, che rinnega, proprio come Nietzsche. La verità è bianca o nera? Dipende se si è o no juventini (per me è bianconera per esempio). Battute a parte, secondo Aristotele o è bianca o è nera. Ma lo è pure per Nietzsche e per il Drugo e per tutti quelli che la prendono come viene. Il “prenderla come viene” è il leitmotiv filosofico de “Il grande Lebowski”.
Cosa accomuna Drugo a Nietzsche? Il “prenderla come viene” del primo fa il paio con “l’amor fati” del secondo. Scegliere il proprio destino e amarlo. Perché lottare contro la corrente se è tanto bello lasciarsi trasportare da essa? Certo, purché si scelga in quale corrente nuotare o affogare. Per esempio: scegli che il tuo destino è essere un tennista, allora devi pure amarlo al punto da non metterti – che ne so – a fare l’avvocato o il fornaio. Lo stesso dicasi per il suddetto avvocato o fornaio, che non deve deviare dal proprio percorso esistenziale mettendosi a fare il tennista. In altre parole: seguire sempre la corrente. Ovunque vi porterà andrà più che bene, perché è là che da sempre volevate andare.
Ora, strano a dirsi, “Il grande Lebowski” è uno di quei film che possono non piacere alla prima visione, già alla seconda o alla terza risulta più convincente, come mai? Perché il Drugo tira fuori il lato trash che vi è in noi, che rinneghiamo ma che alla fin fine… non ci dispiace.
Apprezzare il Drugo significa essere giunti a una nobile verità: l’abito non fa il monaco. E il monaco non fa l’abito (a quello ci pensa il sarto). Di solito, i più loschi individui indossano giacca e cravatta; sono dei piazzisti spregiudicati e vogliono rifilarti titoli tossici; solo per via di un terribile equivoco vengono chiamati affaristi e non criminali, come meriterebbero.
Chi apprezza il Drugo, non può non apprezzare anche Nietzsche, che è stato un grande Drugo della storia. Dietro a quei baffoni enigmatici celava la saggezza del tipo che sa “prenderla come viene”, tenendo botta, nonostante una vita tutt’altro che “rosa e fiori”. Ma proprio in questo sta la sua grande saggezza: Nietzsche – come ogni grande Drugo prima e dopo di lui – ha amato il suo destino (questo è il senso della rivisitazione nietzscheana del concetto di “amor fati”); ha saputo accettare come pochi la solitudine e l’incomprensione, entrambe riservate in vita ai grandi geni. Il suo merito è stato quello di averci fatto guardare dentro all’abisso, che a sua volta ha finito poi per rimirare dentro di noi. E cosa ci ha trovato? Niente che a noi sia estraneo, solamente: il bene e il male, ovvero, il meglio e il peggio di cui l’uomo è capace.

Il problema della “volontà di potenza”

[…] ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche.

Diventare ciò che si è” significa nietzscheanamente realizzare la propria “volontà di potenza”, oltrepassare il ponte che dall’uomo proietta al Superuomo, ovvero divenendo a tutti gli effetti: il dio di se stesso. E se ognuno è il proprio dio, non c’è bisogno del Dio nei cieli e per ogni uomo c’è una morale propria che gli si addice. Per questo Nietzsche apre la breccia al relativismo dei valori della nostra epoca, da alcuni ritenuto una liberazione, gli anticristiani che vedono nietzscheanamente nel cristianesimo l’origine di tutti i mali dell’uomo, e da altri invece un’aberrazione, i cristiani o coloro che sono idealmente vicini alle istanze cristiane. A chi vada la ragione è da vedere, anche se, abbracciando una visione relativistica dell’esistenza, si potrebbe dire che la ragione vada sia agli uni sia agli altri, in quanto con alcuni funziona di più una certa visione del mondo, mentre con altri un’altra, è relativo appunto, dipende dal singolo. Motivo per cui ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche. Badate bene, non voglio dire che lo abbia snaturato. Di certo qualcosa della filosofia nietzscheana è compatibile con la perversione nazista (soprattutto per quanto concerne il concetto di “volonta di potenza” mi vien da dire), però credo ci sia fra le righe una parte del pensiero nietzscheano che si possa e si debba salvare. A cosa mi riferisco? Alla valenza che esso ha per il singolo individuo, lo stimolo vitalistico che le parole di Nietzsche riescono a infondere nel lettore non del tutto sprovveduto, ovvero quello capace di farsi ispirare dal genio “sano” e perdonare il folle “malato”. Sanità e malattia sono infatti due categorie imprescindibili che si devono tenere in debito conto se si vuole meglio comprendere, cioè abbracciare, la complessità nietzscheana.
In ultima analisi, ciò che dico è molto semplice: c’è un Nietzsche “sano” che credo vada tutelato come patrimonio dell’umanità e un Nietzsche “malsano” che ritengo vada compatito. Perché? Non so voi, ma io ho un rispetto enorme per le persone che soffrono sia a livello fisico sia psichico e Nietzsche credo si possa ragionevolmente dire che abbia sofferto abbastanza nella sua vita. Ragion per cui se in alcune delle sue pagine a prevalere è più il livore della genialità, da uomo a uomo, non mi sento – in tutta franchezza – di fargliene una colpa.

Nietzsche e il dio di se stesso

In ultima istanza, la curiosità di Eva è propria di chi mira a farsi dio, il dio di se stesso e con ciò tradisce il patto di obbedienza stipulato con il proprio Creatore.

In materia religiosa ne “L’anticristoNietzsche elogia il “codice di Manu” come a significare, che in altre religioni, diversamente da quella cristiana, la figura della donna non è poi vista come causa di tutti i problemi, bensì viene addirittura idealizzata fino a essere identificata come portatrice del valore più sacro di tutti: quello di dare la vita. Infatti secondo questo codice, ma anche secondo una certa non trascurabile letteratura gnostica (la gnosi è la più antica eresia cristiana), la donna simboleggia la fusione con la spiritualità divina (la Pistis Sophia). Mentre l’uomo sarebbe invece legato alla dimensione carnale, dunque terrena.
A riprova di tutto ciò vi è il peccato originale commesso da Eva; peccato che simboleggia l’insaziabile sete di conoscenza propria della donna ma anche dell’uomo (se ci rifacciamo alla visione del libro della “Genesi”, la donna è stata tratta dall’uomo in quanto ne è una costola). La spinta conoscitiva di Eva, che vuole conoscere i segreti del bene e del male, sta a significare la tensione connaturata alla creatura umana che vuole oltrepassare i confini della propria limitata umanità, “umana troppo umana” direbbe Nietzsche. In ultima istanza, la curiosità di Eva è propria di chi mira a farsi dio, il dio di se stesso e con ciò tradisce il patto di obbedienza stipulato con il proprio Creatore.

Il sapiente Nietzsche

Che dire poi del rapporto di Nietzsche con il vicino Oriente, se non che il suo pensiero ha più cose in comune con lo spirito sapienziale degli orientali piuttosto che con lo spirito fin troppo razionale degli occidentali.

Fra i pensatori occidentali il maestro indiscusso di Nietzsche fu senz’altro Schopenhauer, con il quale l’autore de “L’anticristo” condivide il concetto di volontà. Soltanto che se per l’allievo Nietzsche questa è una forza positiva (si veda la sua volontà di potenza), per il maestro Schopenhauer la volontà è una forza fondamentalmente negativa, che ci rende più schiavi che liberi.
Una certa parentela Nietzsche ce l’ha pure con un filosofo dell’antichità: Eraclito, la cui filosofia del divenire è riassumibile con l’adagio “panta rei”, ovvero “tutto scorre”.
Più problematico è il rapporto con i tre grandi e illustri mostri sacri della filosofia antica: Socrate, Platone e Aristotele, direi soprattutto con quest’ultimo di cui non sopporta l’opprimente “principio di non contraddizione”, che mal si concilia con la visione nietzscheana della vita come contraddizione inevitabile e incessante.
Che dire poi del rapporto di Nietzsche con il vicino Oriente, se non che il suo pensiero ha più cose in comune con lo spirito sapienziale degli orientali piuttosto che con lo spirito fin troppo razionale degli occidentali.
Tra sapienza e ragione Nietzsche sceglie la prima a occhi chiusi, sin dal suo esordio nella filosofia che conta con il saggio “La nascita della tragedia”; esordio nel quale si scaglia con veemenza contro lo spirito razionale-socratico-apollineo uccisore dell’essenza migliore irrazionale-tragica-dionisiaca della cultura greca antica.
Oltretutto la sua vicinanza di pensiero con gli orientali è facilmente riscontrabile anche nella scelta, tutt’altro che casuale, di rendere il profeta indoiranico Zoroastro: l’eroe del suo capolavoro sia poetico sia filosofico “Also sprach Zarathustra”.

Nietzsche nella cultura popolare

Gli influssi di Nietzsche sulla cultura popolare testimoniano del suo largo successo, anche – e soprattutto – al di fuori del dibattito accademico.

“Solo chi ha un caos dentro di sé può generare una stella danzante” scrive in “Così parlò Zarathustra” e potrebbe dirsi il motto della sua tribolata esistenza. Pensiero, questo nietzscheano, parafrasato da una nota canzone “Baila (sexy thing)” del bluesman Zucchero “Sugar” Fornaciari a dimostrazione di quanto cultura alta e cultura popolare siano più allineate di quanto non si pensi.
Gli influssi di Nietzsche sulla cultura popolare testimoniano del suo largo successo, anche – e soprattutto – al di fuori del dibattito accademico. Cito solo alcuni casi senza nessuna pretesa di esaustività: sempre Zucchero che gli ha dedicato la canzone “Nice (Nietzsche) che dice”; a seguire il rapper Mezzosangue che lo menziona spesso nei suoi testi; e poi nietzscheano è – non so quanto consapevolmente – anche un altro cantautore italiano del calibro di Vasco Rossi. A proposito di quest’ultimo, si prenda la canzone intitolata “Un senso” e si presti bene ascolto quando recita: “Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l’ha”. Strofe, queste di Vasco, che sulla scia del pensiero nietzscheano rivelano quanto ciascuno di noi sia figlio del caos primordiale – ciascuno di noi se lo porta dentro volente o nolente – e proprio questa nostra discendenza c’induce a ricercare spasmodicamente un ordine superiore improponibile, ma che ci è però indispensabile anche solo per dare un’approssimativa rotta alle nostre esistenze bisognose di senso e il cui senso – appunto – va ricercato vivendole.
In definitiva: vivere è ricercare senso, perlomeno è quanto ho dedotto studiando e rielaborando la filosofia nietzscheana.

Nietzsche, filosofo o moralista?

[…] Nietzsche più che un filosofo è da ritenere un moralista, ovviamente non nel senso di uno che vuol farci la morale, anche perché la morale nietzscheana è nientemeno che un “sì” incondizionato alla vita, laddove il cristianesimo dice “no” a tutto ciò che è invece esaltazione del vivere […]

Di Nietzsche tutto si può dire tranne che sia stato un nichilista, semmai un umanista non del tutto compreso. Seppure di sicuro è stato un grande studioso del nichilismo, ma solo perché così ebbe almeno modo di riscontrare le crepe dei vecchi valori, fin troppo condizionati dal cristianesimo.
L’intento della sua filosofia era quello di distruggere il vecchio mondo morale per costruirne uno nuovo, da zero (“ex nihilo” cioè “dal nulla”), migliore e per i migliori. Motivo per cui secondo alcuni studiosi – Sossio Giametta in primis, grande traduttore e conoscitore del pensiero nietzscheano – Nietzsche più che un filosofo è da ritenere un moralista, ovviamente non nel senso di uno che vuol farci la morale, anche perché la morale nietzscheana è nientemeno che un “sì” incondizionato alla vita, laddove il cristianesimo dice “no” a tutto ciò che è invece esaltazione del vivere. Si veda la stigmatizzazione cristiana della vita sessuale, che per il dionisiaco Nietzsche è inammissibile essendo – per esempio – il sesso quanto di meglio la vita possa offrirci, o comunque fra quelle attività da considerare più vitalistiche.
La massima teorizzazione nietzscheana, vale a dire la volontà di potenza, cos’è se non un’orgogliosa e vibrante affermazione della vita e, di conseguenza, lotta senza quartiere e senza requie contro tutto ciò che vuole negarla o, a ogni modo, sminuirla. Definendo “peccato” il sesso al di fuori dello stretto recinto matrimoniale, il cristianesimo nega e sminuisce la vita stessa. D’altronde cos’è il sesso se non la massima espressione della potenza vitale anche nietzscheanamente concepita, poiché il sesso è vita e può produrre altra vita, se è quella la volontà di chi lo pratica. Quindi se un atto così bello e piacevole come il sesso incrementa la vita, perché contrastarlo alla maniera del cristianesimo paolino?

Filosofia per molti e non per tutti

Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.

Di questi tempi, tutti corriamo come dei matti, siamo sempre e di più trafelati, oberati da mille impegni che ci sobbarchiamo come illudendoci – non so – di essere immortali. Già, perché va bene dimenticarci come meccanismo di autodifesa la nostra dimensione mortale – a volte meglio non pensarci per godere appieno della nostra vita al presente –, però non dobbiamo nemmeno essere troppo schizofrenici, cioè a dire: perdere contatto con la realtà di ciò che siamo, creature che fingono soltanto di non sapere ciò che aspetta loro, che eternizzano il loro presente e lo vivono come se non fosse quello stillicidio di anni, mesi, giorni, ore, minuti, secondi che è in effetti. Appunto, considerando la meta, meglio capire come godersi il viaggio. Questo è ciò di cui si preoccupano i filosofi. Per voler essere dei guastafeste, si potrebbe senz’altro ribattere che c’è chi muore e non l’ha ancora capito. E con questo? “Capire” vale il prezzo del biglietto, anche se questo può voler dire soffrire proprio perché si è meglio compresa l’essenza di questa nostra vita: la sofferenza.
Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.
Credo si debba riscoprire una dimensione agonica del vivere, che vorrà pure dire soffrire e, per chi vuole vivere filosoficamente, capire questa sofferenza. Non è un caso se Edipo si acceca dopo avere appreso di avere ammazzato suo padre e avere generato figli con sua madre. Sapere questo, capirlo – “capire” è lo step successivo del “conoscere” – farebbe impazzire il migliore degli uomini, figuriamoci un assassino incestuoso. Comunque, meglio non accecarsi perché gli occhi vanno tenuti bene aperti e ci servono per vedere bene, con chiarezza, ci aiutano a capire. La visione, la vista è un coadiuvante della comprensione, la dilata, la fortifica. Perciò non mi resta che raccomandarvi di tenere gli occhi spalancati e augurarvi buon viaggio, con o senza filosofia, con o senza consapevolezza, a voi la scelta.
Costringere ad amare la filosofia è l’ultimo obiettivo che mi pongo. Non la penso come Epicuro e nemmeno come Nietzsche, la penso come me stesso e dico che la filosofia no, non è per tutti, ma per molti sì. Per quelli che non si accontentano a vivere e basta, ma vogliono vivere meglio, con più qualità, facendosi delle domande per darsi risposte funzionali, cioè che funzionino per sé. Il filosofo si pone domande “materiali”: cosa mangiare a pranzo o a cena, che film o serie televisiva vedere, che marca di crema solare comprare, che tragitto percorrere per andare al lavoro, eccetera. Come pure domande “spirituali”: chi siamo, da dove veniamo, che ci stiamo a fare qui sulla Terra, c’è vita solo “qui sulla Terra” o anche altrove, che cos’è la vita, perché c’è il tutto anziché il nulla e così via.
A costo di esagerare, la sparo grossa: forse persino Socrate si sbagliava a ritenere indegna una vita senza ricerca filosofica. Si può vivere “senza” filosofia (senza consapevolezza), ne sono convinto. È solo che, come Socrate, anche a me convince di più una vita “con” filosofia (con consapevolezza). Questo vuol dire che i filosofi sono maniaci del controllo? Non lo so, forse. O forse l’unico controllo che s’illudono o sanno di avere – chi può dirlo – è la consapevolezza di non poter controllare tutto e che a volte la corrente non si combatte, si asseconda se non si vuole affogare, come sa bene il nuotatore esperto. Oltretutto, ora che ci penso, non saprei in che altro modo vivere se non applicando, in ogni cosa che faccio, la mia filosofia di vita. In definitiva, la filosofia per me è tutto, ma questo “tutto” non lo è per tutti.