“Il dio del tennis” in lizza per l’edizione 2022 del Premio Fiesole Narrativa Under 40

Ringrazio per la grande opportunità, che rende onore a una storia di riscatto sportivo; scrivendola, ho voluto nobilitare il valore della lotta contro le avversità, che possono renderci più forti nel momento in cui riusciamo a trovare in noi la forza per superarle (qualora possibile).

COMPIERE LO SCOPO PER CUI SI È AL MONDO, RINGRAZIAMENTO IN TRE PUNTI

1. Lottare per vincere è l’unica cosa che conta e non vincere

Onorato ed emozionato di essere in lizza per l’edizione 2022 del Premio Fiesole Narrativa Under 40 con il mio romanzo “Il dio del tennis”, uscito di recente con Clown Bianco Edizioni.

Ringrazio per la grande opportunità, che rende onore a una storia di riscatto sportivo; scrivendola, ho voluto nobilitare il valore della lotta contro le avversità, che possono renderci più forti nel momento in cui riusciamo a trovare in noi la forza per superarle (qualora possibile).

Lo sport mi ha insegnato il valore del sacrificio, il dovere di sudarsi ogni benedetta vittoria, mai regalata, osando quel colpo in più e confidando nella Fortuna che aiuta gli audaci, come già sapevano i nostri avi Latini.

Avere più voglia di vincere dell’avversario è il lievito madre di ogni vittoria; poi se non si riesce nell’intento, poco importa. L’essenziale è mettercela tutta.

Lo sport – così come la vita – ci insegna che non si può vincere sempre. Lottare per vincere è l’unica cosa che conta e non vincere.

Sono sempre stato affascinato dalle imprese sportive degli outsider, di chi per svariati motivi parte sfavorito e poi finisce per assaporare la vittoria, anche per una sola volta nella vita.

Per qualche comprensibile motivo (forse la capacità di immedesimarsi nel vincitore contro pronostico), chi più vince da favorito, più risulta antipatico. I narratori di sport lo sanno e per questo esaltano le imprese degli sfavoriti. Non c’è niente di più romanzesco che rovesciare il pronostico.

Sarà per questo che, da narratore, non mi riconosco nella logica eccessiva del “vincere” come “l’unica cosa che conta”. Se non vinci, non sei nessuno, perché? Se non lotti, tutt’al più, hai ben poco di cui andare fiero, dico io. Questione di punti di vista.

2. L’unica guerra che merita di essere combattuta

Sono contento di essere stato un tennista e ora di avere anche scritto di tennis, uno sport che annovera un pregio non da poco secondo me. Ti ricorda che chi sta dall’altra parte della rete è solo un “avversario”, perché in fondo non esistono “nemici”, come alcune persone in malafede vorrebbero farci credere per piegarci ai loro giochi di potere. “Armatevi e partite, per Dio, per la patria, per la famiglia”, quanti di noi si sono tramutati in “carne da cannone” lasciandosi abbindolare da simili slogan guerrafondai? Troppi. Era davvero necessario per la migliore sorte dell’umanità? Da antihegeliano convinto non credo. Ciò che condivido invece di Hegel è il modo di rapportarsi col mondo, per come è. Fermo restando, però, che il primo passo verso un sostanziale miglioramento comincia teorizzando un mondo “migliore” alla maniera di Platone, senza dimenticarsi di quello su cui appoggiamo i piedi. Motivo per cui la querelle tra pensatori realisti e idealisti è presto risolta. La ragione è nella via mediana tra questi due opposti, che è anche la via più saggia in quanto più equilibrata.

Ne sanno qualcosa i narratori, consapevoli che le loro storie non reggerebbero senza equilibrio narrativo, così come qualsiasi squadra di qualunque sport non arriverebbe a certi risultati senza avere trovato il proprio equilibrio interno. Vale ugualmente per il tennista migliore, che non può che essere colui che riesce a sviluppare un gioco più equilibrato rispetto ai suoi avversari.

Persino i migliori giocatori si rendono conto di quanto effimera sia la gloria. Un giorno il “migliore” si chiama Sampras, quello dopo Federer, quello dopo ancora Nadal, poi Djokovic e via di questo passo. Riferirsi a qualcuno appellandolo come “migliore” nel suo settore di competenza ha senso solo se si trae da costui un esempio di condotta nella vita di tutti i giorni, pur essendo consapevoli che certe vette non competono a tutti. Alcuni riescono più di altri, mentre unico è il traguardo ingrato che ci attende e che dovrebbe tanto più invitarci a fare la pace, piuttosto che la guerra.

L’unica “guerra” che merita di essere combattuta è quella della vita contro la morte; l’esito della quale appare scontato ma, finché la vita avrà una parola da opporre alla morte, non sarà mai detta l’ultima. Ci aspetta una lotta titanica, quotidiana, incessante… una lotta a perdere, perlomeno se si decide di rimanere in un ambito squisitamente terreno. Questione di scelta personale, materia di fede.

Il “dio” di cui faccio cenno nei capitoli e nel titolo del mio romanzo tennistico “Il dio del tennis” va distinto da quel Dio extra-terreno a cui non mi stanco di credere, pur alla maniera dei filosofi. Per deontologia professionale (ed esistenziale aggiungerei), il mio non può che essere un credo “problematico”, che tiene conto del dubbio e accetta di confrontarsi con esso senza assecondarlo, anche se la tentazione nichilista in certi giorni può apparire forte.

Del resto, cosa pretendere da chi ha intitolato il suo romanzo d’esordio dedicato ai dorati anni universitari “Il circolo dei nichilisti” e fa ammettere all’io narrante protagonista vagamente autobiografico di essere stato un bambino alquanto stravagante, uno di quelli che posando lo sguardo al cielo già si poneva la domanda filosofica per eccellenza: “Perché c’è il tutto anziché il niente?”.

3. L’invenzione in malafede del nemico

Tra il tutto e il niente c’è di mezzo la vita, che amo celebrare nei miei romanzi. “Il dio del tennis” non fa eccezione: è una storia di vita ispirata a nessun tennista in particolare, ma in cui ciononostante si possono identificare svariati giocatori che hanno calcato i campi di tutto il mondo, da quelli meno prestigiosi fino ad arrivare a quelli del gotha del tennis mondiale.

Il protagonista Giovanni è tutto fuorché un vincente. È uno che lotta sia dentro sia fuori dal campo, la sua parabola è simile a quella di molti e le sue vicissitudini somigliano a una giostra impazzita. Un continuo saliscendi con uno scopo ben preciso: la risalita dagli inferi, anabasi, dopo esservi disceso, catabasi. Ogni cosa che vive ha il proprio scopo, dice Aristotele. Allo stesso modo, sono convinto che ogni narrazione debba avere il “proprio scopo”.

A essere sincero, non sono un amante dei finali aperti che lasciano in bocca al lettore un sapore d’incompiutezza. Mi piace credere che Aristotele avesse ragione nel dire che tutti abbiamo uno scopo da portare a termine. Per questo non si possono concepire storie con trame incompiute e, men che meno, con personaggi senz’arte né parte. Per indole non comincio a scrivere un libro se non so come farlo finire e non lascio a metà i personaggi che creo: mi scatenerebbe una rabbia che non saprei gestire, perché da premuroso padre letterario ambisco per loro a vederli più o meno felici, più o meno sistemati.

In un certo senso, credo che si dovrebbero distinguere due aspetti importanti del nostro essere umani, che vuol dire mortali. In quanto tali, da un lato finiamo per capitolare al cospetto del Grande Nemico, la morte appunto, dall’altro chi ci dice che simile Nemico ci sottrae alla vita da incompiuti? Credo che non solo in narrativa possano esserci vite compiute di personaggi, ma che esistano “vite compiute” di persone reali. Poi può anche avverarsi il contrario, sia in narrativa sia nella vita reale. L’amara verità che esistano storie e “vite incompiute”, però, non toglie meno “verità” a quelle storie o vite che riescono a raggiungere un degno compimento.

Ho detto che la vita avrà sempre una parola da opporre alla morte e questa non può che essere: amore. Esso è il più degno “coronamento” di ogni vita e di ogni storia a essa ispirata. Che cos’è l’amore? Credo dovremmo figurarcelo come una scala che dall’amore di sé ci porta alla più alta forma di amore, quella per il tutto o per Dio, a seconda delle proprie convinzioni. Ne risulta qualcosa di molto somigliante a quello che diceva Platone (non a caso sono autore di un saggio il cui titolo è già tutto un programma: “Eros alato”). La tappa intermedia per arrampicarsi in questa “scala” è l’amore per gli altri, ivi compresi i propri avversari.

A tale riguardo, nessuno sport come il tennis ti fa capire quanto “l’altro” sia per noi funzionale. Io non gioco – cioè non mi diverto – a tennis senza l’altro che mi sta di fronte e con il quale pratico degli scambi; lui tira la palla a me e io la tiro a lui, dall’altra parte del campo. Quando vado in battuta non a caso “servo” e l’altro “riceve”, nessuno gioca da solo a tennis a meno che non voglia tirarla contro il muro, ma in questo caso sarebbe peggio che giocare contro il banco al casinò. Il muro vince sempre.

La grandiosità dello sport è che i muri li tira giù e fa giocare assieme persino acerrimi “nemici”, o presunti tali. Lo sport abbatte i muri, crea ponti inaspettati e insperati tra i popoli, tra le persone; permette il dialogo che favorisce a sua volta la distensione dei rapporti. E in tempi di tensioni su scala planetaria, si dovrebbe all’opposto ritornare a un approccio più realista ai problemi. Tale “approccio” negli anni Settanta è stato adottato con successo da Henry Kissinger, stratega della realpolitik “a stelle e strisce”, nonché uno dei fautori di quel capolavoro diplomatico realizzato a cavallo tra il 1971 e il 1972 e passato alla storia come “diplomazia del ping pong”. Quantomeno curioso come questo sport di racchetta abbia reso possibile il clamoroso avvicinamento tra Cina e Stati Uniti, due potenze agli antipodi per concezioni filosofiche e visioni politiche: comunista l’una, capitalista l’altra, ora tornate a essere a dir poco sospettose l’una nei confronti dell’altra. Ripassare la storia non può farci male.

Precondizione di ogni dialogo distensivo è l’essere consapevoli di quella relazione speciale che c’è tra noi e gli altri, che ha spinto numerosi filosofi a riconoscere la natura relazionale dell’essere umano. Per favorire questa benevola inclinazione di pensiero, potrebbe venirci in soccorso proprio il tennis, il più “relazionale” degli sport. Tale relazionalità è tanto vicendevole quanto conflittuale. L’avversario mi pone davanti dei problemi che devo risolvere se non voglio soccombere ad essi e di conseguenza perdere la partita. Tra tutti gli avversari il più tosto da affrontare è quello che ci ritroviamo davanti ogni mattina: quello riflesso nello specchio. Avversario, questo, che possiamo battere come e più di chiunque altro, perché dovremmo conoscerlo meglio di tutti. Il guaio è quando non ci si conosce abbastanza, perché chi non ha una sufficiente conoscenza di sé rischia di rimanere un incompiuto.

In fin dei conti aveva ragione Socrate: conosci te stesso. Più arriveremo a conoscerci, aggiungo io, più soddisfazioni potremo toglierci, nel tennis come nella vita.

Volevo limitarmi a un ringraziamento e, per l’eterogenesi dei fini, ho finito con lo svelare il messaggio che sta dietro al mio romanzo “Il dio del tennis”: lottare ogni giorno per compiere lo scopo per cui si è al mondo.  

La filosofia non è una scienza ma è un’arte. Spiegazione in sei punti essenziali

Perché non c’è “una filosofia”, ma ne esistono di diverse? Questo perché la filosofia è plurale e antidogmatica per definizione, proprio come lo è la scienza, o per meglio dire: le scienze. Il filosofo non spaccia verità, offre semplicemente un diverso angolo di visione della realtà, alternativo a quello della massa. Ogni filosofo ha il suo angolo visuale, il suo personale buco della serratura da cui osserva con meraviglia il mondo; sul nesso che c’è tra filosofia e meraviglia si leggano le pagine immortali di Aristotele nella “Metafisica”.

Primo punto, il senso del limite

La filosofia non è una scienza, ma il paradosso – i paradossi piacciono molto ai filosofi – è che la sua influenza sulla scienza è evidente. In che modo? Per via di un metodo che è possibile definire “scientifico”, che la filosofia ha trasmesso alla scienza, qualunque “scienza”; un metodo basato sul celebre dubbio cartesiano, che vanta come progenitori gli antichi filosofi scettici.

La filosofia ha fatto e continua a far porre alle scienze dei seri interrogativi sulle finalità che esse dovrebbero perseguire. Fino a “dove” possono spingersi senza mettere in pericolo di autoestinzione l’essere umano, l’unico animale in grado di provocare o accelerare la propria distruzione? Questo è l’interrogativo più pressante che la filosofia “sbatte in faccia” a ogni scienza cosiddetta “esatta”.

Una prova sconcertante di questa capacità autodistruttiva propria dell’uomo sono state le bombe atomiche sganciate il 6 e il 9 agosto del 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, che hanno sì messo la parola “fine” alla Seconda guerra mondiale, ma hanno anche inaugurato l’inquietante epoca storica ancora in corso di svolgimento. Quale? Quella che potremmo definire a pieno titolo come “l’età della deterrenza nucleare”, per l’appunto “ancora in corso” perché non è cessata con la Guerra Fredda nel 1991, anno dello scioglimento dell’Unione Sovietica.

Battuta l’Unione Sovietica in quella che è passata alla storia come “Guerra Fredda”, gli Stati Uniti hanno dovuto e continuano a dover affrontare altri nemici: il terrorismo sia interno sia esterno e la fin qui muscolare concorrenza geopolitica di superpotenze emergenti, su tutte la Cina. Il primo nemico che sembrava se non del tutto sconfitto, quantomeno in forte contenimento, potrebbe rialzare la testa dopo il recente assalto al Campidoglio di quelli che sarebbero sbagliato definire soltanto degli “eccentrici” e il precipitare degli avvenimenti in Afghanistan, che riportano le lancette della storia indietro di vent’anni. Mentre il secondo nemico potrebbe alla lunga innescare – Dio non voglia – la famosa “trappola di Tucidide”, dal nome dell’autore del classico della storiografia antica, “La guerra del Peloponneso”; trappola che consisterebbe nella disgraziata eventualità per cui la potenza emergente, messa alle strette e sentendosi in trappola, potrebbe reagire cominciando una guerra contro la potenza egemone; una guerra finalizzata a sostituirsi a quest’ultima nel ruolo di potenza egemonica, un po’ quanto avvenuto – per la precisione – nell’antichità tra l’emergente Atene e l’egemone Sparta, con la Cina calata nella parte della prima e gli Stati Uniti nella parte della seconda, volendo attualizzare.

Già all’indomani degli avvenimenti giapponesi, che posero fine al più sanguinoso e odioso conflitto della storia, alcuni scienziati hanno posto i riflettori sull’orlo del precipizio che sta lì davanti a noi, costituito da un’eventuale, ulteriore guerra mondiale, che, se combattuta, potrebbe portare all’estinzione dell’intero genere umano, o – tutt’al più – andarci molto vicino. Parafrasando il fisico Albert Einstein, una delle più geniali menti del Novecento, in caso si arrivasse a combattere una Terza guerra mondiale è lecito aspettarsi che un’ulteriore Quarta verrebbe combattuta con le clave di pietra…

Le scienze, tra cui la fisica che ha portato alla sciagurata creazione delle armi atomiche, soffrono da sempre di smanie di onnipotenza e anelano all’illimitato, mentre la filosofia insegna loro a fare i conti con il senso del limite, di cui molto spesso esse si dimenticano. In particolare, c’è una branca della filosofia, la filosofia morale, che si occupa di ricordarci i nostri limiti. Quale utilità potrebbe mai avere tale fastidioso promemoria? Potrebbe tornarci utile per superare questi “limiti”, perché solo ammettendoli ci è dato modo di cominciare un processo di costante, faticoso miglioramento atto a superarli, uno alla volta; per quanto ne rimarrebbe sempre uno pressoché invalicabile. Mi rendo conto che ciò che ci ricorda la nostra fondamentale impotenza può dare fastidio, ma fare finta di essere indistruttibili equivarrebbe a prendersi in giro e questo sarebbe un atteggiamento poco filosofico. Più del nostro “meglio” non ci è dato fare, non siamo onnipotenti. Prima lo capiremo e prima dimostreremo un’attitudine filosofica.  

Secondo punto, la filosofia è un insieme di filosofie e la più socratica è quella morale

S’immagini la filosofia come una grande scatola che ne contiene al proprio interno di più piccole. Ecco, la morale è uno di questi contenitori più “piccoli” contenuto dentro la più “grande” scatola filosofica. Motivo per cui la morale è quella sottocategoria filosofica più socraticamente intesa, ossia più praticata da Socrate, colui che in molti considerano il fondatore della filosofia; tant’è vero che si divide un periodo prima e uno dopo di lui, un po’ com’è stato fatto in ambito cristiano dove c’è stata una suddivisione tra un’età precedente e un’altra successiva alla venuta di Cristo.

Di cosa si occupa la filosofia morale? Per prima cosa bisogna sgomberare il campo agli equivoci: il filosofo morale “alla Socrate” non ha la benché minima pretesa di “farci la predica”, bensì vuole stimolarci a riflettere su ciò che è lecito considerare giusto e – di conseguenza – su cosa invece non lo sia. Perché soccorrere una persona che sta per affogare in mare è da considerarsi come un qualcosa di intrinsecamente giusto in sé e per sé, mentre togliere la vita non è mai giusto o lo è solo a determinate condizioni, a seconda di quale morale si voglia abbracciare, se una idealistica piuttosto che una realistica? Ce lo spiegano “le” filosofie morali, al plurale appunto, perché vi sono “più filosofie” all’interno del grande contenitore filosofico, ma ve ne sono anche di diverse all’interno delle singole scatole filosofiche contenute all’interno del più “grande contenitore”. Tanto da potersi spingere a dire che la filosofia è un insieme di scatole, ognuna con la propria legittimità e importanza. La più socratica di queste scatole è la filosofia morale.

Perché non c’è “una filosofia”, ma ne esistono di diverse? Questo perché la filosofia è plurale e antidogmatica per definizione, proprio come lo è la scienza, o per meglio dire: le scienze. Il filosofo non “spaccia” verità, offre semplicemente un diverso angolo di visione della realtà, alternativo a quello della massa. Ogni filosofo ha il suo angolo visuale, il suo personale buco della serratura da cui osserva con meraviglia il mondo; sul nesso che c’è tra filosofia e meraviglia si leggano le pagine immortali di Aristotele nella “Metafisica”.

Terzo punto, eccentricità e interiorità della filosofia

La filosofia è la più eccentrica delle discipline. Il suo sapere stesso è stravagante, nel senso che è più metodologico che contenutistico.

Contenuti filosofici ce ne sono e sono – ovviamente – le parole scritte ma anche i discorsi riportati per iscritto dei filosofi che ci accompagnano di epoca in epoca in un viaggio emozionante alla scoperta del pensiero, che non fa che ripensarsi in continuazione. Un viaggio più interiore che esteriore, che parte dal proprio sé e in esso fa ritorno.

Quarto punto, conosci te stesso e diventerai il pastore della tua vita

L’obiettivo più grande e nobile che ciascun filosofo si pone nella propria indagine onnicomprensiva della realtà è la conoscenza di sé. “Conosci te stesso”, questo è il severo monito socratico. Solo chi arriverà a conoscersi fino in fondo potrà dirsi libero. Da cosa? Dalla tirannia del conformismo, che porta all’adeguarsi alla massa con la patetica scusa del “tutti la pensano così e quindi è bene che io mi adegui”; imperdonabile “scusa” che spesso ci fa comportare da pecore belanti e ci impedisce di diventare i pastori delle nostre vite.

Come si fa a diventare il proprio pastore? Basta ritagliarsi uno spazio per pensare anziché limitarsi a vivere ogni momento con frenesia, perché “chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Magari questo modo di pensare poteva andare bene per il rinascimentale Lorenzo de’ Medici, ma non può funzionare per chi crede nel dovere dell’affrontare le grandi sfide di domani; “sfide” che impongono al singolo l’infaticabile ricerca della propria dose quotidiana di certezza, resistendo alla tentazione d’imboccare scorciatoie facili e fatalistiche.

Quinto punto, andare veloce non ti fa arrivare dove vorresti davvero

La filosofia è amica della lentezza. Il filosofo va lento mentre tutti gli altri attorno a lui corrono, il più delle volte senza sapere di preciso per andare dove. Il filosofo va “piano” perché vuole arrivare “lontano”, come insegna la troppo bistrattata saggezza popolare, non sempre in disaccordo con quella filosofica. Se proprio la si vuole dire, il filosofo è più un maratoneta che un centometrista; si rende conto che la vita è una maratona, si corre sulle lunghe distanze e la sua parte più succosa la si assapora “durante” la corsa e non al traguardo, uguale e deprimente per tutti.

Dov’è che ci conduce questa disciplina atipica, la filosofia? In noi stessi, come già detto. In una certa misura è come se ci restituisse a noi stessi. La filosofia ha la grande pretesa di insegnarci a pensare con la nostra testa, pensiero che può nascere solo da un’intima e profonda conoscenza di sé.    

Sesto punto, l’arte del dubitare

Se non è una scienza, allora che cos’è questa particolare disciplina? La filosofia è un’arte, l’arte del dubitare di tutto per comprendere meglio il Tutto che ci circonda.

La filosofia ti apre gli occhi

A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi.

Certi professori ti cambiano la vita, è proprio vero. A me è successo in età liceale, in terza liceo, quando conobbi la mia professoressa di filosofia. Fu la prima a credere in me. Fino a quel momento ero stato uno studente discontinuo, con una predilezione per le materie umanistiche. In italiano me l’ero sempre cavata, leggevo un po’ di tutto e i miei temi erano famosi tra i miei compagni. Perché? Uno stile pungente e uno spiccato spirito critico mi guadagnarono non solo consensi, ma anche attriti con i miei compagni e alcuni docenti.

La scintilla scoccò quando incontrai sul mio cammino la filosofia, una materia tanto misteriosa, all’inizio, quanto stimolante man mano che la conoscevo meglio. Cominciarono le prime verifiche, i primi risultati eccellenti e, dopo essere stato per anni un buon tennista, m’interessai sempre meno al tennis e sempre più al “so di non sapere” di Socrate, al mondo delle idee di Platone, all’atarassia di Epicuro… da quel momento in poi non fu più possibile per me vivere senza filosofia.  

Come conoscenze appresi le principali teorie professate dai filosofi nel corso dei secoli. Imparai che non potrebbe darsi alcuna filosofia senza il dubbio; un dubbio metodico, strategico oserei dire, che impone la hegeliana “fatica del concetto”, il lavorio incessante della mente che non si accontenta di quel poco che sa ma che, vorace, vuole sapere sempre di più; peculiarità della filosofia è appunto questa sua curiosità innata. Il filosofo proprio perché ammette socraticamente di “non sapere” è portato a interessarsi a tutto, non si pasce mai delle proprie limitate conoscenze, bensì è in perenne ricerca della verità. Una verità che in filosofia non è mai definitiva ma in continua evoluzione, come ci insegna Socrate; una verità che per i nostri deficit strutturali – in quanto umani – non possiamo comprendere del tutto, ma che ci comprende perché – appunto – più grande di noi.  

La filosofia mi ha permesso di dare sostanza al mio stile, una sostanza filosofica che mi ha fatto capire che quando scrivevo o parlavo più che agli aggettivi dovevo badare agli argomenti che avevo da dire. Ora come ora, non posso non reputarmi fortunato essendo riuscito a coronare il mio sogno di ragazzo: fare un lavoro che mi permettesse di parlare e scrivere. I miei discorsi, i miei libri non avrebbero avuto ragione d’essere senza il felice incontro con la filosofia, che ha stimolato la mia vena argomentativa e critica. Grazie alla filosofia ho capito che non c’è niente di meglio che pensare con la propria testa, credere nelle proprie idee ed escogitare il modo più efficace per comunicarle.  A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi. Perlomeno, a me li ha aperti, per questo non finirò mai di ringraziarla.

Una vita ben fatta

La scuola che vorrei dovrebbe mettere tra parentesi i voti […] La messa tra parentesi dei voti a scuola è secondo me utile perché il voto che stai dando al ragazzo di oggi deve trovare conferma nella buona operosità dell’uomo di domani.

Trovo azzeccato paragonare una classe a un organismo vivente. Ci sono classi che allo stesso stimolo reagiscono in modi differenti. Con alcune puoi metterci tutta la dedizione di questo mondo senza produrre il risultato sperato, con altre basta invece aprire bocca per accendere la scintilla dell’amore per la conoscenza.

L’aspetto più complesso del mestiere di docente credo sia profondere lo stesso livello di passione e impegno con tutte le proprie classi ricevendo in cambio sia nelle verifiche sia anche umanamente delle risposte di vario genere. Ci sono classi a cui dai tanto ma che ti restituiscono poco, questo è senz’altro l’aspetto più frustrante della mia professione.

In materia d’insegnamento credo che gli insuccessi siano importanti quanto i successi. Gli insuccessi ti invitano a fare un bagno di realismo, evitano di volare troppo alto e impediscono di farti troppo male quando cadi; non mettere in conto qualche caduta è da imprevidenti. Quando ti ritorna di meno dagli studenti devi mandare giù il boccone amaro e andare avanti facendo tesoro di ogni loro reazione, anche – e soprattutto – di quelle negative. Ciò può aiutare a diventare ogni giorno un professore migliore del giorno prima. E i successi allora? Be’, quelli sono carburante per l’anima e ti danno la forza per proseguire il cammino dell’insegnante.

Ho la sensazione che alcuni studenti – una minoranza – siano molte volte mossi da uno spropositato amor di polemica e abituati a sentirsi sempre incolpevoli dei loro scarsi rendimenti. Della serie: è sempre colpa di una forza esterna, sia essa il professore troppo severo, oppure il libro di testo difficile, o le dispense di cui non si legge bene una lettera su mille, eccetera. Come se fossero delle povere vittime in mano a carnefici che li vessano e li valutano come non avrebbe fatto nemmeno il famigerato inquisitore Tomás de Torquemada.

Ad alcuni studenti poco maturi basta una sola valutazione negativa per farli millantare chissà quale torto subìto. Puoi provare a farli ragionare dicendo loro che lo stesso professore che li ha valutati la volta prima positivamente e la volta dopo in maniera negativa, non può essere bravo nel primo caso e un asino ragliante nel secondo. Se gli si concede di averci preso in caso di valutazione favorevole, allo stesso modo bisogna fidarsi in caso di valutazione sfavorevole.

Ci tengo davvero che i miei studenti imparino ad accettare con serenità i voti, qualsiasi essi siano. La valutazione è importante, però più ancora conta capire che occorre studiare per acquisire un bagaglio culturale e delle competenze che possono tornare utili nella propria vita, non per un’effimera gratificazione. Per carità, i bei voti fanno gola a tutti e bisogna cercare di ottenerli senza però drammatizzare troppo se non si riesce a raggiungere il livello sperato. Insomma, se va bene un’interrogazione o un compito, bene, altrimenti non facciamone un dramma. Prima degli studenti questo dovrebbero capirlo i genitori, che dovrebbero aiutarci ad aiutare a far capire ai loro figli che un brutto voto non è la fine del mondo, purché non si smetta di volersi migliorare. L’anelito al miglioramento dev’essere uno sprone costante nella propria vita. Chi non si vuole più migliorare è pronto per il pensionamento anticipato.

La scuola che vorrei dovrebbe mettere tra parentesi i voti alla maniera dei fenomenologi, non toglierli, minimizzarli piuttosto. I fenomenologi ricalibrarono l’espediente filosofico della epochè, teorizzato dagli stoici al fine di sospendere l’assenso sulla realtà circostante. Il perché di questa sospensione gli stoici lo giustificavano vista la fondamentale incertezza di ogni conoscenza. I fenomenologi, più cauti degli stoici, intesero la epochè come un mettere tra parentesi il mondo per ritornare alle cose. Prima dell’avvento della fenomenologia, secondo il loro fondatore Edmund Husserl, troppo concentrati sul mondo i filosofi si erano dimenticati delle cose che in esso vi abitano e che sono meritevoli della più alta considerazione filosofica. La messa tra parentesi dei voti a scuola è secondo me utile perché il voto che stai dando al ragazzo di oggi deve trovare conferma nella buona operosità dell’uomo di domani. Cosa voglio dire? Conosco alcuni primi della classe che neanche si sono laureati, così come sono a conoscenza di studenti con difficoltà al liceo che sono letteralmente sbocciati all’università e poi nella vita lavorativa.

Ecco, io credo che il peccato originale della docimologia – scienza della valutazione – sia enfatizzare l’importanza dei criteri quantitativi, dimenticandosi le più importanti finalità qualitative dei voti, che sono solo uno strumento per raggiungere uno scopo più grande: la formazione di chi quel voto lo riceve. Per questo la valutazione formativa sarà sempre da preferire a quella sommativa. La media matematica dei voti non ci dice niente dell’educando a cui sto mettendo quel voto che non può mai essere fine a sé stesso, bensì un fine in vista del raggiungimento di un più alto grado di crescita personale dell’educando. Un professore che si dimentica questa valenza del voto ha venduto la propria anima al paradigma della scuola come azienda, che è di preciso ciò che mi spinge a pensare e sperare alla scuola che vorrei.

Sono convinto che finché si pensa a come si vorrebbe la scuola, c’è la speranza di poterla migliorare, che per me vuol dire restituirle la centralità che merita e che spaventa tanto quella parte ormai preponderante della politica che è inquinata dal pensiero economicista. Paragonare la scuola a un’azienda e utilizzare il lessico aziendale per descriverla ne ha sminuito il valore universale. Per fortuna che la maggior parte dei colleghi che conosco è lontana anni luce dalla visione ristretta degli economicisti; non si deve guardare tutto con la lente d’ingrandimento dell’economia, che è certamente una componente importante da considerare, seppure non può essere l’unica. Se la nostra società insegna a reputare dei vincenti solo quelli che riescono a fare soldi, la scuola che vorrei dovrebbe insegnare ai ragazzi che vince solo chi diventa ciò che è in potenza, realizzando la sua potenzialità umana come vorrebbe Nietzsche. Ergo: tutti potremmo vincere se riuscissimo a realizzare il nostro volere, diventando quello che in cuor nostro sappiamo di essere e non adeguandoci a quello che altri vorrebbero che diventassimo. Il vero perdente è colui che abdica al suo volere per inseguire quello altrui e con ciò si condanna a una vita insoddisfacente. Mentre conduce una vita soddisfacente chi fa quello che vuole e non quello che gli altri vogliono per lui.

A differenza della scuola come azienda, la scuola che vorrei non insegna a fare soldi, ma fornisce una metaforica cassetta degli attrezzi per condurre una vita ben fatta, come la testa di cui predicava Montaigne.

Sopravvivere non può bastarci

Concordo con Caffo nell’affermare che sopravvivere non può bastarci, si tratta di vivere d’ora in avanti con maggiore dignità, ma mi sento di aggiungere anche: con più consapevolezza e accettazione della grande contraddizione umana insita in noi. La consapevolezza di una creatura finita che aspira all’infinito, che è una contraddizione insanabile, è vero, ma che è propria di ogni essere umano ed è propriamente ciò che ci ha reso nel bene e nel male quello che siamo. Io credo più nel bene che nel male.

Voglio riportare un passaggio interessante di “Dopo il Covid-19”, breve ma ricco instant book di Leonardo Caffo. “E se il mondo che seguirà sarà un mondo in cui la libertà conterà più del rischio di perdere la vita? Se vivere diventasse, improvvisamente e dopo il Covid-19, più interessante che sopravvivere? Presto o tardi, anche se la nostra società ci ha completamente diseducati ad affrontare il tema della morte, tutti quanti dobbiamo morire: siamo sicuri che questa vita lunghissima ma vuota per cui stiamo lottando adesso valga più di una vita intensamente breve?”

Chi ha qualche dimestichezza con la filosofia, non può non scovare in questo passo l’influenza senecana. C’è tanto del “De brevitate vitae” di Seneca in questo discorso di Caffo. Ciò non è affatto un difetto. Sono intimamente convinto che filosofare sia “con-filosofare”, come vuole Karl Jaspers, vale a dire: un “filosofare con” chi vive il nostro tempo, ma anche con chi ci ha preceduti e con chi ci succederà. Motivo per cui in filosofia l’originalità è impensabile. Riferirsi ai filosofi precedenti è indispensabile per chiunque filosofi oggi ed è incoraggiante sapere che chi verrà dopo rifletterà “insieme a noi” in un circolo virtuoso, ininterrotto del pensiero.

Precisato questo, la stessa timida critica che rivolgo a Seneca, di riflesso la muovo anche a Caffo, ossia: c’è un sentore di “carpe diem” tanto caro ai Latini nel brano sopra riportato. Come insegna il “Faust” di Goethe, s’illude chi crede di poter cogliere l’attimo. Si può godere l’attimo, assaporare il presente solo proiettandosi nel futuro che non sta davanti a noi, come alcuni credono in maniera del tutto erronea, bensì alle nostre spalle e da lì ci sorprenderà in ogni caso, su questo possiamo stare certi. In realtà, il Covid-19 ci palesa quella che dovrebbe essere un’ovvietà per noi umani: la prevedibile imprevedibilità sia in positivo sia in negativo del futuro. Perché “prevedibile imprevedibilità”? Non amo gli ossimori, ma in questo caso credo sia calzante definire “prevedibile” un futuro che per tutti riserva lo stesso tragico traguardo, la morte, altrettanto ritengo sia sensato parlare di “imprevedibilità”, perché come vivremo nel futuro e come trapasseremo anche – per fortuna – non ci è dato saperlo con precisione. Per quanto oggi esistano figure d’intellettuali che si fanno chiamare “futurologi”, in tutta franchezza credo che il futuro saprà sorprendere anche la più acuta delle previsioni “futurologiche”. Fra tutti, trovo più giusto quell’atteggiamento nei confronti del futuro di chi intende farsi cogliere affaccendati dalla morte, magari mentre si piantano i cavoli in giardino, come insegna Montaigne.

Concordo con Caffo nell’affermare che sopravvivere non può bastarci, si tratta di vivere d’ora in avanti con maggiore dignità, ma mi sento di aggiungere anche: con più consapevolezza e accettazione della grande contraddizione umana insita in noi. La consapevolezza di una creatura finita che aspira all’infinito, che è una contraddizione insanabile, è vero, ma che è propria di ogni essere umano ed è propriamente ciò che ci ha reso nel bene e nel male quello che siamo. Io credo più nel bene che nel male. In questo forse rimango un ottimista antropologico, come Rousseau, seppure convinto con realismo che, per quanto bene intenzionato, come ha rilevato Freud, nell’uomo agiscono due impulsi opposti: uno costruttivo, di vita, Eros; un altro autodistruttivo, di morte, Thanatos. La questione cruciale credo sia riuscire a tenere a bada il secondo a vantaggio del primo. Il guaio è che, a partire dalla seconda rivoluzione industriale in poi, con l’avvento della società capitalistica otto-novecentesca, si è avuto un trionfo dell’impulso di morte, che è ora di combattere e sconfiggere prima che finisca di scavarci la fossa; non solo le due guerre mondiali del Novecento, ma pure lo sfruttamento “illimitato” delle “limitate” risorse del Pianeta sono tutte prove lampanti dell’insano trionfo autolesionista del capitalismo odierno.

Malgrado molti scienziati e filosofi ne denuncino gli effetti e le cause, i politici (i neoconservatori e persino alcuni liberal-democratici) sempre meno considerano scienziati e filosofi che mettono in guardia da certi comportamenti predatori ai danni del Pianeta e di tutti quelli che ci abitano (compresi loro), mentre gli stessi politici se ne stanno in ammirante ascolto degli oracoli di oggi, gli economisti, alcuni dei quali (i neoliberisti), con i loro sciagurati consigli, ci hanno condotti a un punto di non ritorno con la paziente quanto inflessibile Madre Natura, che sa tanto di resa dei conti finali. Ci illudevamo di rimpallare il problema delle conseguenze del nostro sfruttamento alle future generazioni, mentre ora comincia a essere chiaro a molti – non ancora a tutti – che riguarda anche e soprattutto noi. Dico “soprattutto” perché ha ragione da vendere Caffo a sostenere che, se non ci rimbocchiamo le maniche noi per primi, potrebbero non esserci più altre generazioni dopo la nostra. Tocchiamo tutto quello che c’è da toccare, per scaramanzia, ma di sicuro prima lo capiamo e prima agiamo uniti nell’interesse di tutti. Meglio allarmare, se ciò comporterà svegliare i dormienti che ci hanno condotto sull’orlo di questo scongiurabile baratro.

Caffo ci dice che “non abbiamo neanche idea delle mostruosità che possono seguire alla crisi del Covid-19, se diamo al sistema la possibilità di espandersi anche dopo questo stop forzato”. Su questo punto, temo che di idee – tutte inquietanti – ce ne sarebbero eccome. Le riassumo in questi termini: aumento delle disuguaglianze e totale affermazione della legge della giungla. Risultato? L’uomo capitalistico – evoluzione, per certi aspetti, o involuzione, per altri, di quello sapiens – eserciterà fino all’ultimo le solite – deludenti – dinamiche di conflitto, giocherà sulle vite di poveri sfortunati – come se la sfortuna fosse una colpa – a chi arriverà prima al vaccino per affermarsi come padrone incontrastato di quell’ammasso di macerie che diventerà il mondo, svicolando l’unico vero problema: l’inevitabile auto-estinzione, seguitando di questo passo. C’è la speranza di venire smentito, ma per avverarla – al momento – mancano solide basi. A ogni modo, se non ci sono adesso, non è detto che non ci saranno domani.