Prendiamo i grandi campioni dello sport. Quando c’è il momento decisivo della partita, quello che ti fa vincere una finale, quando insomma deve fare goal, buttare di là dalla rete la palla, far muovere la retina del canestro, stampare una schiacciata sulle righe, è proprio in quel frangente che emerge il fuoriclasse. Noi dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi a diventare i campioni delle loro vite. Per farlo dobbiamo disingannarli, ovvero, togliere dalla loro testa l’inganno che va sempre tutto bene.
Il pensiero positivo è utile fino a un certo punto. Nessuno come un campione sa quant’è dura vincere, quanta fatica ci vuole per portare a casa un risultato importante. Ci si deve allenare a una genuina quanto salubre fatica quotidiana. Abituare un ragazzo alla mollezza è il peggiore torto che gli si possa fare e il migliore viatico per renderlo un adulto spiantato, deresponsabilizzato, scansafatiche, un reietto insomma.
Favoleggiare che se uno pensa di continuo positivo tutto gli si spianerà davanti è una pericolosa illusione. Chi ci crede magari raggiunge il satori buddhista, cioè si risveglia spiritualmente e acquisisce un superiore livello di consapevolezza: l’esistenza è sofferenza e noi dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per evitare situazioni che possono crearci attaccamento per qualcosa o qualcuno. Chi diventa consapevole di ciò, riesce poi a vivere in una maniera molto simile a quella auspicata dalle filosofie ellenistiche (epicurea, stoica, scettica), che vietano le passioni o, tutt’al più con chi non sa proprio farne a meno, si raccomandano di astenersene quanto più possibile. Come se fosse lodevole vivere senza provare passione per niente, neanche fossimo delle statue di bronzo, anziché creature palpitanti, in grado di sentire prima ancora che di pensare. Dunque, la sofferenza va accettata, bisogna prenderne atto; insomma, non può essere estirpata. Glorificata quello mai, non c’è gloria nel dolore, per quanto anni di catechismo hanno voluto insegnarci il contrario. Da cristiano, non penso di essere blasfemo nel dire che di Cristo ce ne è solo uno. Per quanto voglia disilluderci, credo che il buddhismo ci illuda più del cristianesimo, fermo restando la mia stima nei confronti di una religione che già Nietzsche aveva definito la più filosoficamente illuminata e che a me ricorda il nobile tentativo di affrancamento dalla condizione umana tentato dalle filosofie ellenistiche. Tentativo, questo, a mio avviso destinato a naufragare, per quanto lodevole nelle intenzioni, data l’essenza umana che è la sofferenza. Qui intendo essenza come ciò che vi è di più fondamentale in noi esseri umani fatti di carne e sangue, per dirla con Unamuno.
Perché considero il pensiero positivo una solenne fregatura? Può ingannare persone fragili pronte ad aggrapparsi al primo guru dispensatore di banalità trite e ritrite ma vendute a peso d’oro, non persone dotate di un minimo raziocinio. Questi santoni del marketing aziendale dei nostri tempi che cosa fanno se non liofilizzare filosofie occidentali o correnti di pensiero orientali creando slogan facilmente memorizzabili, che riconducono la nobile arte del pensare a formule semplicistiche del tipo: “Se vuoi, puoi, e se puoi, allora credici e ce la farai”. Che dire, mi dispiace per chi ci casca. Tu puoi, se sei. Se sei cosa? Se sei ferrato in quello che fai; se sei responsabile, competente, resiliente; se sei in gamba, insomma. Altrimenti, se sei una persona che vive seguendo i nuovi sofisti del self help, non ce la fai, non ci sono santi che tengono, dev’essere chiaro. Voglio che i miei ragazzi abbiano la cognizione di quanto sia duro ma possibile farcela. Lo sarà se saranno disposti a rimboccarsi le maniche e a lasciare da parte le lamentele. Chi si impegna ce la potrà fare, questo è il messaggio che deve arrivare. Prima si smetterà di ingannarli raccontando loro delle frottole e prima si farà loro un favore. Abituarli alle lamentele significa disabituarli alla irriducibile fatica della vita.