Siamo tutti secondi a Dio. Ci illudiamo di venire prima di tutto, solo che non è così perché prima di tutto c’è il “Tutto”, che è Dio. Senza di Lui la nostra fragile barca si fracasserebbe sugli scogli. Dio è per noi l’Arca – come quella di Noè – che ci trarrà in salvo, se faremo il non trascurabile sforzo d’inchinarci al cospetto della sua gloria che si manifesta in ogni singolo fenomeno naturale di questo mondo (da qui Spinoza ha ereditato la concezione del suo “Deus sive Natura”).
Dico “non trascurabile” perché questo atteggiamento di secondarietà – o sussidiareità, se vi suona più familiare – è qualcosa che va contro il nostro istinto moderno-contemporaneo di sentirci creature autarchicamente bastanti a noi stesse. Quando l’unica incontrovertibile verità della natura umana è che siamo canne al vento – per usare la metafora romanzesca di Grazia Deledda – in balia dei più elementari agenti di calamità che ci minacciano da ogni parte.
Il nostro sentirci onnipotenti non ci fa vedere la nostra effettiva, disturbante nullità, che può essere compensata soltanto da qualcosa di più grande di noi. E, seguendo la scia già tracciata da Sant’Anselmo, cosa c’è di più grande del nostro Creatore di cui siamo le creature “a immagine e somiglianza”? Tale convinzione è la sola che non poggia le proprie fondamenta sulla sabbia e non ci sono mareggiate che tengono per essa. Il suo nome è “fede”. Avere fede vuol dire proprio questo: credere, con la facoltà dell’intuizione, che la Vita è più forte della Morte. Cristo ce lo ha testimoniato e la nostra massima aspirazione deve essere trasporre – tradurre cioè – questo esempio luminoso nelle nostre gesta quotidiane, elevando e consacrando la nostra vita all’inimitabile imitazione di Cristo.
Si tratta di una conoscenza ossimorica (“inimitabile imitazione” è palesemente un ossimoro), che è la chiave per aprirci un varco nell’altrimenti inaccessibile mistero di Dio. Se una volta credevo che il più grande mistero è che non c’è nessun mistero, ora credo giusto il contrario: ce ne sono troppi di misteri per non credere in un supremo Guidatore che per vie imperscrutabili – e proprio per questo misteriose per noi – pilota le nostre esistenze.
Mi contraddico? Certo! Eppure, leggendo “Del sentimento tragico della vita” di Miguel de Unamuno ho capito una cosa, la più importante – forse – trasmessami dalle mie numerose, eterogenee letture: contraddirsi è la via migliore per crescere e diventare ciò che si è “in potenza”. Saper accettare la contraddizione tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere è il requisito indispensabile per fare pace con se stessi. Solo gli stolti e i fanatici non cambiano mai idea.
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