Ogni giorno ha il suo voto

Ci sono giorni da lode e altri da infamia. L’essenziale è capire che si deve dare sempre il massimo, ogni benedetto giorno, perché: ogni giorno ha il suo voto.

“Tu che voto ti daresti?”. Questa è la domanda spiazzante che i miei studenti si sentono fare quando finisco d’interrogarli. Il motivo è che ritengo l’autovalutazione una competenza fondamentale da far acquisire ai miei studenti. Un buon modo per renderli consapevoli di sé e spingerli al continuo miglioramento credo debba cominciare dall’intima comprensione di dove potevano fare meglio. Più le loro autovalutazioni si avvicinano alle mie valutazioni e più maturi significa che sono diventati i miei studenti, che vuol dire: più pronti ad affrontare le crescenti sfide della vita.

Mi rendo conto che i voti – nel bene e nel male – rimarranno sempre un cruccio per adolescenti con i loro problemi, la loro età dello sviluppo che li porta a essere alquanto umorali e in alcuni casi addirittura distruttivi per via di situazioni di difficoltà personali o familiari. Da parte mia continuerò a impegnarmi affinché i miei studenti capiscano la necessità dell’accettare i voti che, in buona fede e con onestà intellettuale, gli impartisco adempiendo al mio dovere di professore. Poi, come dico sempre loro, il voto che assegno per una prestazione non li sminuisce di certo ai miei occhi. Perché? Mi viene da dire con Aristotele che “una rondine non fa primavera”, così come non la fa un bel voto o tantomeno un brutto voto fa autunno o peggio inverno.

Un voto è un voto, vale a dire: un giudizio sospeso che ha la necessità di essere continuamente confermato o smentito dentro e fuori la scuola. Ragion per cui se magari un voto può non dire il vero sui livelli di apprendimento di un ragazzo, due voti, o tre, o quattro, o cinque, o più, potranno dirci di più, seppure un giudizio definitivo sulla persona non lo daranno mai. Magari uno studente può applicarsi nello studio individuale a casa, avere più o meno ascoltato e preso appunti in classe; poi per motivi diversi – un mal di testa, un mal di pancia, una preoccupazione qualsiasi – il giorno della prova può non rendere come si sarebbe aspettato. In questo caso può – e deve se è coscienzioso – rimanere deluso della prova offerta. Di certo, però, non può – e non deve – prendersela con il docente che è sempre dalla parte dello studente e che persino quando non dà valutazioni positive cerca comunque di aiutare. Il guaio è che a volte studenti – e certi genitori che li aizzano – tendono a confondere l’aiuto con il regalo. Per quel che mi riguarda, io aiuto sempre i miei studenti, ma non regalo loro mai niente.

Le prove di verifica nella scuola post 1968 sono tutto fuorché inquisitorie, tant’è vero che suscitano lo sdegno di molti intellettuali che hanno conosciuto anche l’era pre-sessantottina. Costoro ritengono che l’asticella valutativa nella scuola si sia abbassata troppo e credono che la scuola prima del ‘68 era meglio di quella dopo il ‘68. Uno dei sostenitori di questa tesi è il noto giornalista Corrado Augias, che esprime questa posizione critica nei confronti dell’odierno sistema scolastico nel volume Questa nostra Italia. Per quanto mi riguarda, credo si debba riflettere su quali prospettive vogliamo dare ai nostri studenti, i quali – non dimentichiamolo – saranno chiamati nel prossimo avvenire a prendere decisioni cruciali per l’intero genere umano. Basti pensare ai cambiamenti climatici che minacciano sempre più la nostra vita sulla Terra. Un minore grado di preparazione culturale delle future classi dirigenti, purtroppo, non potrà che avere un impatto negativo nelle ineludibili scelte che si dovranno prendere. Mi sento d’accordo con John Dewey, che qui parafraso: la scuola non prepara alla vita, essa è già vita.

In fondo, per farsi benvolere dagli studenti ci vorrebbe poco. Basterebbe spacciarsi per “papini” e “mammine” sempre comprensivi e mai una volta severi. Questo modo di porsi – per così dire – paterno o materno può tornare utile per un docente di scuola primaria. Lo stesso atteggiamento materno o paterno trovo però sia poco edificante quando si hanno davanti degli adolescenti, che hanno bisogno di essere sempre più sollecitati sul piano della responsabilità individuale, visto il nocivo clima di deresponsabilizzazione che si respira anche al di fuori dell’ambito scolastico. Deresponsabilizzare è il problema e non potrà mai essere la soluzione. Chi giustifica sempre e comunque le mancanze degli studenti finisce con il farli crescere con l’erronea convinzione di non essere responsabili delle loro azioni e dei loro risultati scolastici. Al contrario un buon professore dovrebbe proprio fare l’esatto contrario: abituarli ad assumersi le loro inderogabili responsabilità. Ciò non significa che non si debba mai giustificarli. Basterebbe solo discernere una giustificazione dovuta da un’altra futile che non è bene concedere. Sarà un caso ma in questi anni sul campo ho notato che gli studenti che indovinano di più i voti delle interrogazioni sono quelli più responsabili… In definitiva, concludo dicendo che ai voti va data la giusta importanza che è né troppa né poca, ma una sana quanto aristotelica via di mezzo. Ci sono giorni da lode e altri da infamia. L’essenziale è capire che si deve dare sempre il massimo, ogni benedetto giorno, perché: ogni giorno ha il suo voto.

La filosofia ti apre gli occhi

A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi.

Certi professori ti cambiano la vita, è proprio vero. A me è successo in età liceale, in terza liceo, quando conobbi la mia professoressa di filosofia. Fu la prima a credere in me. Fino a quel momento ero stato uno studente discontinuo, con una predilezione per le materie umanistiche. In italiano me l’ero sempre cavata, leggevo un po’ di tutto e i miei temi erano famosi tra i miei compagni. Perché? Uno stile pungente e uno spiccato spirito critico mi guadagnarono non solo consensi, ma anche attriti con i miei compagni e alcuni docenti.

La scintilla scoccò quando incontrai sul mio cammino la filosofia, una materia tanto misteriosa, all’inizio, quanto stimolante man mano che la conoscevo meglio. Cominciarono le prime verifiche, i primi risultati eccellenti e, dopo essere stato per anni un buon tennista, m’interessai sempre meno al tennis e sempre più al “so di non sapere” di Socrate, al mondo delle idee di Platone, all’atarassia di Epicuro… da quel momento in poi non fu più possibile per me vivere senza filosofia.  

Come conoscenze appresi le principali teorie professate dai filosofi nel corso dei secoli. Imparai che non potrebbe darsi alcuna filosofia senza il dubbio; un dubbio metodico, strategico oserei dire, che impone la hegeliana “fatica del concetto”, il lavorio incessante della mente che non si accontenta di quel poco che sa ma che, vorace, vuole sapere sempre di più; peculiarità della filosofia è appunto questa sua curiosità innata. Il filosofo proprio perché ammette socraticamente di “non sapere” è portato a interessarsi a tutto, non si pasce mai delle proprie limitate conoscenze, bensì è in perenne ricerca della verità. Una verità che in filosofia non è mai definitiva ma in continua evoluzione, come ci insegna Socrate; una verità che per i nostri deficit strutturali – in quanto umani – non possiamo comprendere del tutto, ma che ci comprende perché – appunto – più grande di noi.  

La filosofia mi ha permesso di dare sostanza al mio stile, una sostanza filosofica che mi ha fatto capire che quando scrivevo o parlavo più che agli aggettivi dovevo badare agli argomenti che avevo da dire. Ora come ora, non posso non reputarmi fortunato essendo riuscito a coronare il mio sogno di ragazzo: fare un lavoro che mi permettesse di parlare e scrivere. I miei discorsi, i miei libri non avrebbero avuto ragione d’essere senza il felice incontro con la filosofia, che ha stimolato la mia vena argomentativa e critica. Grazie alla filosofia ho capito che non c’è niente di meglio che pensare con la propria testa, credere nelle proprie idee ed escogitare il modo più efficace per comunicarle.  A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi. Perlomeno, a me li ha aperti, per questo non finirò mai di ringraziarla.

Sopravvivere non può bastarci

Concordo con Caffo nell’affermare che sopravvivere non può bastarci, si tratta di vivere d’ora in avanti con maggiore dignità, ma mi sento di aggiungere anche: con più consapevolezza e accettazione della grande contraddizione umana insita in noi. La consapevolezza di una creatura finita che aspira all’infinito, che è una contraddizione insanabile, è vero, ma che è propria di ogni essere umano ed è propriamente ciò che ci ha reso nel bene e nel male quello che siamo. Io credo più nel bene che nel male.

Voglio riportare un passaggio interessante di “Dopo il Covid-19”, breve ma ricco instant book di Leonardo Caffo. “E se il mondo che seguirà sarà un mondo in cui la libertà conterà più del rischio di perdere la vita? Se vivere diventasse, improvvisamente e dopo il Covid-19, più interessante che sopravvivere? Presto o tardi, anche se la nostra società ci ha completamente diseducati ad affrontare il tema della morte, tutti quanti dobbiamo morire: siamo sicuri che questa vita lunghissima ma vuota per cui stiamo lottando adesso valga più di una vita intensamente breve?”

Chi ha qualche dimestichezza con la filosofia, non può non scovare in questo passo l’influenza senecana. C’è tanto del “De brevitate vitae” di Seneca in questo discorso di Caffo. Ciò non è affatto un difetto. Sono intimamente convinto che filosofare sia “con-filosofare”, come vuole Karl Jaspers, vale a dire: un “filosofare con” chi vive il nostro tempo, ma anche con chi ci ha preceduti e con chi ci succederà. Motivo per cui in filosofia l’originalità è impensabile. Riferirsi ai filosofi precedenti è indispensabile per chiunque filosofi oggi ed è incoraggiante sapere che chi verrà dopo rifletterà “insieme a noi” in un circolo virtuoso, ininterrotto del pensiero.

Precisato questo, la stessa timida critica che rivolgo a Seneca, di riflesso la muovo anche a Caffo, ossia: c’è un sentore di “carpe diem” tanto caro ai Latini nel brano sopra riportato. Come insegna il “Faust” di Goethe, s’illude chi crede di poter cogliere l’attimo. Si può godere l’attimo, assaporare il presente solo proiettandosi nel futuro che non sta davanti a noi, come alcuni credono in maniera del tutto erronea, bensì alle nostre spalle e da lì ci sorprenderà in ogni caso, su questo possiamo stare certi. In realtà, il Covid-19 ci palesa quella che dovrebbe essere un’ovvietà per noi umani: la prevedibile imprevedibilità sia in positivo sia in negativo del futuro. Perché “prevedibile imprevedibilità”? Non amo gli ossimori, ma in questo caso credo sia calzante definire “prevedibile” un futuro che per tutti riserva lo stesso tragico traguardo, la morte, altrettanto ritengo sia sensato parlare di “imprevedibilità”, perché come vivremo nel futuro e come trapasseremo anche – per fortuna – non ci è dato saperlo con precisione. Per quanto oggi esistano figure d’intellettuali che si fanno chiamare “futurologi”, in tutta franchezza credo che il futuro saprà sorprendere anche la più acuta delle previsioni “futurologiche”. Fra tutti, trovo più giusto quell’atteggiamento nei confronti del futuro di chi intende farsi cogliere affaccendati dalla morte, magari mentre si piantano i cavoli in giardino, come insegna Montaigne.

Concordo con Caffo nell’affermare che sopravvivere non può bastarci, si tratta di vivere d’ora in avanti con maggiore dignità, ma mi sento di aggiungere anche: con più consapevolezza e accettazione della grande contraddizione umana insita in noi. La consapevolezza di una creatura finita che aspira all’infinito, che è una contraddizione insanabile, è vero, ma che è propria di ogni essere umano ed è propriamente ciò che ci ha reso nel bene e nel male quello che siamo. Io credo più nel bene che nel male. In questo forse rimango un ottimista antropologico, come Rousseau, seppure convinto con realismo che, per quanto bene intenzionato, come ha rilevato Freud, nell’uomo agiscono due impulsi opposti: uno costruttivo, di vita, Eros; un altro autodistruttivo, di morte, Thanatos. La questione cruciale credo sia riuscire a tenere a bada il secondo a vantaggio del primo. Il guaio è che, a partire dalla seconda rivoluzione industriale in poi, con l’avvento della società capitalistica otto-novecentesca, si è avuto un trionfo dell’impulso di morte, che è ora di combattere e sconfiggere prima che finisca di scavarci la fossa; non solo le due guerre mondiali del Novecento, ma pure lo sfruttamento “illimitato” delle “limitate” risorse del Pianeta sono tutte prove lampanti dell’insano trionfo autolesionista del capitalismo odierno.

Malgrado molti scienziati e filosofi ne denuncino gli effetti e le cause, i politici (i neoconservatori e persino alcuni liberal-democratici) sempre meno considerano scienziati e filosofi che mettono in guardia da certi comportamenti predatori ai danni del Pianeta e di tutti quelli che ci abitano (compresi loro), mentre gli stessi politici se ne stanno in ammirante ascolto degli oracoli di oggi, gli economisti, alcuni dei quali (i neoliberisti), con i loro sciagurati consigli, ci hanno condotti a un punto di non ritorno con la paziente quanto inflessibile Madre Natura, che sa tanto di resa dei conti finali. Ci illudevamo di rimpallare il problema delle conseguenze del nostro sfruttamento alle future generazioni, mentre ora comincia a essere chiaro a molti – non ancora a tutti – che riguarda anche e soprattutto noi. Dico “soprattutto” perché ha ragione da vendere Caffo a sostenere che, se non ci rimbocchiamo le maniche noi per primi, potrebbero non esserci più altre generazioni dopo la nostra. Tocchiamo tutto quello che c’è da toccare, per scaramanzia, ma di sicuro prima lo capiamo e prima agiamo uniti nell’interesse di tutti. Meglio allarmare, se ciò comporterà svegliare i dormienti che ci hanno condotto sull’orlo di questo scongiurabile baratro.

Caffo ci dice che “non abbiamo neanche idea delle mostruosità che possono seguire alla crisi del Covid-19, se diamo al sistema la possibilità di espandersi anche dopo questo stop forzato”. Su questo punto, temo che di idee – tutte inquietanti – ce ne sarebbero eccome. Le riassumo in questi termini: aumento delle disuguaglianze e totale affermazione della legge della giungla. Risultato? L’uomo capitalistico – evoluzione, per certi aspetti, o involuzione, per altri, di quello sapiens – eserciterà fino all’ultimo le solite – deludenti – dinamiche di conflitto, giocherà sulle vite di poveri sfortunati – come se la sfortuna fosse una colpa – a chi arriverà prima al vaccino per affermarsi come padrone incontrastato di quell’ammasso di macerie che diventerà il mondo, svicolando l’unico vero problema: l’inevitabile auto-estinzione, seguitando di questo passo. C’è la speranza di venire smentito, ma per avverarla – al momento – mancano solide basi. A ogni modo, se non ci sono adesso, non è detto che non ci saranno domani.

Meritatelo!

Trovo mortificante fare la solita lezioncina con tanto di schemini alla lavagna preconfezionati neanche si stesse lavorando su regole di grammatica da mandare a memoria per poi essere applicate. Educare a pensare – meglio sarebbe se con la propria testa – non è cosa facile, crederlo significherebbe svilire la missione stessa della filosofia. Se si vuole la pappetta pronta, la solita minestrina riscaldata, be’ sapete che dico: non è da me che l’avrete!

Sarebbe bello che i propri studenti capissero la differenza fra tenere una lezione scimmiottando il manuale di testo, apponendovi qua e là dei commenti integrativi, e preparare una lezione personalizzata, con tanto di materiali curati e selezionati dal docente, che invitino a una riflessione davvero filosofica sui testi degli autori in programma. Sarebbe davvero bello far capire quanto lavoro occulto ci sia dietro a una lezione del secondo tipo e quanto più comodo, facile e poco stimolante sia invece erogare una prestazione del primo tipo neanche si avesse davanti un’utenza acefala che non necessita di essere formata in maniera consapevole e responsabile.

Trovo mortificante fare la solita lezioncina con tanto di schemini alla lavagna preconfezionati neanche si stesse lavorando su regole di grammatica da mandare a memoria per poi essere applicate. Educare a pensare – meglio sarebbe se con la propria testa – non è cosa facile, crederlo significherebbe svilire la missione stessa della filosofia. Se si vuole la pappetta pronta, la solita minestrina riscaldata, be’ sapete che dico: non è da me che l’avrete!

Fare lezione alla maniera tradizionale, manco ci si trovasse al cospetto di vasi da riempire, non è nel mio stile e se lo facessi mi sembrerebbe di rubare lo stipendio. Lo saprei fare e lo potrei anche fare, ma non lo voglio fare, c’è differenza; una differenza sottile che non tutti possono capire né sono sicuro approvano, non m’importa; non vado in giro a dire agli altri come fare il loro mestiere e altrettanto non vorrei che si facesse con me. Se ciascuno pensasse al suo il mondo sarebbe un posto migliore, così la vedo io.

Credo sia controproducente far passare il messaggio di faciloneria a scuola, ovvero: che la vita sia tutto un continuo scherzo, un gioco da non prendere con la giusta dose di serietà e non invece qualcosa di dannatamente serioso, difficoltoso, perché no. Le difficoltà non si possono sempre svicolare. Magari si potessero zigzagare le traversie della nostra complicata esistenza di esseri umani. A ogni modo, non so quanto possa aiutare i nostri studenti un’eccessiva dose di faciloneria, temo piuttosto che possa danneggiarli. Ci troviamo già ogni giorno a scontrarci con una realtà complessa, come fior d’intellettuali ci hanno più volte fatto notare (penso soprattutto a Edgar Morin). Ragion per cui: non abituare i nostri studenti alle inevitabili difficoltà/complessità che si troveranno a dover fronteggiare usciti da scuola, credo che più che fare loro un favore si faccia loro un torto; non tutto è facile, anzi, niente lo è. Tutto va guadagnato con il sudore della propria fronte, meritato. Si fa tanto un gran parlare di merito, ma quanti di noi docenti sono disposti a rendersi antipatici agli occhi dei loro studenti pur di scovarlo e premiarlo in quelli che davvero se lo meritano? Non è facile, insegnare è tutt’altro che facile, direi che oltre a essere un lavoro è anche una vocazione e io questa vocazione la sento eccome. Perciò, quando le circostanze mi costringono a fare – malgrado non ne abbia voglia – il duro con i miei studenti, non mi sottraggo perché so che è di preciso: il mio dovere.

La vita è un cammino faticoso, non è una passeggiata spensierata. Bisogna sforzarsi, impegnarsi, studiare molto, altro che poco, per ricavarne poi in futuro qualche soddisfazione e, cosa non da meno, comprendere meglio, più in profondità, il presente che si sta vivendo; non basta abituarsi a fare il minimo indispensabile, bisogna fare di più e farlo meglio. Io lo so questo, perciò voglio insegnarlo ad altri. Quando i miei attuali ed ex studenti mi riconoscono questo sforzo sono lieto e mi rammarico invece quando non se ne accorgono, ma non demordo e paziento. Quello dell’insegnante è anche e soprattutto un lavoro di pazienza, paragonabile all’instancabile acqua che scava la roccia.

Ricordo con affetto una mia ex quarta. Il primo mese con loro è stata una lotta senza quartiere, voci di corridoio di miei colleghi mi avevano riportato lamentele sul fatto che fossi con loro troppo esigente, poi però è accaduto qualcosa di bello, che mi ha sorpreso in positivo: hanno cominciato a farsi via via più attenti, disciplinati, studiosi, appassionati alle mie lezioni. All’inizio dell’anno scorso mi hanno inviato una mail che – non mi vergogno a dire – mi ha fatto piangere di commozione. Quei ragazzi che non avevano più bisogno di catturare la mia benevolenza, visto che non ero più il loro professore e tanto più insegnavo in un’altra provincia, mi hanno ringraziato per tutto quello che ho dato loro, non solo in termini di nozioni culturali ma anche in termini umani, di quanto il mio insegnamento sia stato capace di avere un impatto sulle loro vite. Anche altre classi mi hanno dimostrato affetto, ma non fanno testo, perché nelle classi cosiddette facili insegnare è talmente un piacere che neanche sembra un lavoro. Invece questo riconoscimento palesatomi da una classe tutt’altro che facile, mi ha convinto sempre più di avere scelto la professione giusta.

Fra gli insegnamenti che vorrei impartire ai miei ragazzi c’è quello di abituarli a sapersela cavare fuori dall’ambiente protetto delle aule scolastiche, molto simile a quella giungla senza esclusione di colpi che aveva paventato nella sua concezione dello stato di natura Thomas Hobbes; una giungla dove chi ha dei meriti, se non si arrende, poi alla fine qualche soddisfazione riesce a togliersela. Per farcela – però – devo abituarli alle cose difficili. Lo diceva anche Platone nel testo intitolato “Ippia Maggiore”: “Le cose belle sono difficili”. Abituare chi si educa alle cose difficili, significa abituarli alla bellezza e alla complessità della vita, dove nessuno ti regala niente e tutto va meritato. L’imperativo categorico per uno studente? Meritatelo!

Preveggenza = saggezza

Da parte sua, Machiavelli suggerisce di essere previdenti perché, com’è risaputo, “prevenire è meglio che curare”. Per chi è solito non prevenire, Machiavelli avverte: “Avviene quel che i medici dicono a proposito della tisi, che all’inizio è facile da curare ma difficile da diagnosticare, e che col passar del tempo, non essendo stata all’inizio né diagnosticata né curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare.”

Ne “Il principeMachiavelli sostiene che “[…] l’imprevidenza può indurre gli uomini a scegliere cose che al momento hanno buon sapore, e all’interno sono ripiene di veleno.” (MACHIAVELLI, N., Il principe, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 143.) Per comprendere più a fondo queste parole, si tenga conto di questa attualizzazione. S’immagini di trovarsi in un Paese in quarantena per il dilagare di un imprevedibile quanto pericoloso virus. Gli abitanti sono invitati dagli esperti virologi a restarsene nelle loro case per rallentare quantomeno il preoccupante numero di contagi. In barba alla raccomandazione degli esperti e in preda ai morsi di una lancinante crisi di solitudine, alcuni decidono di ritrovarsi nella piazza principale della loro città per esorcizzare tutti insieme la paura. Fanno bene o fanno male? Se si tiene conto di quanto afferma Machiavelli a proposito di gustare un cibo dal “buon sapore”, ma dall’effetto velenoso, si direbbe proprio che commettano un errore madornale.

Da parte sua, Machiavelli suggerisce di essere previdenti perché, com’è risaputo, “prevenire è meglio che curare”. Per chi è solito non prevenire, Machiavelli avverte: “Avviene quel che i medici dicono a proposito della tisi, che all’inizio è facile da curare ma difficile da diagnosticare, e che col passar del tempo, non essendo stata all’inizio né diagnosticata né curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare.” (p. 63)

Su questo tema – forse perché memore che “repetita iuvant” – Machiavelli ritorna in più punti de “Il principe”. Sulla stessa lunghezza d’onda vi è pure quest’altro brano: “[…] il principe che non individua il male fin dal suo primo manifestarsi non è veramente saggio. Ma questa capacità è concessa a pochi. E se si volesse cercare la prima causa della rovina dell’impero romano, la si troverebbe nel fatto che esso cominciò ad assoldare i Goti” (p. 143).

Verrebbe da chiedersi: cosa se ne fa dell’istinto di sopravvivenza l’essere umano destinato comunque alla lunga – nella più fortunata delle ipotesi – a non sopravvivere? Obiezione alla quale si può rispondere in due modi. Il primo è per allungarsi la vita rimandando il più in là possibile la propria dipartita, della serie: non è mai ora per la propria “ora”. Il secondo è per continuare a sopravvivere nei propri discendenti; ciò se non altro per confortare il singolo che le sue gesta verranno ricordate da altri che verranno dopo di lui. Tutto considerato, si può convenire che quest’ultima ipotesi è pur sempre più auspicabile di quella opposta: la “damnatio memoriae”.

Saper stare al mondo

Pretendere di essere capiti senza però fare lo sforzo di capire gli altri è troppo comodo, a parere mio. Vuoi che gli altri ti capiscano? Bene, allora sforzati di “capire” tu per primo gli altri.

Fra le competenze da far maturare nei miei studenti, di sicuro ingloberei l’empatia. Questo perché non provare vicinanza, non riuscire a mettersi nei panni di un compagno ma – per esempio – schiamazzare durante le altrui interrogazioni, significa avere una competenza umana davvero nulla, perché non si fa lo sforzo di immedesimarsi nell’altro. Inoltre, questo “sforzo” altro non è che un atto dovuto, perché per quieto vivere noi esseri umani dobbiamo essere reciprocamente solidali gli uni con gli altri.

Già la vita è difficile, ci porta a dover essere in competizione e affrontare tante avversità, che se non fossimo quantomeno “solidali” fra noi non ci saremmo neanche evoluti. Se l’homo sapiens ha fatto un percorso evolutivo sorprendente è grazie a questo spirito di solidarietà che gli “umani” hanno più di altre specie animali. Quindi, se non insegniamo ai nostri ragazzi a essere di sostegno fra loro, un’unica grande squadra che combatte per un comune obiettivo, se non insegniamo loro a essere empatici, ebbene, allora significa che non stiamo rendendo loro un buon servizio.

Nel corso dei miei anni d’insegnamento, ho notato un atteggiamento che ritengo sbagliato in alcuni ragazzi durante le interrogazioni. Quelli che non sono coinvolti – in prima persona – tendono a distrarsi e a chiacchierare. Ho provato a farli ragionare che – proprio in questi momenti – dovrebbero stare ancora più attenti, perché la restituzione dei contenuti in classe è importante tanto quanto lo è la spiegazione degli stessi.

Ebbene, quando in alcune classi mi è capitato di rimproverare gli elementi più ciarlieri chiedendo loro di non disturbare la concentrazione dei loro stessi compagni intenti a sostenere la verifica orale, a volte è successo che questi “elementi” mi abbiano guardato storto manco fossi stato un marziano che ha avuto l’ardire di costringerli a un silenzio tanto ingiusto quanto odioso. Devo ammettere che in questi casi – per fortuna – sporadici sia rimasto a dir poco perplesso per questa assenza di empatia fra compagni di classe.

In generale, fra le cose che fatico a tollerare nei miei studenti vi è l’incapacità di mettersi nei panni dei compagni. Pretendere di essere capiti senza però fare lo sforzo di capire gli altri è troppo comodo. Vuoi che gli altri ti capiscano? Bene, allora sforzati di “capire” tu per primo gli altri.

Gli antichi e pragmatici Romani ci avevano visto giusto con il loro slogan “do ut des”, tu dai comprensione a me e io in cambio prometto di comprendere te. A mio avviso, questo significa saper stare al mondo.

Il problema della “volontà di potenza”

[…] ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche.

Diventare ciò che si è” significa nietzscheanamente realizzare la propria “volontà di potenza”, oltrepassare il ponte che dall’uomo proietta al Superuomo, ovvero divenendo a tutti gli effetti: il dio di se stesso. E se ognuno è il proprio dio, non c’è bisogno del Dio nei cieli e per ogni uomo c’è una morale propria che gli si addice. Per questo Nietzsche apre la breccia al relativismo dei valori della nostra epoca, da alcuni ritenuto una liberazione, gli anticristiani che vedono nietzscheanamente nel cristianesimo l’origine di tutti i mali dell’uomo, e da altri invece un’aberrazione, i cristiani o coloro che sono idealmente vicini alle istanze cristiane. A chi vada la ragione è da vedere, anche se, abbracciando una visione relativistica dell’esistenza, si potrebbe dire che la ragione vada sia agli uni sia agli altri, in quanto con alcuni funziona di più una certa visione del mondo, mentre con altri un’altra, è relativo appunto, dipende dal singolo. Motivo per cui ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche. Badate bene, non voglio dire che lo abbia snaturato. Di certo qualcosa della filosofia nietzscheana è compatibile con la perversione nazista (soprattutto per quanto concerne il concetto di “volonta di potenza” mi vien da dire), però credo ci sia fra le righe una parte del pensiero nietzscheano che si possa e si debba salvare. A cosa mi riferisco? Alla valenza che esso ha per il singolo individuo, lo stimolo vitalistico che le parole di Nietzsche riescono a infondere nel lettore non del tutto sprovveduto, ovvero quello capace di farsi ispirare dal genio “sano” e perdonare il folle “malato”. Sanità e malattia sono infatti due categorie imprescindibili che si devono tenere in debito conto se si vuole meglio comprendere, cioè abbracciare, la complessità nietzscheana.
In ultima analisi, ciò che dico è molto semplice: c’è un Nietzsche “sano” che credo vada tutelato come patrimonio dell’umanità e un Nietzsche “malsano” che ritengo vada compatito. Perché? Non so voi, ma io ho un rispetto enorme per le persone che soffrono sia a livello fisico sia psichico e Nietzsche credo si possa ragionevolmente dire che abbia sofferto abbastanza nella sua vita. Ragion per cui se in alcune delle sue pagine a prevalere è più il livore della genialità, da uomo a uomo, non mi sento – in tutta franchezza – di fargliene una colpa.