Talvolta capita che alcuni studenti credano di essersi resi protagonisti di una performance ottimale, mentre io – in tutta franchezza – non sono riuscito a percepire in loro un grado eccelso di preparazione. Per scontentare uno studente – di solito – basta poco, è sufficiente mettergli un brutto voto. Quando succede, con tranquillità, prendendolo da parte (consapevole di quanto sia meglio lodare in pubblico e rimproverare in privato), provo a farlo ragionare motivando il mio voto.
Come esseri umani, non siamo così importanti come possiamo essere portati a credere in maniera erronea. Prima ce ne renderemo conto e prima faremo i conti con la dura realtà. Tutti siamo necessari, nessuno è indispensabile, triste pensarlo e ancora di più dirlo, ma è la vita stessa che ce lo dimostra ogni giorno; sia che vivremo sia che moriremo il sole continuerà a sorgere lo stesso fino a che – stando alla scienza – non si esaurirà anch’esso del tutto.
Quando ci s’imbatte in uno studente che ha la tendenza a mettersi sempre al centro dell’attenzione e dimostra così quello che io chiamo “il complesso del messia” (sono bravo solo io) oppure “la sindrome del pulcino nero” (ce l’hanno tutti con me), ebbene, gli si deve far capire che il mondo non ruota attorno a lui o a lei. Motivo per cui deve: o montarsi di meno la testa, oppure imparare a prendersela non solo con gli altri, ma qualche volta pure con sé stesso/a.
A essere onesto, mi capita di riflettere se sia o meno un bravo docimologo. I miei voti sono giusti? Non lo so, mi auguro che lo siano, ma in quanto uomo è possibile che non riesca sempre nell’intento di operare secondo giustizia. I miei voti sono onesti? Ho la presunzione di dire che lo sono. Perché? Non metto mai un voto a cuor leggero. Ogni voto che scrivo sul registro è più o meno sofferto, attribuirne uno brutto dispiace in primis a me. Detto ciò, non mi sottraggo all’onere – più che all’onore – della valutazione. Dirò di più, nei miei studenti cerco d’incoraggiare l’autovalutazione. Questo perché prima cominciano a rendersi conto delle prestazioni offerte e prima s’incamminano sul sentiero del miglioramento. Oltretutto, quando l’autovalutazione corrisponde con la valutazione altrui si dimostra vuoi realismo e vuoi anche intelligenza.
Uno studente può gradire o no una valutazione, tuttavia deve essere messo nelle condizioni di comprendere che quello ricevuto è un voto che può o no apprezzare, però chi glielo ha dato, ci ha messo tutta la buona volontà e i buoni sentimenti di questo mondo per attribuirglielo. Poi, che gli hai fatto del bene e hai cercato di trattarlo coi guanti, magari lo capirà solo anni dopo oppure mai (ipotesi, la seconda, non del tutto irrealistica). L’importante è sentire di avere agito in tutta coscienza. In fin dei conti è questa l’unica cosa che conta per un professore.
L’obiettivo che mi sono prefisso diventando insegnante è quello di valorizzare il merito. Per farlo non posso che essere meritocratico nella valutazione. A proposito degli studenti con maggiore fragilità sia personale sia negli apprendimenti, mi sono sempre dimostrato coi fatti – e non a chiacchiere – un professore che aiuta i propri studenti. Regalare però no, mi dispiace ma non mi chiedete di travestirmi da Babbo Natale. Sono convinto che non facciamo del bene quando elargiamo valutazioni spropositate ai nostri studenti. Dare un voto che non sta né in cielo né in terra vuol dire – secondo me – prendere in giro uno studente. Inoltre – cosa ben più grave – lo disabituiamo a quella che è la realtà della nostra società. Una realtà in cui chi s’impegna può andare avanti e può svolgere una professione che poi in futuro potrà farlo sentire un adulto realizzato. Mentre chi non s’impegna è bene che si renda conto il prima possibile che la “pacchia” è finita e deve cominciare a darsi da fare. Perché? Là fuori non lo aspettano a braccia aperte, non sono tutti mammine e papini che gli stendono tappeti di fiori al loro passaggio.
Nella giungla lavorativa bisogna tirare fuori le unghie e i denti, lottare per ogni centimetro di spazio, in una parola è necessario: “competere”. La società capitalista in cui siamo immersi – piaccia o meno – c’invita a una competizione giornaliera di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi, anche bassi talvolta, dove bisogna impegnarsi – con tutte le proprie forze – per provare a realizzare le proprie aspirazioni lavorative. Ecco, se noi abituiamo i nostri ragazzi ad avere tutto facile, ebbene, facciamo in modo che si disabituino a cavarsela da soli. E se c’è una competenza a cui dovremo abituarli è proprio: sapersela cavare.
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