“Il dio del tennis” in lizza per l’edizione 2022 del Premio Fiesole Narrativa Under 40

Ringrazio per la grande opportunità, che rende onore a una storia di riscatto sportivo; scrivendola, ho voluto nobilitare il valore della lotta contro le avversità, che possono renderci più forti nel momento in cui riusciamo a trovare in noi la forza per superarle (qualora possibile).

COMPIERE LO SCOPO PER CUI SI È AL MONDO, RINGRAZIAMENTO IN TRE PUNTI

1. Lottare per vincere è l’unica cosa che conta e non vincere

Onorato ed emozionato di essere in lizza per l’edizione 2022 del Premio Fiesole Narrativa Under 40 con il mio romanzo “Il dio del tennis”, uscito di recente con Clown Bianco Edizioni.

Ringrazio per la grande opportunità, che rende onore a una storia di riscatto sportivo; scrivendola, ho voluto nobilitare il valore della lotta contro le avversità, che possono renderci più forti nel momento in cui riusciamo a trovare in noi la forza per superarle (qualora possibile).

Lo sport mi ha insegnato il valore del sacrificio, il dovere di sudarsi ogni benedetta vittoria, mai regalata, osando quel colpo in più e confidando nella Fortuna che aiuta gli audaci, come già sapevano i nostri avi Latini.

Avere più voglia di vincere dell’avversario è il lievito madre di ogni vittoria; poi se non si riesce nell’intento, poco importa. L’essenziale è mettercela tutta.

Lo sport – così come la vita – ci insegna che non si può vincere sempre. Lottare per vincere è l’unica cosa che conta e non vincere.

Sono sempre stato affascinato dalle imprese sportive degli outsider, di chi per svariati motivi parte sfavorito e poi finisce per assaporare la vittoria, anche per una sola volta nella vita.

Per qualche comprensibile motivo (forse la capacità di immedesimarsi nel vincitore contro pronostico), chi più vince da favorito, più risulta antipatico. I narratori di sport lo sanno e per questo esaltano le imprese degli sfavoriti. Non c’è niente di più romanzesco che rovesciare il pronostico.

Sarà per questo che, da narratore, non mi riconosco nella logica eccessiva del “vincere” come “l’unica cosa che conta”. Se non vinci, non sei nessuno, perché? Se non lotti, tutt’al più, hai ben poco di cui andare fiero, dico io. Questione di punti di vista.

2. L’unica guerra che merita di essere combattuta

Sono contento di essere stato un tennista e ora di avere anche scritto di tennis, uno sport che annovera un pregio non da poco secondo me. Ti ricorda che chi sta dall’altra parte della rete è solo un “avversario”, perché in fondo non esistono “nemici”, come alcune persone in malafede vorrebbero farci credere per piegarci ai loro giochi di potere. “Armatevi e partite, per Dio, per la patria, per la famiglia”, quanti di noi si sono tramutati in “carne da cannone” lasciandosi abbindolare da simili slogan guerrafondai? Troppi. Era davvero necessario per la migliore sorte dell’umanità? Da antihegeliano convinto non credo. Ciò che condivido invece di Hegel è il modo di rapportarsi col mondo, per come è. Fermo restando, però, che il primo passo verso un sostanziale miglioramento comincia teorizzando un mondo “migliore” alla maniera di Platone, senza dimenticarsi di quello su cui appoggiamo i piedi. Motivo per cui la querelle tra pensatori realisti e idealisti è presto risolta. La ragione è nella via mediana tra questi due opposti, che è anche la via più saggia in quanto più equilibrata.

Ne sanno qualcosa i narratori, consapevoli che le loro storie non reggerebbero senza equilibrio narrativo, così come qualsiasi squadra di qualunque sport non arriverebbe a certi risultati senza avere trovato il proprio equilibrio interno. Vale ugualmente per il tennista migliore, che non può che essere colui che riesce a sviluppare un gioco più equilibrato rispetto ai suoi avversari.

Persino i migliori giocatori si rendono conto di quanto effimera sia la gloria. Un giorno il “migliore” si chiama Sampras, quello dopo Federer, quello dopo ancora Nadal, poi Djokovic e via di questo passo. Riferirsi a qualcuno appellandolo come “migliore” nel suo settore di competenza ha senso solo se si trae da costui un esempio di condotta nella vita di tutti i giorni, pur essendo consapevoli che certe vette non competono a tutti. Alcuni riescono più di altri, mentre unico è il traguardo ingrato che ci attende e che dovrebbe tanto più invitarci a fare la pace, piuttosto che la guerra.

L’unica “guerra” che merita di essere combattuta è quella della vita contro la morte; l’esito della quale appare scontato ma, finché la vita avrà una parola da opporre alla morte, non sarà mai detta l’ultima. Ci aspetta una lotta titanica, quotidiana, incessante… una lotta a perdere, perlomeno se si decide di rimanere in un ambito squisitamente terreno. Questione di scelta personale, materia di fede.

Il “dio” di cui faccio cenno nei capitoli e nel titolo del mio romanzo tennistico “Il dio del tennis” va distinto da quel Dio extra-terreno a cui non mi stanco di credere, pur alla maniera dei filosofi. Per deontologia professionale (ed esistenziale aggiungerei), il mio non può che essere un credo “problematico”, che tiene conto del dubbio e accetta di confrontarsi con esso senza assecondarlo, anche se la tentazione nichilista in certi giorni può apparire forte.

Del resto, cosa pretendere da chi ha intitolato il suo romanzo d’esordio dedicato ai dorati anni universitari “Il circolo dei nichilisti” e fa ammettere all’io narrante protagonista vagamente autobiografico di essere stato un bambino alquanto stravagante, uno di quelli che posando lo sguardo al cielo già si poneva la domanda filosofica per eccellenza: “Perché c’è il tutto anziché il niente?”.

3. L’invenzione in malafede del nemico

Tra il tutto e il niente c’è di mezzo la vita, che amo celebrare nei miei romanzi. “Il dio del tennis” non fa eccezione: è una storia di vita ispirata a nessun tennista in particolare, ma in cui ciononostante si possono identificare svariati giocatori che hanno calcato i campi di tutto il mondo, da quelli meno prestigiosi fino ad arrivare a quelli del gotha del tennis mondiale.

Il protagonista Giovanni è tutto fuorché un vincente. È uno che lotta sia dentro sia fuori dal campo, la sua parabola è simile a quella di molti e le sue vicissitudini somigliano a una giostra impazzita. Un continuo saliscendi con uno scopo ben preciso: la risalita dagli inferi, anabasi, dopo esservi disceso, catabasi. Ogni cosa che vive ha il proprio scopo, dice Aristotele. Allo stesso modo, sono convinto che ogni narrazione debba avere il “proprio scopo”.

A essere sincero, non sono un amante dei finali aperti che lasciano in bocca al lettore un sapore d’incompiutezza. Mi piace credere che Aristotele avesse ragione nel dire che tutti abbiamo uno scopo da portare a termine. Per questo non si possono concepire storie con trame incompiute e, men che meno, con personaggi senz’arte né parte. Per indole non comincio a scrivere un libro se non so come farlo finire e non lascio a metà i personaggi che creo: mi scatenerebbe una rabbia che non saprei gestire, perché da premuroso padre letterario ambisco per loro a vederli più o meno felici, più o meno sistemati.

In un certo senso, credo che si dovrebbero distinguere due aspetti importanti del nostro essere umani, che vuol dire mortali. In quanto tali, da un lato finiamo per capitolare al cospetto del Grande Nemico, la morte appunto, dall’altro chi ci dice che simile Nemico ci sottrae alla vita da incompiuti? Credo che non solo in narrativa possano esserci vite compiute di personaggi, ma che esistano “vite compiute” di persone reali. Poi può anche avverarsi il contrario, sia in narrativa sia nella vita reale. L’amara verità che esistano storie e “vite incompiute”, però, non toglie meno “verità” a quelle storie o vite che riescono a raggiungere un degno compimento.

Ho detto che la vita avrà sempre una parola da opporre alla morte e questa non può che essere: amore. Esso è il più degno “coronamento” di ogni vita e di ogni storia a essa ispirata. Che cos’è l’amore? Credo dovremmo figurarcelo come una scala che dall’amore di sé ci porta alla più alta forma di amore, quella per il tutto o per Dio, a seconda delle proprie convinzioni. Ne risulta qualcosa di molto somigliante a quello che diceva Platone (non a caso sono autore di un saggio il cui titolo è già tutto un programma: “Eros alato”). La tappa intermedia per arrampicarsi in questa “scala” è l’amore per gli altri, ivi compresi i propri avversari.

A tale riguardo, nessuno sport come il tennis ti fa capire quanto “l’altro” sia per noi funzionale. Io non gioco – cioè non mi diverto – a tennis senza l’altro che mi sta di fronte e con il quale pratico degli scambi; lui tira la palla a me e io la tiro a lui, dall’altra parte del campo. Quando vado in battuta non a caso “servo” e l’altro “riceve”, nessuno gioca da solo a tennis a meno che non voglia tirarla contro il muro, ma in questo caso sarebbe peggio che giocare contro il banco al casinò. Il muro vince sempre.

La grandiosità dello sport è che i muri li tira giù e fa giocare assieme persino acerrimi “nemici”, o presunti tali. Lo sport abbatte i muri, crea ponti inaspettati e insperati tra i popoli, tra le persone; permette il dialogo che favorisce a sua volta la distensione dei rapporti. E in tempi di tensioni su scala planetaria, si dovrebbe all’opposto ritornare a un approccio più realista ai problemi. Tale “approccio” negli anni Settanta è stato adottato con successo da Henry Kissinger, stratega della realpolitik “a stelle e strisce”, nonché uno dei fautori di quel capolavoro diplomatico realizzato a cavallo tra il 1971 e il 1972 e passato alla storia come “diplomazia del ping pong”. Quantomeno curioso come questo sport di racchetta abbia reso possibile il clamoroso avvicinamento tra Cina e Stati Uniti, due potenze agli antipodi per concezioni filosofiche e visioni politiche: comunista l’una, capitalista l’altra, ora tornate a essere a dir poco sospettose l’una nei confronti dell’altra. Ripassare la storia non può farci male.

Precondizione di ogni dialogo distensivo è l’essere consapevoli di quella relazione speciale che c’è tra noi e gli altri, che ha spinto numerosi filosofi a riconoscere la natura relazionale dell’essere umano. Per favorire questa benevola inclinazione di pensiero, potrebbe venirci in soccorso proprio il tennis, il più “relazionale” degli sport. Tale relazionalità è tanto vicendevole quanto conflittuale. L’avversario mi pone davanti dei problemi che devo risolvere se non voglio soccombere ad essi e di conseguenza perdere la partita. Tra tutti gli avversari il più tosto da affrontare è quello che ci ritroviamo davanti ogni mattina: quello riflesso nello specchio. Avversario, questo, che possiamo battere come e più di chiunque altro, perché dovremmo conoscerlo meglio di tutti. Il guaio è quando non ci si conosce abbastanza, perché chi non ha una sufficiente conoscenza di sé rischia di rimanere un incompiuto.

In fin dei conti aveva ragione Socrate: conosci te stesso. Più arriveremo a conoscerci, aggiungo io, più soddisfazioni potremo toglierci, nel tennis come nella vita.

Volevo limitarmi a un ringraziamento e, per l’eterogenesi dei fini, ho finito con lo svelare il messaggio che sta dietro al mio romanzo “Il dio del tennis”: lottare ogni giorno per compiere lo scopo per cui si è al mondo.  

La filosofia non è una scienza ma è un’arte. Spiegazione in sei punti essenziali

Perché non c’è “una filosofia”, ma ne esistono di diverse? Questo perché la filosofia è plurale e antidogmatica per definizione, proprio come lo è la scienza, o per meglio dire: le scienze. Il filosofo non spaccia verità, offre semplicemente un diverso angolo di visione della realtà, alternativo a quello della massa. Ogni filosofo ha il suo angolo visuale, il suo personale buco della serratura da cui osserva con meraviglia il mondo; sul nesso che c’è tra filosofia e meraviglia si leggano le pagine immortali di Aristotele nella “Metafisica”.

Primo punto, il senso del limite

La filosofia non è una scienza, ma il paradosso – i paradossi piacciono molto ai filosofi – è che la sua influenza sulla scienza è evidente. In che modo? Per via di un metodo che è possibile definire “scientifico”, che la filosofia ha trasmesso alla scienza, qualunque “scienza”; un metodo basato sul celebre dubbio cartesiano, che vanta come progenitori gli antichi filosofi scettici.

La filosofia ha fatto e continua a far porre alle scienze dei seri interrogativi sulle finalità che esse dovrebbero perseguire. Fino a “dove” possono spingersi senza mettere in pericolo di autoestinzione l’essere umano, l’unico animale in grado di provocare o accelerare la propria distruzione? Questo è l’interrogativo più pressante che la filosofia “sbatte in faccia” a ogni scienza cosiddetta “esatta”.

Una prova sconcertante di questa capacità autodistruttiva propria dell’uomo sono state le bombe atomiche sganciate il 6 e il 9 agosto del 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, che hanno sì messo la parola “fine” alla Seconda guerra mondiale, ma hanno anche inaugurato l’inquietante epoca storica ancora in corso di svolgimento. Quale? Quella che potremmo definire a pieno titolo come “l’età della deterrenza nucleare”, per l’appunto “ancora in corso” perché non è cessata con la Guerra Fredda nel 1991, anno dello scioglimento dell’Unione Sovietica.

Battuta l’Unione Sovietica in quella che è passata alla storia come “Guerra Fredda”, gli Stati Uniti hanno dovuto e continuano a dover affrontare altri nemici: il terrorismo sia interno sia esterno e la fin qui muscolare concorrenza geopolitica di superpotenze emergenti, su tutte la Cina. Il primo nemico che sembrava se non del tutto sconfitto, quantomeno in forte contenimento, potrebbe rialzare la testa dopo il recente assalto al Campidoglio di quelli che sarebbero sbagliato definire soltanto degli “eccentrici” e il precipitare degli avvenimenti in Afghanistan, che riportano le lancette della storia indietro di vent’anni. Mentre il secondo nemico potrebbe alla lunga innescare – Dio non voglia – la famosa “trappola di Tucidide”, dal nome dell’autore del classico della storiografia antica, “La guerra del Peloponneso”; trappola che consisterebbe nella disgraziata eventualità per cui la potenza emergente, messa alle strette e sentendosi in trappola, potrebbe reagire cominciando una guerra contro la potenza egemone; una guerra finalizzata a sostituirsi a quest’ultima nel ruolo di potenza egemonica, un po’ quanto avvenuto – per la precisione – nell’antichità tra l’emergente Atene e l’egemone Sparta, con la Cina calata nella parte della prima e gli Stati Uniti nella parte della seconda, volendo attualizzare.

Già all’indomani degli avvenimenti giapponesi, che posero fine al più sanguinoso e odioso conflitto della storia, alcuni scienziati hanno posto i riflettori sull’orlo del precipizio che sta lì davanti a noi, costituito da un’eventuale, ulteriore guerra mondiale, che, se combattuta, potrebbe portare all’estinzione dell’intero genere umano, o – tutt’al più – andarci molto vicino. Parafrasando il fisico Albert Einstein, una delle più geniali menti del Novecento, in caso si arrivasse a combattere una Terza guerra mondiale è lecito aspettarsi che un’ulteriore Quarta verrebbe combattuta con le clave di pietra…

Le scienze, tra cui la fisica che ha portato alla sciagurata creazione delle armi atomiche, soffrono da sempre di smanie di onnipotenza e anelano all’illimitato, mentre la filosofia insegna loro a fare i conti con il senso del limite, di cui molto spesso esse si dimenticano. In particolare, c’è una branca della filosofia, la filosofia morale, che si occupa di ricordarci i nostri limiti. Quale utilità potrebbe mai avere tale fastidioso promemoria? Potrebbe tornarci utile per superare questi “limiti”, perché solo ammettendoli ci è dato modo di cominciare un processo di costante, faticoso miglioramento atto a superarli, uno alla volta; per quanto ne rimarrebbe sempre uno pressoché invalicabile. Mi rendo conto che ciò che ci ricorda la nostra fondamentale impotenza può dare fastidio, ma fare finta di essere indistruttibili equivarrebbe a prendersi in giro e questo sarebbe un atteggiamento poco filosofico. Più del nostro “meglio” non ci è dato fare, non siamo onnipotenti. Prima lo capiremo e prima dimostreremo un’attitudine filosofica.  

Secondo punto, la filosofia è un insieme di filosofie e la più socratica è quella morale

S’immagini la filosofia come una grande scatola che ne contiene al proprio interno di più piccole. Ecco, la morale è uno di questi contenitori più “piccoli” contenuto dentro la più “grande” scatola filosofica. Motivo per cui la morale è quella sottocategoria filosofica più socraticamente intesa, ossia più praticata da Socrate, colui che in molti considerano il fondatore della filosofia; tant’è vero che si divide un periodo prima e uno dopo di lui, un po’ com’è stato fatto in ambito cristiano dove c’è stata una suddivisione tra un’età precedente e un’altra successiva alla venuta di Cristo.

Di cosa si occupa la filosofia morale? Per prima cosa bisogna sgomberare il campo agli equivoci: il filosofo morale “alla Socrate” non ha la benché minima pretesa di “farci la predica”, bensì vuole stimolarci a riflettere su ciò che è lecito considerare giusto e – di conseguenza – su cosa invece non lo sia. Perché soccorrere una persona che sta per affogare in mare è da considerarsi come un qualcosa di intrinsecamente giusto in sé e per sé, mentre togliere la vita non è mai giusto o lo è solo a determinate condizioni, a seconda di quale morale si voglia abbracciare, se una idealistica piuttosto che una realistica? Ce lo spiegano “le” filosofie morali, al plurale appunto, perché vi sono “più filosofie” all’interno del grande contenitore filosofico, ma ve ne sono anche di diverse all’interno delle singole scatole filosofiche contenute all’interno del più “grande contenitore”. Tanto da potersi spingere a dire che la filosofia è un insieme di scatole, ognuna con la propria legittimità e importanza. La più socratica di queste scatole è la filosofia morale.

Perché non c’è “una filosofia”, ma ne esistono di diverse? Questo perché la filosofia è plurale e antidogmatica per definizione, proprio come lo è la scienza, o per meglio dire: le scienze. Il filosofo non “spaccia” verità, offre semplicemente un diverso angolo di visione della realtà, alternativo a quello della massa. Ogni filosofo ha il suo angolo visuale, il suo personale buco della serratura da cui osserva con meraviglia il mondo; sul nesso che c’è tra filosofia e meraviglia si leggano le pagine immortali di Aristotele nella “Metafisica”.

Terzo punto, eccentricità e interiorità della filosofia

La filosofia è la più eccentrica delle discipline. Il suo sapere stesso è stravagante, nel senso che è più metodologico che contenutistico.

Contenuti filosofici ce ne sono e sono – ovviamente – le parole scritte ma anche i discorsi riportati per iscritto dei filosofi che ci accompagnano di epoca in epoca in un viaggio emozionante alla scoperta del pensiero, che non fa che ripensarsi in continuazione. Un viaggio più interiore che esteriore, che parte dal proprio sé e in esso fa ritorno.

Quarto punto, conosci te stesso e diventerai il pastore della tua vita

L’obiettivo più grande e nobile che ciascun filosofo si pone nella propria indagine onnicomprensiva della realtà è la conoscenza di sé. “Conosci te stesso”, questo è il severo monito socratico. Solo chi arriverà a conoscersi fino in fondo potrà dirsi libero. Da cosa? Dalla tirannia del conformismo, che porta all’adeguarsi alla massa con la patetica scusa del “tutti la pensano così e quindi è bene che io mi adegui”; imperdonabile “scusa” che spesso ci fa comportare da pecore belanti e ci impedisce di diventare i pastori delle nostre vite.

Come si fa a diventare il proprio pastore? Basta ritagliarsi uno spazio per pensare anziché limitarsi a vivere ogni momento con frenesia, perché “chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Magari questo modo di pensare poteva andare bene per il rinascimentale Lorenzo de’ Medici, ma non può funzionare per chi crede nel dovere dell’affrontare le grandi sfide di domani; “sfide” che impongono al singolo l’infaticabile ricerca della propria dose quotidiana di certezza, resistendo alla tentazione d’imboccare scorciatoie facili e fatalistiche.

Quinto punto, andare veloce non ti fa arrivare dove vorresti davvero

La filosofia è amica della lentezza. Il filosofo va lento mentre tutti gli altri attorno a lui corrono, il più delle volte senza sapere di preciso per andare dove. Il filosofo va “piano” perché vuole arrivare “lontano”, come insegna la troppo bistrattata saggezza popolare, non sempre in disaccordo con quella filosofica. Se proprio la si vuole dire, il filosofo è più un maratoneta che un centometrista; si rende conto che la vita è una maratona, si corre sulle lunghe distanze e la sua parte più succosa la si assapora “durante” la corsa e non al traguardo, uguale e deprimente per tutti.

Dov’è che ci conduce questa disciplina atipica, la filosofia? In noi stessi, come già detto. In una certa misura è come se ci restituisse a noi stessi. La filosofia ha la grande pretesa di insegnarci a pensare con la nostra testa, pensiero che può nascere solo da un’intima e profonda conoscenza di sé.    

Sesto punto, l’arte del dubitare

Se non è una scienza, allora che cos’è questa particolare disciplina? La filosofia è un’arte, l’arte del dubitare di tutto per comprendere meglio il Tutto che ci circonda.

La filosofia ti apre gli occhi

A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi.

Certi professori ti cambiano la vita, è proprio vero. A me è successo in età liceale, in terza liceo, quando conobbi la mia professoressa di filosofia. Fu la prima a credere in me. Fino a quel momento ero stato uno studente discontinuo, con una predilezione per le materie umanistiche. In italiano me l’ero sempre cavata, leggevo un po’ di tutto e i miei temi erano famosi tra i miei compagni. Perché? Uno stile pungente e uno spiccato spirito critico mi guadagnarono non solo consensi, ma anche attriti con i miei compagni e alcuni docenti.

La scintilla scoccò quando incontrai sul mio cammino la filosofia, una materia tanto misteriosa, all’inizio, quanto stimolante man mano che la conoscevo meglio. Cominciarono le prime verifiche, i primi risultati eccellenti e, dopo essere stato per anni un buon tennista, m’interessai sempre meno al tennis e sempre più al “so di non sapere” di Socrate, al mondo delle idee di Platone, all’atarassia di Epicuro… da quel momento in poi non fu più possibile per me vivere senza filosofia.  

Come conoscenze appresi le principali teorie professate dai filosofi nel corso dei secoli. Imparai che non potrebbe darsi alcuna filosofia senza il dubbio; un dubbio metodico, strategico oserei dire, che impone la hegeliana “fatica del concetto”, il lavorio incessante della mente che non si accontenta di quel poco che sa ma che, vorace, vuole sapere sempre di più; peculiarità della filosofia è appunto questa sua curiosità innata. Il filosofo proprio perché ammette socraticamente di “non sapere” è portato a interessarsi a tutto, non si pasce mai delle proprie limitate conoscenze, bensì è in perenne ricerca della verità. Una verità che in filosofia non è mai definitiva ma in continua evoluzione, come ci insegna Socrate; una verità che per i nostri deficit strutturali – in quanto umani – non possiamo comprendere del tutto, ma che ci comprende perché – appunto – più grande di noi.  

La filosofia mi ha permesso di dare sostanza al mio stile, una sostanza filosofica che mi ha fatto capire che quando scrivevo o parlavo più che agli aggettivi dovevo badare agli argomenti che avevo da dire. Ora come ora, non posso non reputarmi fortunato essendo riuscito a coronare il mio sogno di ragazzo: fare un lavoro che mi permettesse di parlare e scrivere. I miei discorsi, i miei libri non avrebbero avuto ragione d’essere senza il felice incontro con la filosofia, che ha stimolato la mia vena argomentativa e critica. Grazie alla filosofia ho capito che non c’è niente di meglio che pensare con la propria testa, credere nelle proprie idee ed escogitare il modo più efficace per comunicarle.  A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi. Perlomeno, a me li ha aperti, per questo non finirò mai di ringraziarla.

Come togliere il dittatore di torno

Lo spirito critico è il solo antidoto per sconfiggere lo spirito di gregge tanto in voga in un’era dominata dal potere sottile quanto invisibile – ma non meno potente – della rete. Essa in teoria avrebbe dovuto liberarci, in pratica ha riproposto sotto altre forme il problema del condizionamento delle masse, sempre più assoggettate alla dittatura dei like basata sull’apparenza e non sull’essenza delle cose.

Mi piacerebbe che i miei studenti acquisissero la competenza di saper stare al mondo. Ovvero: riuscire a stare alle regole del gioco ma non passivamente, bensì in maniera propositiva, cercando di adattarsi. Questa competenza si chiama resilienza e io la intendo come quella capacità di saper fare di necessità virtù, come ci hanno insegnato i nostri nonni con la loro inscalfibile saggezza popolare.

Sapersi adattare non implica – per forza di cose – un adeguamento al ribasso. Si adatta chi – in maniera del tutto sana – si rende conto che non si può sempre vivere alle proprie condizioni, ma si deve sempre vivere con il proprio stile inconfondibile fregandosene della propria limitata condizione umana; condizione di chi ogni giorno ha l’obbligo di fare i conti con il senso del limite, che non vuol dire trovare una scusa per non fare o per fare di meno, bensì per cercare di portare a termine i propri compiti facendo del proprio meglio. È naturale poi che una volta si potrà ottenere di più e un’altra di meno; quel che conta, però, è il livello d’impegno che dev’essere sempre alto.

In passato mi è stato chiesto: “Prof, come posso migliorare in filosofia e storia?”. La mia risposta mai troppo scontata è stata: “Leggi più che puoi, solo così amplierai il tuo lessico migliorando il tuo modo di parlare e scrivere”. Ho riscoperto l’acqua calda, lo so, ma non mi stancherò mai di ripetere come la lettura sia il solo rimedio tutt’oggi noto ed efficace per contrastare le tirannie del pensiero unico. Leggere stimola l’insorgenza di un pensiero autonomo, che altrimenti non sgorga come per incanto chissà dove e chissà come. Dietro un ragazzo che non sa pensare con la propria testa o che non pensa affatto, si nasconde un ragazzo che non legge nient’altro che i post su Facebook (poi c’è poco da meravigliarsi se prende per vere le fake news).

Un professore di filosofia come me non può non combattere questa inclinazione sbagliata nei propri studenti. Lo stesso Socrate ha perso la vita perché ha voluto insegnare ai suoi allievi a pensare con la loro testa; non a caso il pensiero è sempre stato pericoloso per chi detiene il potere, perché un cittadino che pensa da sé, dotato di spirito critico, è un cittadino più duro da ingannare con false promesse.

Lo spirito critico è il solo antidoto per sconfiggere lo spirito di gregge tanto in voga in un’era dominata dal potere sottile quanto invisibile – ma non meno potente – della rete. Essa in teoria avrebbe dovuto liberarci, in pratica ha riproposto sotto altre forme il problema del condizionamento delle masse, sempre più assoggettate alla dittatura dei like basata sull’apparenza e non sull’essenza delle cose.

Penso che non si possa chiedere a un professore di filosofia di lasciar correre su questo che è uno dei problemi capitali del nostro tempo: la scarsa o – in taluni casi – addirittura assente inclinazione a leggere. Motivo per cui do libri in lettura ai miei studenti liceali consapevole che: gustarsi qualche pagina al giorno… toglie il dittatore di torno!

Il sapiente Nietzsche

Che dire poi del rapporto di Nietzsche con il vicino Oriente, se non che il suo pensiero ha più cose in comune con lo spirito sapienziale degli orientali piuttosto che con lo spirito fin troppo razionale degli occidentali.

Fra i pensatori occidentali il maestro indiscusso di Nietzsche fu senz’altro Schopenhauer, con il quale l’autore de “L’anticristo” condivide il concetto di volontà. Soltanto che se per l’allievo Nietzsche questa è una forza positiva (si veda la sua volontà di potenza), per il maestro Schopenhauer la volontà è una forza fondamentalmente negativa, che ci rende più schiavi che liberi.
Una certa parentela Nietzsche ce l’ha pure con un filosofo dell’antichità: Eraclito, la cui filosofia del divenire è riassumibile con l’adagio “panta rei”, ovvero “tutto scorre”.
Più problematico è il rapporto con i tre grandi e illustri mostri sacri della filosofia antica: Socrate, Platone e Aristotele, direi soprattutto con quest’ultimo di cui non sopporta l’opprimente “principio di non contraddizione”, che mal si concilia con la visione nietzscheana della vita come contraddizione inevitabile e incessante.
Che dire poi del rapporto di Nietzsche con il vicino Oriente, se non che il suo pensiero ha più cose in comune con lo spirito sapienziale degli orientali piuttosto che con lo spirito fin troppo razionale degli occidentali.
Tra sapienza e ragione Nietzsche sceglie la prima a occhi chiusi, sin dal suo esordio nella filosofia che conta con il saggio “La nascita della tragedia”; esordio nel quale si scaglia con veemenza contro lo spirito razionale-socratico-apollineo uccisore dell’essenza migliore irrazionale-tragica-dionisiaca della cultura greca antica.
Oltretutto la sua vicinanza di pensiero con gli orientali è facilmente riscontrabile anche nella scelta, tutt’altro che casuale, di rendere il profeta indoiranico Zoroastro: l’eroe del suo capolavoro sia poetico sia filosofico “Also sprach Zarathustra”.

Pensare con la propria testa

Quindi, in definitiva, che senso ha studiare filosofia? Ne ha molto. Direi che, dal momento che “vivere bene” dovrebbe interessare tutti, allo stesso modo la filosofia “dovrebbe” interessare tutti. Vero è però che non è per tutti, perché non tutti sono disposti a compiere lo sforzo – perché tale è – di pensare con la loro testa e si accontentano che altri pensino per loro.

Una studentessa una volta mi ha chiesto: “Prof, qual è il suo filosofo preferito?”. Con il rischio di venire frainteso, ho risposto con estrema sincerità, in coscienza, senza ipocrisie: “Me stesso!”. Ora, di difetti ne ho tanti, ma essere presuntuoso… non è fra questi. Anche se tutti i presuntuosi dicono di non esserlo, ragion per cui non mi sento di biasimare coloro che decideranno di non credermi. A ogni modo, ci si creda oppure no, perché ho voluto dare una risposta così volutamente provocatoria?
Tutti dicono di essere platonici, aristotelici, hegeliani, marxisti. Io invece posso solo dirvi che mi ispiro a tutti e a nessuno. Nel senso che adoro il mondo delle idee di Platone, ma non sopporto il suo essere monarchico. Sul piano politico sono più vicino al democratico Aristotele, di cui però non tollero la mentalità schematica, come se si potesse dare conto dell’illogicità della vita in un schemino logico preconfezionato. Sono con Hegel quando mi serve su un piatto d’argento la dialettica servo-padrone, contro di lui quando però dimostra di non avere il coraggio necessario a trarre le conseguenze del suo pensiero e rinuncia a rovesciare uno status quo iniquo solo per non contraddire il suo assioma fondamentale: il reale è razionale e viceversa. Il reale, se fa schifo, non è razionale. E un uomo che si spaccia per razionale non può starsene con le mani in mano e ha il dovere morale-intellettuale di reagire a una deprecabile situazione di stasi, allorché la ritenga effettivamente “deprecabile.
Che dire poi del portentoso lottatore Marx, che, a differenza del suo maestro Hegel, vuole eccome trasformare un ingiusto status quo” in qualcosa di meglio, preconizzando il riscatto degli oppressi a discapito degli oppressori. Sono con lui nel simpatizzare con gli ultimi della Terra, ma credo che come tutte le utopie la sua pecchi di non fare i debiti conti con la natura irrimediabilmente conservatrice ed egoista dell’essere umano. In fondo Hobbes non aveva tutti i torti nel definire l’uomo lupo per l’altro uomo, il celebre “homo homini lupus”…
Il discorso potrebbe continuare con decine di altri filosofi presi a prestito dalla storia di questa strana disciplina – più un’arte che una scienza secondo me – che è la filosofia. Il senso però mi sembra chiaro, anche se lo specifico tante le volte non lo fosse: ognuno deve diventare il miglior filosofo di se stesso, il che significa che deve prendere ciò che ritiene buono del pensiero degli altri e buttare a mare quello che degli altri pensatori ritiene buono solo per i pesci. Solo così si può continuare a fare una filosofia “forte” in barba a chi la vorrebbe “debole”.
A ben pensarci, non credo che esistano filosofie deboli, tutt’al più filosofi deboli. In filosofia tutto è stato detto, ma può e deve essere ridetto… meglio! Non mi stancherò mai di ripetere ai miei studenti che: filosofare – cioè pensare – è essenzialmente ripensare. Tutto ciò che stiamo pensando noi in questo momento è stato pensato anche da altri, che sono venuti prima di noi. In un certo senso, tutti i temi essenziali della filosofia sono stati abbozzati da Platone. A noi non resta che portare avanti il testimone, come si fa in una staffetta. Immaginatevi l’intera storia della filosofia come una corsa a staffetta dove ciascuno di noi può fare soltanto un tragitto relativamente breve e poi deve passare il testimone ad altri, che dovranno fare il loro per poi consegnarlo a loro volta e così via finché ci saranno persone disposte non solo a vivere e basta, ma anche a pensare “come” poter vivere meglio. E “come” si può farlo ce lo dice Platone riportando gli insegnamenti del suo maestro, Socrate, che aveva giurato fedeltà a un solo imperativo: conosci te stesso! Perché solo chi si conosce, sa cosa è meglio per sé e trova il modo di vivere bene. Il problema – non da poco – rimane imparare a conoscersi. Molti sono morti prima di essere riusciti a conoscere, che so, il dieci per cento di loro stessi. Forse è addirittura impossibile conoscersi fino in fondo. Conoscersi meglio però si può e si deve. Conoscere gli altri, invece, non voglio dire che sia impossibile, ma ci vorrebbe il miglior Tom Cruise del primo “Mission Impossible” e non quello più spento visto nei troppi sequel per tentare l’ardimentosa impresa.
Quindi, in definitiva, che senso ha studiare filosofia? Ne ha molto. Direi che, dal momento che “vivere bene” dovrebbe interessare tutti, allo stesso modo la filosofia “dovrebbe” interessare tutti. Vero è però che non è per tutti, perché non tutti sono disposti a compiere lo sforzo – perché tale è – di pensare con la loro testa e si accontentano che altri pensino per loro. Altro che empietà e corruzione delle giovani menti, Socrate è stato condannato dai Trenta Tiranni di Atene perché insegnava alla gente a pensare con la loro testa. E se ci pensate, non c’è cosa più pericolosa di questa per i tiranni, che, per controllarci meglio, vorrebbero che noi pensassimo come loro vogliono, non come vogliamo noi.

Filosofia per molti e non per tutti

Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.

Di questi tempi, tutti corriamo come dei matti, siamo sempre e di più trafelati, oberati da mille impegni che ci sobbarchiamo come illudendoci – non so – di essere immortali. Già, perché va bene dimenticarci come meccanismo di autodifesa la nostra dimensione mortale – a volte meglio non pensarci per godere appieno della nostra vita al presente –, però non dobbiamo nemmeno essere troppo schizofrenici, cioè a dire: perdere contatto con la realtà di ciò che siamo, creature che fingono soltanto di non sapere ciò che aspetta loro, che eternizzano il loro presente e lo vivono come se non fosse quello stillicidio di anni, mesi, giorni, ore, minuti, secondi che è in effetti. Appunto, considerando la meta, meglio capire come godersi il viaggio. Questo è ciò di cui si preoccupano i filosofi. Per voler essere dei guastafeste, si potrebbe senz’altro ribattere che c’è chi muore e non l’ha ancora capito. E con questo? “Capire” vale il prezzo del biglietto, anche se questo può voler dire soffrire proprio perché si è meglio compresa l’essenza di questa nostra vita: la sofferenza.
Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.
Credo si debba riscoprire una dimensione agonica del vivere, che vorrà pure dire soffrire e, per chi vuole vivere filosoficamente, capire questa sofferenza. Non è un caso se Edipo si acceca dopo avere appreso di avere ammazzato suo padre e avere generato figli con sua madre. Sapere questo, capirlo – “capire” è lo step successivo del “conoscere” – farebbe impazzire il migliore degli uomini, figuriamoci un assassino incestuoso. Comunque, meglio non accecarsi perché gli occhi vanno tenuti bene aperti e ci servono per vedere bene, con chiarezza, ci aiutano a capire. La visione, la vista è un coadiuvante della comprensione, la dilata, la fortifica. Perciò non mi resta che raccomandarvi di tenere gli occhi spalancati e augurarvi buon viaggio, con o senza filosofia, con o senza consapevolezza, a voi la scelta.
Costringere ad amare la filosofia è l’ultimo obiettivo che mi pongo. Non la penso come Epicuro e nemmeno come Nietzsche, la penso come me stesso e dico che la filosofia no, non è per tutti, ma per molti sì. Per quelli che non si accontentano a vivere e basta, ma vogliono vivere meglio, con più qualità, facendosi delle domande per darsi risposte funzionali, cioè che funzionino per sé. Il filosofo si pone domande “materiali”: cosa mangiare a pranzo o a cena, che film o serie televisiva vedere, che marca di crema solare comprare, che tragitto percorrere per andare al lavoro, eccetera. Come pure domande “spirituali”: chi siamo, da dove veniamo, che ci stiamo a fare qui sulla Terra, c’è vita solo “qui sulla Terra” o anche altrove, che cos’è la vita, perché c’è il tutto anziché il nulla e così via.
A costo di esagerare, la sparo grossa: forse persino Socrate si sbagliava a ritenere indegna una vita senza ricerca filosofica. Si può vivere “senza” filosofia (senza consapevolezza), ne sono convinto. È solo che, come Socrate, anche a me convince di più una vita “con” filosofia (con consapevolezza). Questo vuol dire che i filosofi sono maniaci del controllo? Non lo so, forse. O forse l’unico controllo che s’illudono o sanno di avere – chi può dirlo – è la consapevolezza di non poter controllare tutto e che a volte la corrente non si combatte, si asseconda se non si vuole affogare, come sa bene il nuotatore esperto. Oltretutto, ora che ci penso, non saprei in che altro modo vivere se non applicando, in ogni cosa che faccio, la mia filosofia di vita. In definitiva, la filosofia per me è tutto, ma questo “tutto” non lo è per tutti.

Filosofia e politica

Temo che, poiché insegna a pensare con la propria testa, la filosofia darà sempre fastidio al potente e al prepotente di turno.

Avrei potuto intitolare questo post anche: “Le ragioni per cui nessun partito ha ragione”. Il proprio partito ha sempre ragione? È stupido anche solo supporlo, figuriamoci pensarlo. Chi è solito ragionare con la propria testa, non è solito iscriversi a partiti politici, a meno che non abbia delle ambizioni. Cosa legittima, purché si capisca che una volta scesi in campo si dovrà per forza o per amore fare i conti con la spietata logica partitica. Gustave Le Bon (lo scopritore della “psicologia delle folle) non ha dubbi: in gruppo si è più stupidi. Tesi che appoggio in pieno.
In breve, non è detto che la ragione del partito – non importa quale – sia più ragionevole, più giusta di quella del singolo. Spesso accade il contrario: tante teste, tanta confusione. Se fossimo tutti uguali o la pensassimo tutti allo stesso modo, che noia sarebbe il mondo? Mi devo scusare, ma un po’ come Unamuno anche io appartengo a un partito il cui unico iscritto sono io soltanto e a volte penso che siamo pure in troppi.
Come mi capita di dire sempre ai miei ragazzi a lezione: “Il mio compito con voi non è fare politica, ma è fare in modo che impariate a pensare con la vostra testa così da impedire ai politici di raggirarvi”. Ecco, tutt’al più è filosofia politica. Nulla di originale, dal momento che c’è già chi ci ha provato e ha pure fatto una brutta fine. Lo hanno prima processato, poi condannato all’esilio e quel folle – follia filosofica fu la sua – se le è fatta commutare in condanna a morte, rifiutando l’esilio dalla sua amata città, le cui leggi aveva sempre amato e rispettato.
Se proprio quelle stesse leggi, tanto amate e rispettate da lui – a questo punto tutti dovrebbero avere capito trattarsi di Socrate –, si erano rivoltate contro di “lui”, tanto valeva accettare serenamente il proprio fato avverso e morire per le idee in cui aveva sempre creduto, che aveva ogni giorno praticato insegnando la filosofia nel solo modo che conosceva: “sapendo di non sapere”, ovvero vivendo filosoficamente. Come? Ricercando il sapere che è compito proprio di ciascun filosofo. Perché una vita senza ricerca – come lui stesso ha detto – non è degna di essere vissuta.
Temo che, poiché insegna a pensare con la propria testa, la filosofia darà sempre fastidio al potente e al prepotente di turno. È vero, oggi non ci sono più i Trenta Tiranni, Crizia pure è trapassato, ma la tirannia invisibile che ci governa tutti – non mi riferisco alla presente situazione politica italiana, sia chiaro – ha ancora più bisogno della filosofia e di una vita filosofica come antidoto alla schizofrenia dei nostri tempi.

Il paradigma della qualità

L’educazione alla qualità e non all’efficienza è ciò che si dovrebbe ritornare a insegnare nelle scuole. Ho usato volutamente il termine “ritornare”, perché questo tipo di educazione è stato usato in passato, nell’antica Atene, da un signore paragonatosi a un “tafano” e – come se non bastasse – anche a una “levatrice”, di cervelli beninteso. Il suo nome ormai consegnato alla posterità è: Socrate.

 

Dopo i passi avanti fatti con il passaggio dalla scuola del programma a quella della programmazione, dalla conoscenza cumulativa alla formazione di specifiche competenze, la scuola italiana è giunta a un bivio e deve scegliere se imboccare la strada maestra della “qualità” o deviare per la ripida scorciatoia della “quantità”. Fallita e si spera ormai tramontata l’idea della scuola-azienda (ma “mai dire mai”, visto che do ragione a Mark Twain e credo anch’io che “la storia non si ripeta ma spesso faccia rima”), introdotta con la riforma Moratti, una scuola neanche a dirlo incentrata sul paradigma dell’efficienza industriale, è giunta l’ora di svoltare verso un paradigma di tutt’altro segno e di nuovo umanista.

La mia impostazione rousseauiana mi fa concepire la formazione come un unicum volto a formare tanto l’individuo di oggi (infante/bambino/ragazzino/ragazzo) quanto il cittadino di domani (futuro elettore o rappresentante politico). Ergo, per formare al meglio nella sua interezza l’educando, ritengo sensato e doveroso promuovere quello che chiamo: il paradigma della qualità. Il fondamento filosofico della stessa l’ho ricavato dal romanziere americano Robert M. Pirsig. Egli ha promosso una metafisica della qualità, che, a mio avviso, può – senza forzature – applicarsi alla didattica.

Il fordismo – da Henry Ford, inventore della catena di montaggio – inteso come esaltazione della quantità, ci ha resi schiavi della produttività a tutti costi. Ribaltando il detto cartesiano, per un fordista dei nostri giorni: “Produci dunque sei”. Una rivalutazione del principio di qualità potrebbe ovviare alla degenerazione prodotta dal principio opposto di quantità. Solo tale rivalutazione può rimettere al centro l’uomo, ormai ridotto alla stregua di automa dedito principalmente alla produzione, al produrre quel surplus, quella eccedenza che Marx ha chiamato “plusvalore”, che è proprio ciò che permette ai capitalisti di arricchirsi. (Non a caso c’è chi ha visto nel marxsismo un nuovo umanesimo, seppure tradito poi – nonostante le resistenze di alcuni ad ammetterlo – dalle scelleratezze perpetrate nei Paesi del socialismo reale.)

Qual è il male della filosofia odierna, o ancora meglio: della didattica filosofica contemporanea? Questo male secondo Pirsig – e anche secondo me – si chiama filosofologia. I filosofologi sono per una concezione “archeologica” della filosofia, che andrebbe secondo loro rintanata nelle accademie, dimore dei filosofologi, i quali più che a filosofare – come avrebbe voluto Kant, promotore del metodo zetetico, da “zetein”, “indagine” – si insegna la filosofologia. Che cos’è? Un continuo rimando di citazioni privo del coraggio di osare argomentare proprio dello spirito originario della filosofia, quella autentica, delle origini tanto per intenderci, la cui incarnazione ci è data dal celebre detto socratico “so di non sapere”. Al contrario i filosofologi sanno troppo e, paradossalmente, pensano troppo poco, o – in alcuni casi addirittura – quasi neanche pensano e si limitano a citare altri più titolati di loro come se da ciò ne derivasse un particolare merito (il merito, se c’è, tutt’al più è dell’autore citato). Insomma, il citazionismo è diventato lo sport più praticato nelle sempre più deserte accademie.

Più che il possesso di qualche conoscenza, la filosofia è ricerca della conoscenza. Si tratta di una ricerca incessante e infaticabile, che è nel dna stesso della materia, detto in termini più “accademici”: nel suo statuto epistemologico. Interessante a tale riguardo è il mito della nascita di Eros, che racchiude il senso profondo della filosofia e del filosofare inteso come continuo cercare mai domo, appagato poiché Eros/filosofia: di certo non arderebbe di amore per la conoscenza, se solo la possedesse.

Nelle scuole servirebbero degli insegnanti di filosofia e non dei filosofologi. Perché chi è che può insegnare se non chi ha dimestichezza e confidenza con una determinata disciplina? Il filosofologo, non facendo lui direttamente filosofia, non può insegnare alcunché a dei liceali, tanto meno a pensare con la loro testa, che – come si evince dalle “Indicazioni ministeriali” – è la competenza più basilare della disciplina filosofica.

Da dove comincerei questo cambiamento di paradigma e – perché no – di passo nell’insegnamento? Partirei dal bandire dal lessico degli studenti i vari “così disse Tizio o Caio”, motivandoli sin da subito ad affermare “così dico” con una certa cognizione di causa. Questo significa farli prendere coscienza delle loro idee, a mio avviso. Va da sé che per farlo i miei studenti dovranno conoscere quelle dei principali pensatori, senza per questo costringerli a scimmiottare i testi o i manuali studiati, per poi, una volta terminata l’interrogazione o il compito in classe, disinteressarsene come se quell’apprendimento non fosse utile per le loro vite. Mi piacerebbe che durante le interrogazioni e i compiti in classe i miei alunni mi spiegassero il tale filosofo o il tale periodo storico con parole loro, facendo un uso ponderato delle citazioni, che nel migliore dei casi denotano una memoria alla Pico della Mirandola, nel peggiore invece un odioso studio “a pappagallo” dei testi. Dunque, auspico che il “così dico” subentri finalmente al “così si dice”, la fase attiva a quella passiva, studiare filosofia ma anche impratichirsi con il filosofare: fare filosofia in prima persona.

Perché questo? Perché lo dico io? No, semplicemente perché lo dice già il “Profilo generale e competenze per l’insegnamento della filosofia”. Si sa, però, un conto è dirlo, un altro è attuarlo. Facendo un’eccezione alla mia regola, ne cito un breve passaggio: “La conoscenza degli autori e dei problemi filosofici fondamentali dovrà aiutare lo studente a sviluppare la riflessione personale, l’attitudine all’approfondimento e la capacità di giudizio critico”.

Va bene studiare i grandi del pensiero, però occorre metterci del proprio. Tradotto: non basta sapere e non basta neanche comprendere, ma occorre trasformare, cioè fare proprio un apprendimento. Un po’ come a voler dire, rielaborando l’undicesima “Tesi su Feuerbach” di Marx: i “filosofologi” si sono limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di trasformarlo”.

Come penso di riuscire nell’intento? Facendo mio il metodo argomentativo-critico-decostruttivo che ben si attaglia all’insegnamento della filosofia (e anche della storia). Sono convinto che insegnare a filosofare liberi dalle catene del “così si è sempre detto, fatto, pensato”. Parafrasando Heidegger: la “diceria” è la vera tirannia del pensiero.

Filosofare è ripensare quanto è già stato pensato, non mi stancherò mai di ripeterlo. Motivo per cui: la vera essenza della filosofia è dinamica. Senza un ripensamento radicale, che affondi cioè sino alla radice stessa del problema, non può esserci alcun rinnovamento. E non c’è rinnovamento senza ripensamento.

Insomma, alla fine si ritorna sempre al “conoscere te stesso”; conoscenza di sé che è l’unica conoscenza possibile. Già sarebbe tanto arrivare a conoscersi nell’arco della propria vita. Solo conoscendosi a fondo ci si può riconnettere con il proprio sé più autentico, capire cosa si vuole e provare a ottenerlo.

L’educazione alla qualità e non all’efficienza è ciò che si dovrebbe ritornare a insegnare nelle scuole. Ho usato volutamente il termine “ritornare”, perché questo tipo di educazione è stato usato in passato, nell’antica Atene, da un signore paragonatosi a un “tafano” e – come se non bastasse – anche a una “levatrice”, di cervelli beninteso. Il suo nome ormai consegnato alla posterità è: Socrate.

Pertanto, è l’educazione maieutica socratica il presupposto alla mia didattica della qualità. Perché insegnare deve ritornare a essere concepito come un “compito di salute pubblica”, come una “missione”, per dirlo come Morin, o come una vocazione, per dirlo come lo dico io.

Che tipo di “missione”? Una missione trasmissiva, che “richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un’arte”. Quale tecnica, quale arte? Una tecnica, un’arte “che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l’eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi” (“La testa ben fatta”, p. 106).

In definitiva, all’insegnamento è necessaria una pulsione erotica, platonicamente intesa come: “amore per la conoscenza”, che non si possiede, ma a cui si vuol tendere. Come trasmettere questo amore? Con passione e fatica senza dimenticare che, come afferma Platone nel dialogo “Ippia Maggiore”: “Le cose belle sono difficili”. Sia l’amore sia la bellezza – l’uno, Eros, secondo la leggenda platonica viene concepito durante la festa di Afrodite, quindi, nasce sotto il suo segno – richiedono cura, dedizione, impegno, in una parola: consacrazione. Serve amore, tanto amore per consacrarsi alla bellezza, che non so se potrà salvare il mondo come credono alcuni – il più famoso dei quali è Dostoevskij –, di sicuro però credo ci si possa trovare tutti d’accordo nel dire che: senza la bellezza – nell’accezione più ampia possibile, che ben poco ha a che vedere con la cosmesi – il mondo sarebbe un posto ben più misero in cui vivere. Finché c’è bellezza, invece, c’è speranza. Quale? Che il domani possa essere migliore dell’oggi.

Prima lezione di filosofia a dei liceali

È mia convinzione che, oggi, si stia avvertendo la mancanza di una filosofia forte e di “filosofi” degni di questo nome, capaci cioè di ripensare la realtà “in toto” così da rinnovarla e, dunque, migliorarla. Difatti, non esiste alcuna progressione migliorativa senza una radicale capacità di ripensamento. Poiché s’è vero, come credo, che filosofare è ripetere – ce lo fa intuire Platone in una sua opera intitolata “Fedro” –, è altrettanto vero però che filosofare è “ripensare” quanto è già stato pensato.

Cos’ho in comune con Socrate, Pirsig, Gramsci?

Credo anch’io che tutti gli uomini siano filosofi.

Bene, il mio obiettivo, come vostro professore, è accompagnarvi in questo triennio e tirare fuori “il filosofo” che si cela in ognuno di voi.

Diventerete “filosofi” studiando, oltre agli appunti delle lezioni e ai materiali che vi fornirò, anche le pagine del vostro manuale di testo. L’approccio didattico che vi propongo è quello storico-filosofico, con delle incursioni mirate su temi di particolare rilevanza, che sceglierò per voi.

Quest’anno partiremo dai filosofi detti Presocratici (perché sono venuti prima di Socrate, che possiamo ritenere a pieno titolo il padre – insieme a Platone – della Filosofia con la “F” maiuscola) e arriveremo fino a Epicuro.

Oggi, come prima lezione, siccome è la prima volta che incontrate questo oggetto per i più misterioso chiamato “filosofia”, vi proporrò una riflessione sull’essere filosofi, affinché vi rendiate conto della possibile applicazione concreta di questa materia nata tra il VI e il V secolo a. C. nelle colonie greche e in Grecia.

Visto che tutto in filosofia parte dal domandare, direi di partire subito con una domanda: che cosa significa essere “filosofi”, o meglio ragionare in termini filosofici?

Innanzitutto è bene chiarire cosa “non” vuol dire.

Per farlo mi avvarrò del romanzo filosofico “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” dello scrittore americano Robert M. Pirsig adatto alla vostra età, dato che – immagino – molti di voi possederanno già una moto di piccola cilindrata o, quanto meno, un motorino. Anche se, devo essere onesto con voi, i motori in questo caso sono l’espediente, che l’autore trova, per parlare di altro. E questo altro è appunto: la filosofia.

Il tema centrale del romanzo è il viaggio, un viaggio – possiamo dire – alla ricerca della libertà assoluta, che spesso coincide con la solitudine assoluta. I protagonisti sono due, padre e figlio. Della trama non vi dirò altro, per evitare ogni forma di “spoileraggio”. Vi dirò qualcosa in più sull’autore, che, a mio avviso, ha la stoffa del filosofo di razza, seppure di un genere particolare: “anticonvenzionale”, nel senso che si colloca al di fuori delle convenzioni del mondo accademico, del quale si chiama fuori risultando una sorta di “eretico” della filosofia.

Le Accademie – luoghi dove si possono trovare i professori di filosofia più quotati – non gli stanno granché simpatiche, anzi è proprio il caso di dire: non gli stanno simpatiche per niente. Secondo Pirsig in queste, la filosofia, più che come materia viva, viene studiata come reperto archeologico. Per lui gli accademici sono dei “filosofologi” e non dei filosofi, e quella che loro insegnano non può dirsi filosofia ma: “filosofologia”. Pirsig li accusa di non “fare filosofia”.

Be’, se diamo uno sguardo alla realtà odierna, questa tendenza alla filosofologia ha preso un po’ troppo piede, perlomeno in ambito universitario. Vi dico subito che sull’argomento la penso allo stesso modo di Pirsig, per questo mi guarderò bene dall’insegnarvi filosofia alla maniera dei filosofologi. O perlomeno, questo è l’obiettivo che mi pongo con voi.

È mia convinzione che, oggi, si stia avvertendo la mancanza di una filosofia forte e di “filosofi” degni di questo nome, capaci cioè di ripensare la realtà “in toto” così da rinnovarla e, dunque, migliorarla. Difatti, non esiste alcuna progressione migliorativa senza una radicale capacità di ripensamento. Poiché s’è vero, come credo, che filosofare è ripetere – ce lo fa intuire Platone in una sua opera intitolata “Fedro” –, è altrettanto vero però che filosofare è “ripensare” quanto è già stato pensato. Compito arduo, ma non impossibile, come i vari: Kant e Hegel – autori che affronteremo più in là, non quest’anno – testimoniano. Questi due, malgrado avessero buoni motivi per gettare la spugna e arrendersi al cospetto di veri e propri “giganti” del pensiero quali – per esempio ma non soltanto – Platone e Aristotele, tuttavia si guadagnarono con nobile fatica, la cosiddetta “fatica del concetto”, il loro posto di tutto rispetto nel “pantheon” riservato ai più grandi pensatori.

Immaginate la storia della filosofia come una staffetta, a proposito della quale ogni filosofo del passato ci ha lasciato il testimone da portare avanti. Di certo non sarà con il modo ossequioso dei “filosofologi” che si potranno riscrivere pagine importanti di filosofia: una filosofia che ritorni a essere produttiva, propositiva. La riverenza non la dobbiamo ad altri nostri simili, semmai dobbiamo loro, a tutti loro: il rispetto, quello sì.

I grandi filosofi del passato non sono stati niente più che esseri umani come noi, con i loro pregi e i loro difetti, creature fallibili la cui stella ha solo brillato un po’ più di altre, ma che poi si è spenta così come vuole il destino di ogni stella. A dire il vero, dei loro difetti in quanto uomini c’interessa poco, o niente. Li giudicheremo per quello che ci hanno lasciato: il loro pensiero, la loro filosofia. Come vedete mi è capitato e capiterà spesso di usare i termini “pensiero”, “filosofia” come sinonimi. È normale, non preoccupatevi.

Ora, proviamo a ripensare alla storia della filosofia sin dai suoi albori: se Aristotele fosse stato “riverente” con il pensiero di Platone, non avrebbe mai raggiunto le vette di pensiero che di fatto raggiunse, consegnandoci le sue opere immortali; non sarebbe stato altro che uno dei tanti discepoli del sommo Platone.

Cosa ci dimostra questo?

Semplicemente che ognuno di noi può maturare un proprio pensiero, seppure stringendo una speciale affinità elettiva con quello di alcuni dei più grandi filosofi della storia, vissuti prima di noi. Vedrete che quest’anno a seconda delle vostre “formae mentis” parteggerete più per Platone o più per Aristotele. Al riguardo la penso come il signor Pirsig, il quale afferma che il mondo si divide in due schiere: una formata dai platonici e un’altra dagli aristotelici. Semplificando: i primi guardano in alto, i secondi in basso, come questo dipinto intitolato “La scuola di Atene” di Raffaello Sanzio.

Fate attenzione, qui Platone ha il dito puntato verso l’alto, come a indicare le cose di lassù, mentre il discepolo Aristotele tiene il palmo della mano aperto verso il basso, come a volere rimarcare la sua appartenenza al mondo di sotto, questo nostro mondo in cui abbiamo i piedi ben piantati, altro che l’Iperuranio del maestro.

In effetti, dipingendo Platone con il dito puntato in alto e Aristotele con il dito rivolto verso il basso, Raffaello sintetizza – come nessun altro ci era riuscito prima – le loro filosofie, entrambe protese a ricercare la Verità. Se Platone era convinto che la si potesse trovare nell’Iperuranio, un luogo mitico posto in siderali altitudini dove hanno sede le Idee (avremo poi modo di vedere cosa intende con esse, a tempo debito), Aristotele era persuaso che la si dovesse cercare nel nostro mondo terrestre, guardando per l’appunto in basso, vivisezionando la realtà con perizia di un chirurgo (non a caso era figlio di un medico).

Vi ho parlato un po’ di Platone e Aristotele, perché lo stesso fa Pirsig nel suo romanzo molto filosofico e poco motociclistico. A suo avviso, la filosofia per pochi eletti promossa dalle Accademie tradisce la natura stessa della disciplina. La filosofia originaria, che cioè non si è dimenticata delle proprie origini, è a disposizione di tutti e tutti ne possono disporre perché: tutti gli uomini sono filosofi. Solo che non tutti se ne rendono conto, oppure lo sanno. Questa convinzione è ciò che accomuna, come vi ho già detto all’inizio: Socrate, Gramsci, Pirsig e me. Dunque, fare filosofia è alla portata di tutti.

Perché dico “fare filosofia”?

Perché studiarla equivale già – in un certo senso – a farla, nel senso che mentre la si studia, ve ne accorgerete, non vi lascerà affatto indifferenti, ma coinvolgerà – nel bene e nel male – ogni neurone e sinapsi del vostro cervello. A volte vi annoierà, certo. Magari la maggior parte delle volte. Ma sono sicuro che qualche volta – spero – vi colpirà al punto da farvi meglio sopportare le volte in cui avreste voluto scagliare il libro o gli appunti il più lontano possibile da voi.

Se me lo permetterete, oltre a studiare la storia della filosofia, vorrei con voi fare filosofia anche, che si dice: “filosofare”. Insieme renderemo questa materia, tutto fuorché indifferente, non più mera esclusiva degli “incravattati” accademici. Senza nulla togliere alle cravatte né agli accademici che hanno tanto studiato e hanno dovuto compiere innumerevoli sacrifici per farsi una posizione. Meritano infatti un sincero, profondo rispetto coloro che consacrano la loro vita alla conoscenza.

Magari ora vi starete chiedendo: “Ma ‘sto professore perché ce l’ha tanto con i tizi in giacca e cravatta che insegnano nelle Accademie?”.

Potrei rispondere che non ce l’ho affatto con costoro, che, anzi, lo ribadisco: hanno tutta la mia stima e comprensione. È solo, però, che trovo giusto chiarire che non è quasi mai vero che il vestito esteriore fa il monaco. Chi lo pensa è un superficiale, il contrario di un filosofo. Questi non lo riconoscerete dall’abito che indossa, ma dal modo filosofico con cui pensa, perché la filosofia è essenzialmente un abito interiore.

Un tale Diogene di Sinope – pensatore che vedremo quest’anno – detto “il Cinico” invidiava la frugalità dei cani e dimorava in una botte, ma non per questo era meno filosofo di altri meglio agghindati ma con una rapa al posto del cervello. Anzi, è probabile che in virtù del suo coprirsi di stracci, lo era in misura maggiore di molti altri più elegantoni di lui, perché – talmente indaffarato a edificare il proprio abito interiore – non dava granché importanza al modo di vestirsi.

Con questo non vi sto consigliando di andare in giro alla maniera di Diogene – anche perché d’inverno fa freddo e a volte pure in autunno –, vi sto solo dicendo di pensarci bene prima di etichettare una persona come un eccentrico. Spesso sono le persone stravaganti che ci arricchiscono di più a livello umano.

Il vero filosofo non guarda alle apparenze, non si cura la barba o si preoccupa di avere i capelli fuori posto, per lui molto più grave è avere le idee in disordine. Bisognerebbe scovare i tanti Diogene del nostro tempo e dare loro un megafono per esprimere il loro prezioso anticonformismo. Poiché conformarsi sempre potrebbe non essere la soluzione. È nei pareri discordanti che va ricercata la soluzione, alla quale, molto spesso, ci si arriva per sentieri inesplorati.

Vi confesso che spero con voi di avere trovato i miei giovani e gagliardi Diogene pronti a fare con me, seppure non in motocicletta come i protagonisti del romanzo di cui vi ho parlato (anche perché nella mia Harley c’è posto per un solo passeggero), un viaggio lungo dei secoli, chiamato: storia della filosofia.

Ah, non vi ho ancora detto che la parola “filosofia” deriva dal greco “philo-sophìa”, che significa: amore (philo) per la sapienza (sophìa).

“Nomen omen”, dicevano i Latini. Se si può dare loro ragione e davvero “il nome è un presagio” – questo vuol dire il proverbio – credo che la prospettiva per voi di studiare filosofia e, allo stesso tempo, diventare i filosofi che in realtà già siete – solo che non sapete di esserlo, “so di non sapere” diceva non a caso Socrate, il maestro di Platone e Aristotele – non sia poi da buttare.

Chiudo con una raccomandazione, mai scontata: studiate e vedrete che staremo bene insieme.

P.S. V’invito a non prendere per “oro colato” qualunque cosa vi dirò nel corso dell’anno. Anzi. Se non vi convince, mettete in discussione le mie ragioni, ma preoccupatevi dopo di convincermi della plausibilità delle vostre. La conoscenza è negoziazione inclusiva, non possesso esclusivo.

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