Se l’otto è il nuovo sei

Siamo orfani dell’eccellenza dei migliori e si approssimano per tutti noi tempi in cui chi vale potrebbe – se giustamente valorizzato sin dall’inizio dell’età scolare – giovare alla collettività.

Se l’otto è il nuovo sei per gli studenti propongo di abolire i voti così risolviamo il problema della valutazione alla radice. Dopo il Sessantotto e il sei politico che ne è scaturito, ci manca solo di abbassare ancora di più l’asticella per i nostri studenti… fatico a credere come non si riesca a capire che, in questo modo, li stiamo danneggiando più di quanto non abbiamo già fatto con anni di valutazioni uniformate al rialzo in nome di una scuola più democratica, con il risultato che, agendo così, indeboliamo ulteriormente le nostre – già indebolite – democrazie, che hanno un bisogno vitale di cittadini selezionati sulla base dei loro reali meriti. Siamo orfani dell’eccellenza dei migliori e si approssimano per tutti noi tempi in cui chi vale potrebbe – se giustamente valorizzato sin dall’inizio dell’età scolare – giovare alla collettività. Uno Stato governato dai più eccellenti ha più possibilità di potersi approssimare a quel “bene comune” da tutti sbandierano ma che pochi ricercano. La politica non può essere usata a scopi di carriera o arricchimento, essa serve per portare armonia in un mondo sovrabbondante di caos. Se devono avere ancora un senso i voti: quello è responsabilizzare gli studenti su quali sono i loro punti di forza e aiutarli a capire dove possono migliorare; potere è dovere, secondo me. Tutto questo però è possibile solo se si accorda fiducia al docente e si accettano i voti con serenità. Se mancano questi due capisaldi, “serenità” e “fiducia”, la professionalità dell’insegnante e – continuo a credere in controtendenza alla nostra epoca – il suo ruolo fondamentale nella società ne uscirebbe non solo sminuito – già lo è – ma irrimediabilmente danneggiato.

Ogni giorno ha il suo voto

Ci sono giorni da lode e altri da infamia. L’essenziale è capire che si deve dare sempre il massimo, ogni benedetto giorno, perché: ogni giorno ha il suo voto.

“Tu che voto ti daresti?”. Questa è la domanda spiazzante che i miei studenti si sentono fare quando finisco d’interrogarli. Il motivo è che ritengo l’autovalutazione una competenza fondamentale da far acquisire ai miei studenti. Un buon modo per renderli consapevoli di sé e spingerli al continuo miglioramento credo debba cominciare dall’intima comprensione di dove potevano fare meglio. Più le loro autovalutazioni si avvicinano alle mie valutazioni e più maturi significa che sono diventati i miei studenti, che vuol dire: più pronti ad affrontare le crescenti sfide della vita.

Mi rendo conto che i voti – nel bene e nel male – rimarranno sempre un cruccio per adolescenti con i loro problemi, la loro età dello sviluppo che li porta a essere alquanto umorali e in alcuni casi addirittura distruttivi per via di situazioni di difficoltà personali o familiari. Da parte mia continuerò a impegnarmi affinché i miei studenti capiscano la necessità dell’accettare i voti che, in buona fede e con onestà intellettuale, gli impartisco adempiendo al mio dovere di professore. Poi, come dico sempre loro, il voto che assegno per una prestazione non li sminuisce di certo ai miei occhi. Perché? Mi viene da dire con Aristotele che “una rondine non fa primavera”, così come non la fa un bel voto o tantomeno un brutto voto fa autunno o peggio inverno.

Un voto è un voto, vale a dire: un giudizio sospeso che ha la necessità di essere continuamente confermato o smentito dentro e fuori la scuola. Ragion per cui se magari un voto può non dire il vero sui livelli di apprendimento di un ragazzo, due voti, o tre, o quattro, o cinque, o più, potranno dirci di più, seppure un giudizio definitivo sulla persona non lo daranno mai. Magari uno studente può applicarsi nello studio individuale a casa, avere più o meno ascoltato e preso appunti in classe; poi per motivi diversi – un mal di testa, un mal di pancia, una preoccupazione qualsiasi – il giorno della prova può non rendere come si sarebbe aspettato. In questo caso può – e deve se è coscienzioso – rimanere deluso della prova offerta. Di certo, però, non può – e non deve – prendersela con il docente che è sempre dalla parte dello studente e che persino quando non dà valutazioni positive cerca comunque di aiutare. Il guaio è che a volte studenti – e certi genitori che li aizzano – tendono a confondere l’aiuto con il regalo. Per quel che mi riguarda, io aiuto sempre i miei studenti, ma non regalo loro mai niente.

Le prove di verifica nella scuola post 1968 sono tutto fuorché inquisitorie, tant’è vero che suscitano lo sdegno di molti intellettuali che hanno conosciuto anche l’era pre-sessantottina. Costoro ritengono che l’asticella valutativa nella scuola si sia abbassata troppo e credono che la scuola prima del ‘68 era meglio di quella dopo il ‘68. Uno dei sostenitori di questa tesi è il noto giornalista Corrado Augias, che esprime questa posizione critica nei confronti dell’odierno sistema scolastico nel volume Questa nostra Italia. Per quanto mi riguarda, credo si debba riflettere su quali prospettive vogliamo dare ai nostri studenti, i quali – non dimentichiamolo – saranno chiamati nel prossimo avvenire a prendere decisioni cruciali per l’intero genere umano. Basti pensare ai cambiamenti climatici che minacciano sempre più la nostra vita sulla Terra. Un minore grado di preparazione culturale delle future classi dirigenti, purtroppo, non potrà che avere un impatto negativo nelle ineludibili scelte che si dovranno prendere. Mi sento d’accordo con John Dewey, che qui parafraso: la scuola non prepara alla vita, essa è già vita.

In fondo, per farsi benvolere dagli studenti ci vorrebbe poco. Basterebbe spacciarsi per “papini” e “mammine” sempre comprensivi e mai una volta severi. Questo modo di porsi – per così dire – paterno o materno può tornare utile per un docente di scuola primaria. Lo stesso atteggiamento materno o paterno trovo però sia poco edificante quando si hanno davanti degli adolescenti, che hanno bisogno di essere sempre più sollecitati sul piano della responsabilità individuale, visto il nocivo clima di deresponsabilizzazione che si respira anche al di fuori dell’ambito scolastico. Deresponsabilizzare è il problema e non potrà mai essere la soluzione. Chi giustifica sempre e comunque le mancanze degli studenti finisce con il farli crescere con l’erronea convinzione di non essere responsabili delle loro azioni e dei loro risultati scolastici. Al contrario un buon professore dovrebbe proprio fare l’esatto contrario: abituarli ad assumersi le loro inderogabili responsabilità. Ciò non significa che non si debba mai giustificarli. Basterebbe solo discernere una giustificazione dovuta da un’altra futile che non è bene concedere. Sarà un caso ma in questi anni sul campo ho notato che gli studenti che indovinano di più i voti delle interrogazioni sono quelli più responsabili… In definitiva, concludo dicendo che ai voti va data la giusta importanza che è né troppa né poca, ma una sana quanto aristotelica via di mezzo. Ci sono giorni da lode e altri da infamia. L’essenziale è capire che si deve dare sempre il massimo, ogni benedetto giorno, perché: ogni giorno ha il suo voto.

Una vita ben fatta

La scuola che vorrei dovrebbe mettere tra parentesi i voti […] La messa tra parentesi dei voti a scuola è secondo me utile perché il voto che stai dando al ragazzo di oggi deve trovare conferma nella buona operosità dell’uomo di domani.

Trovo azzeccato paragonare una classe a un organismo vivente. Ci sono classi che allo stesso stimolo reagiscono in modi differenti. Con alcune puoi metterci tutta la dedizione di questo mondo senza produrre il risultato sperato, con altre basta invece aprire bocca per accendere la scintilla dell’amore per la conoscenza.

L’aspetto più complesso del mestiere di docente credo sia profondere lo stesso livello di passione e impegno con tutte le proprie classi ricevendo in cambio sia nelle verifiche sia anche umanamente delle risposte di vario genere. Ci sono classi a cui dai tanto ma che ti restituiscono poco, questo è senz’altro l’aspetto più frustrante della mia professione.

In materia d’insegnamento credo che gli insuccessi siano importanti quanto i successi. Gli insuccessi ti invitano a fare un bagno di realismo, evitano di volare troppo alto e impediscono di farti troppo male quando cadi; non mettere in conto qualche caduta è da imprevidenti. Quando ti ritorna di meno dagli studenti devi mandare giù il boccone amaro e andare avanti facendo tesoro di ogni loro reazione, anche – e soprattutto – di quelle negative. Ciò può aiutare a diventare ogni giorno un professore migliore del giorno prima. E i successi allora? Be’, quelli sono carburante per l’anima e ti danno la forza per proseguire il cammino dell’insegnante.

Ho la sensazione che alcuni studenti – una minoranza – siano molte volte mossi da uno spropositato amor di polemica e abituati a sentirsi sempre incolpevoli dei loro scarsi rendimenti. Della serie: è sempre colpa di una forza esterna, sia essa il professore troppo severo, oppure il libro di testo difficile, o le dispense di cui non si legge bene una lettera su mille, eccetera. Come se fossero delle povere vittime in mano a carnefici che li vessano e li valutano come non avrebbe fatto nemmeno il famigerato inquisitore Tomás de Torquemada.

Ad alcuni studenti poco maturi basta una sola valutazione negativa per farli millantare chissà quale torto subìto. Puoi provare a farli ragionare dicendo loro che lo stesso professore che li ha valutati la volta prima positivamente e la volta dopo in maniera negativa, non può essere bravo nel primo caso e un asino ragliante nel secondo. Se gli si concede di averci preso in caso di valutazione favorevole, allo stesso modo bisogna fidarsi in caso di valutazione sfavorevole.

Ci tengo davvero che i miei studenti imparino ad accettare con serenità i voti, qualsiasi essi siano. La valutazione è importante, però più ancora conta capire che occorre studiare per acquisire un bagaglio culturale e delle competenze che possono tornare utili nella propria vita, non per un’effimera gratificazione. Per carità, i bei voti fanno gola a tutti e bisogna cercare di ottenerli senza però drammatizzare troppo se non si riesce a raggiungere il livello sperato. Insomma, se va bene un’interrogazione o un compito, bene, altrimenti non facciamone un dramma. Prima degli studenti questo dovrebbero capirlo i genitori, che dovrebbero aiutarci ad aiutare a far capire ai loro figli che un brutto voto non è la fine del mondo, purché non si smetta di volersi migliorare. L’anelito al miglioramento dev’essere uno sprone costante nella propria vita. Chi non si vuole più migliorare è pronto per il pensionamento anticipato.

La scuola che vorrei dovrebbe mettere tra parentesi i voti alla maniera dei fenomenologi, non toglierli, minimizzarli piuttosto. I fenomenologi ricalibrarono l’espediente filosofico della epochè, teorizzato dagli stoici al fine di sospendere l’assenso sulla realtà circostante. Il perché di questa sospensione gli stoici lo giustificavano vista la fondamentale incertezza di ogni conoscenza. I fenomenologi, più cauti degli stoici, intesero la epochè come un mettere tra parentesi il mondo per ritornare alle cose. Prima dell’avvento della fenomenologia, secondo il loro fondatore Edmund Husserl, troppo concentrati sul mondo i filosofi si erano dimenticati delle cose che in esso vi abitano e che sono meritevoli della più alta considerazione filosofica. La messa tra parentesi dei voti a scuola è secondo me utile perché il voto che stai dando al ragazzo di oggi deve trovare conferma nella buona operosità dell’uomo di domani. Cosa voglio dire? Conosco alcuni primi della classe che neanche si sono laureati, così come sono a conoscenza di studenti con difficoltà al liceo che sono letteralmente sbocciati all’università e poi nella vita lavorativa.

Ecco, io credo che il peccato originale della docimologia – scienza della valutazione – sia enfatizzare l’importanza dei criteri quantitativi, dimenticandosi le più importanti finalità qualitative dei voti, che sono solo uno strumento per raggiungere uno scopo più grande: la formazione di chi quel voto lo riceve. Per questo la valutazione formativa sarà sempre da preferire a quella sommativa. La media matematica dei voti non ci dice niente dell’educando a cui sto mettendo quel voto che non può mai essere fine a sé stesso, bensì un fine in vista del raggiungimento di un più alto grado di crescita personale dell’educando. Un professore che si dimentica questa valenza del voto ha venduto la propria anima al paradigma della scuola come azienda, che è di preciso ciò che mi spinge a pensare e sperare alla scuola che vorrei.

Sono convinto che finché si pensa a come si vorrebbe la scuola, c’è la speranza di poterla migliorare, che per me vuol dire restituirle la centralità che merita e che spaventa tanto quella parte ormai preponderante della politica che è inquinata dal pensiero economicista. Paragonare la scuola a un’azienda e utilizzare il lessico aziendale per descriverla ne ha sminuito il valore universale. Per fortuna che la maggior parte dei colleghi che conosco è lontana anni luce dalla visione ristretta degli economicisti; non si deve guardare tutto con la lente d’ingrandimento dell’economia, che è certamente una componente importante da considerare, seppure non può essere l’unica. Se la nostra società insegna a reputare dei vincenti solo quelli che riescono a fare soldi, la scuola che vorrei dovrebbe insegnare ai ragazzi che vince solo chi diventa ciò che è in potenza, realizzando la sua potenzialità umana come vorrebbe Nietzsche. Ergo: tutti potremmo vincere se riuscissimo a realizzare il nostro volere, diventando quello che in cuor nostro sappiamo di essere e non adeguandoci a quello che altri vorrebbero che diventassimo. Il vero perdente è colui che abdica al suo volere per inseguire quello altrui e con ciò si condanna a una vita insoddisfacente. Mentre conduce una vita soddisfacente chi fa quello che vuole e non quello che gli altri vogliono per lui.

A differenza della scuola come azienda, la scuola che vorrei non insegna a fare soldi, ma fornisce una metaforica cassetta degli attrezzi per condurre una vita ben fatta, come la testa di cui predicava Montaigne.

Dallo zero al dieci

Un bel voto – è inutile negarlo – è una gradita iniezione di autostima anche per il docente che lo mette, perché “potrebbe” significare che ha lavorato bene. Poi è ovvio che il dieci inteso come perfezione assoluta non ha senso, nessuno studente – così come nessun professore – offre la prestazione perfetta, infallibile. Come esseri umani siamo tutti imperfetti, fallibili. Tutti potevamo fare meglio. Persino Dante poteva scrivere meglio certi passaggi della “Divina Commedia”. Blasfemia? Semplice ammissione di umanità.

Nel recente passato mi è capitato di intrattenere un’edificante chiacchierata con un mio collega secondo il quale dare dieci non avrebbe senso, perché equivarrebbe a dire allo studente che è stato perfetto e, di conseguenza, lo indurrebbe a montarsi troppo la testa. Trovo questa argomentazione del collega poco convincente, perché il dieci a volte serve proprio per incoraggiare un ragazzo che ha una spiccata propensione per la tua materia, ha stoffa insomma, e tu dandoglielo vuoi invogliarlo a mantenere questo standard elevato.

Ci tengo a precisare che mi capita di mettere in guardia ogni studente a cui do dieci, che – sarà pure scontato ma credo sia bene ribadire – con me non vale la regola del “dieci una volta, dieci per sempre”. Ogni volta gli darò il voto che si merita, anche dovesse essere quello che per me è il minimo, ossia tre. Come se non bastasse, quelle rare volte in cui do dieci puntualizzo allo studente beneficiato che questa valutazione non implica che ha fatto una prova perfetta; in quanto esseri “umani”, cioè “fallibili”, il massimo a cui possiamo ambire è essere “perfettibili”, no di certo all’impossibile perfezione con cui la nostra natura di esseri “limitati” fa a pugni. Se attribuisco il voto più alto è perché apprezzo le prestazioni di spessore, dove lo studente mi dimostra di cavarsela per via di un’esposizione particolarmente brillante, forbita e appassionata; soprattutto in quest’ultimo caso, mi sembra un’eresia inaccettabile non premiare chi ti dimostra di avere passione unita alle competenze/abilità/conoscenze per la tua disciplina.

Un bel voto – è inutile negarlo – è una gradita iniezione di autostima anche per il docente che lo mette, perché “potrebbe” significare che ha lavorato bene. Poi è ovvio che il dieci inteso come perfezione assoluta non ha senso, nessuno studente – così come nessun professore – offre la prestazione perfetta, infallibile. Come esseri umani siamo tutti imperfetti, fallibili. Tutti potevamo fare meglio. Persino Dante poteva scrivere meglio certi passaggi della “Divina Commedia”. Blasfemia? Semplice ammissione di umanità.

Ciò detto, quando a noi professori si presentano casi – e ce ne sono – di alunni palesemente meritevoli, credo sia sbagliato non assegnare loro il voto massimo, che vuole anche servire loro da incoraggiamento, da sprone a continuare a meritarselo, a ogni interrogazione o verifica successiva. Mi è capitato durante lo stesso anno scolastico di dare un tre e un dieci a uno studente. Che dire, difendo il mio operato e sostengo che entrambi i voti se li sia meritati. Motivo per cui: perché non avrei dovuto darglieli? Dopo il tre avrei dovuto farmi condizionare nelle valutazioni successive? Non credo proprio, infatti non l’ho fatto. Sono stato bravo ad agire così? No, penso solo di essere stato onesto, né più né meno.

In ultima analisi, così come rivendico la mia scelta di optare per una scala valutativa che va dal tre al dieci, al contempo difendo – applicando il principio della tolleranza tanto caro a Voltaire – quei colleghi che per ragioni loro – che starà a “loro” motivare – hanno una scala di valutazione che va dallo zero al dieci.

Il tranello della condiscendenza

Noi docenti abbiamo pregi e difetti come tutti, ne dovremmo essere consapevoli noi per primi. Tuttavia, credo che se non si è un minimo consapevoli dei propri mezzi, delle proprie capacità, non si possa fare il mestiere che facciamo ogni giorno districandoci fra i banchi delle aule scolastiche e cercando in tutti i modi di suscitare l’interesse di un uditorio difficile come quello di ragazzi nel pieno dell’età dello sviluppo, con le loro naturali turbolenze, le loro inevitabili distrazioni e i loro comprensibili sbalzi d’umore.

D’inclinazione sono per fare poche cose ma fatte bene. Poi, certo, nessuno è perfetto, non credo esista il docente che ha tutte le qualità di questo mondo. Siamo persone e non ologrammi collegati a qualche cloud da cui attingere un numero illimitato di informazioni; ologrammi che da qui a qualche anno – stando a recenti sperimentazioni – magari prenderanno il posto di noi professori in carne e ossa, che siamo molto più fallibili e con molti più difetti. Gli studenti faranno le domande agli ologrammi e riceveranno in cambio una freddezza artificiale ma – in compenso – un’esattezza millimetrica nelle risposte.

Noi docenti abbiamo pregi e difetti come tutti, ne dovremmo essere consapevoli noi per primi. Tuttavia, credo che se non si è un minimo consapevoli dei propri mezzi, delle proprie capacità, non si possa fare il mestiere che facciamo ogni giorno districandoci fra i banchi delle aule scolastiche e cercando in tutti i modi di suscitare l’interesse di un uditorio difficile come quello di ragazzi nel pieno dell’età dello sviluppo, con le loro naturali turbolenze, le loro inevitabili distrazioni e i loro comprensibili sbalzi d’umore.

Credo di avere consapevolezza della importanza della professione che svolgo; “consapevolezza”, questa, che non va confusa con la pericolosa e sbagliata presunzione. Ai miei studenti offro competenza – oltre al massimo dello sforzo – ma non concedo “sempre” compiacimento, tantomeno la spalla su cui piangere, non mi comporto con loro da “migliore amico”, questo mai. Posso essere con loro disponibile, cordiale nei loro confronti, a seconda del grado di restituzione di disponibilità e cordialità che ricevo (tutta una questione di “do ut des”). Posso sdrammatizzare con loro per allentare la tensione (perché in fondo nella vita non è salutare prendersi sempre sul serio e a volte occorre dimostrare autoironia), ma non chiedetemi di confondere i ruoli che devono essere chiari vuoi a me, loro “professore”, vuoi a loro, miei “studenti”.

Se devo essere onesto trovo fastidiosi quei genitori post-sessantottini che si comportano coi loro figli da “migliori amici”. Un genitore non potrà mai essere il “migliore amico” del proprio figlio, occorre chiarezza dei ruoli: i figli devono fare “i figli” e i genitori devono fare “i genitori”. Ovvero? I figli dare preoccupazioni ai genitori e questi ultimi dare l’esempio ai primi. Ecco, i nostri ragazzi – lo dico da genitore prima che professore – hanno bisogno di esempi possibilmente “buoni”. Il problema è che il “buon esempio” sta diventando sempre più merce rara. E pensare che un solo “buon esempio” di un professore a uno studente, oppure di un genitore a un figlio, vale più di mille professori o genitori cosiddetti “migliori amici”.

In conclusione, venire incontro alle esigenze degli studenti entro certi “ragionevoli” limiti credo sia sacrosanto, essere però troppo accomodante nei loro riguardi non credo faccia il loro bene. E, siccome voglio fare del mio meglio per aiutarli a diventare ogni giorno studenti e persone più capaci, m’impegno a non cadere nel tranello della condiscendenza.