La filosofia ti apre gli occhi

A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi.

Certi professori ti cambiano la vita, è proprio vero. A me è successo in età liceale, in terza liceo, quando conobbi la mia professoressa di filosofia. Fu la prima a credere in me. Fino a quel momento ero stato uno studente discontinuo, con una predilezione per le materie umanistiche. In italiano me l’ero sempre cavata, leggevo un po’ di tutto e i miei temi erano famosi tra i miei compagni. Perché? Uno stile pungente e uno spiccato spirito critico mi guadagnarono non solo consensi, ma anche attriti con i miei compagni e alcuni docenti.

La scintilla scoccò quando incontrai sul mio cammino la filosofia, una materia tanto misteriosa, all’inizio, quanto stimolante man mano che la conoscevo meglio. Cominciarono le prime verifiche, i primi risultati eccellenti e, dopo essere stato per anni un buon tennista, m’interessai sempre meno al tennis e sempre più al “so di non sapere” di Socrate, al mondo delle idee di Platone, all’atarassia di Epicuro… da quel momento in poi non fu più possibile per me vivere senza filosofia.  

Come conoscenze appresi le principali teorie professate dai filosofi nel corso dei secoli. Imparai che non potrebbe darsi alcuna filosofia senza il dubbio; un dubbio metodico, strategico oserei dire, che impone la hegeliana “fatica del concetto”, il lavorio incessante della mente che non si accontenta di quel poco che sa ma che, vorace, vuole sapere sempre di più; peculiarità della filosofia è appunto questa sua curiosità innata. Il filosofo proprio perché ammette socraticamente di “non sapere” è portato a interessarsi a tutto, non si pasce mai delle proprie limitate conoscenze, bensì è in perenne ricerca della verità. Una verità che in filosofia non è mai definitiva ma in continua evoluzione, come ci insegna Socrate; una verità che per i nostri deficit strutturali – in quanto umani – non possiamo comprendere del tutto, ma che ci comprende perché – appunto – più grande di noi.  

La filosofia mi ha permesso di dare sostanza al mio stile, una sostanza filosofica che mi ha fatto capire che quando scrivevo o parlavo più che agli aggettivi dovevo badare agli argomenti che avevo da dire. Ora come ora, non posso non reputarmi fortunato essendo riuscito a coronare il mio sogno di ragazzo: fare un lavoro che mi permettesse di parlare e scrivere. I miei discorsi, i miei libri non avrebbero avuto ragione d’essere senza il felice incontro con la filosofia, che ha stimolato la mia vena argomentativa e critica. Grazie alla filosofia ho capito che non c’è niente di meglio che pensare con la propria testa, credere nelle proprie idee ed escogitare il modo più efficace per comunicarle.  A quelli che mi chiedono a cosa serve la filosofia, mi sento di rispondere: la filosofia ti apre gli occhi. Perlomeno, a me li ha aperti, per questo non finirò mai di ringraziarla.

Machiavelli al tempo del coronavirus

Nel caso di una pandemia mondiale né l’esempio storico di Kutuzov e nemmeno quello di Quinto Fabio Massimo porterebbero a risultati apprezzabili: temporeggiare sarebbe il peggiore dei mali possibili. E allora qual è l’atteggiamento più consono, più machiavellico per risolvere problemi reali e non astratti, che è ciò che esattamente si prefigge un politico? In altri termini, come affrontare da discepoli realisti di Machiavelli il gravoso momento presente condizionato dal dilagare del coronavirus?

Per comprendere appieno il controverso autore de “Il principe”, ritengo più plausibile adottare una linea interpretativa che distingua tra l’uomo Machiavelli, da una parte, e il filosofo Machiavelli, dall’altra. L’uomo Machiavelli è stato tutto fuorché l’accezione che, nel corso dei secoli, è stata assegnata all’aggettivo “machiavellico”, vale a dire: malvagio, doppiogiochista, cospiratore, intrigante, insomma, capace di qualunque scelleratezza pur di tenere saldamente il potere o accrescerlo. Infatti, andando a guardare la sua biografia, non si trovano conferme che avesse simili tratti caratteriali. Il filosofo Machiavelli, invece, è stato il massimo teorizzatore del realismo politico, ovvero di un certo modo di pensare e fare politica: il modo di chi crede che, a volte, per ottenere un bene più grande occorra scendere a compromessi con la propria coscienza.

A discolpa di Machiavelli, va detto che l’idealismo morale e politico, di stampo kantiano, alla lunga potrebbe essere più nocivo del realismo machiavellico. Agire secondo la propria massima morale, darsi un imperativo categorico e non muoversi di un millimetro dalle proprie posizioni è un atteggiamento tanto nobile quanto estremistico. Perché?

Si prenda il problema del carrello ferroviario ideato dalla filosofa Philippa Ruth Foot nel 1967. Si tratta di un esperimento mentale molto noto. Il carrello sta per trucidare cinque persone intrappolate su un binario. Un uomo assiste alla scena e, decidendo di abbassare la leva dello scambio, potrebbe fare in modo che il carrello devi su un altro binario dove però è incastrata una persona che in tal caso morirebbe, a seconda delle versioni: un operaio o una bambina. Che fare in una situazione del genere? Meglio tirare la leva del treno e lasciare che muoia una persona, o non fare niente ottenendo come risultato la morte di cinque persone? Se si è kantiani fino al midollo e ci si è ripromessi di salvaguardare la vita propria e altrui in ogni circostanza, non si muoverebbe un dito e si permetterebbe che avvenga un danno maggiore, perché in nessun caso si ammetterebbe l’ipotesi di concedere un male minore. Se si decidesse d’intervenire, d’altra parte, si contravverrebbe alla massima morale kantiana di agire in maniera tale da non nuocere ad anima viva e con ciò si tradirebbe anche l’imperativo categorico “non uccidere”. Ancora oggi i filosofi si arrabattano nel provare a risolvere questo dilemma etico che – per definizione – appare ed è irrisolvibile. Sarebbe facile se rimanesse soltanto una questione teorica, ma così non può essere per un medico – per esempio –  che in particolari circostanze – purtroppo attuali – deve decidere quale vita salvare, o per chi ha un ruolo politico ed è chiamato a prendere delle decisioni riguardanti la collettività, ad agire “hic et nunc”. Non è più teoria, bensì routine.

In politica non fare niente è già fare qualcosa, significa temporeggiare. A volte questo produce successi incredibili. Si pensi al generale Kutuzov, artefice con la sua tattica attendista della disfatta dell’esercito napoleonico durante la campagna di Russia, oppure a Quinto Fabio Massimo, che tenne lontano da Roma il condottiero cartaginese Annibale impegnandolo in battaglie diversive in giro per la penisola. Altre volte però temporeggiare è la peggiore delle opzioni, perché non fare niente porterebbe a danni irreparabili, mentre intervenire con tempestività e decisione, anche con misure antipopolari, potrebbe limitarli.

Nel caso di una pandemia mondiale, né l’esempio storico di Kutuzov e nemmeno quello di Quinto Fabio Massimo porterebbero a risultati apprezzabili: temporeggiare sarebbe il peggiore dei mali possibili. E allora qual è l’atteggiamento più consono, più machiavellico per risolvere problemi reali e non astratti, che è ciò che esattamente si prefigge un politico? In altri termini, come affrontare da discepoli realisti di Machiavelli il gravoso momento presente condizionato dal dilagare del coronavirus?

Come il signor Wolf di “Pulp Fiction”, un realista machiavellico “risolve problemi” e sa bene che, per ogni situazione, c’è una soluzione diversa. Un conto è filosofeggiare a vuoto, un conto è farlo per decidere. Machiavelli promuove una filosofia politica finalizzata a prendere decisioni. Per questo “Il principe” si profila come un manuale per decisori, cioè per politici. Kant filosofeggia per altri filosofi come lui, che s’interrogano sull’uomo astratto, ideale, lontano anni luce dall’uomo reale, concreto. Chi la pensa come Kant e ha una posizione estrema sulle questioni morali e politiche, non conosce mezze misure, né quello spirito di adattamento necessario per prendere decisioni giuste, anche – e soprattutto – nei momenti più difficili.

Mi dispiace dirlo, ma l’idealismo kantiano incoraggia un atteggiamento estremistico, per quanto nobile e lodevole in teoria, che – alla prova dei fatti – potrebbe risultare più dannoso dello spietato realismo machiavellico.

Gli estremismi, persino se buoni nelle intenzioni – com’è il caso dell’estremismo morale kantiano – sono nocivi perché creano disequilibri, che sono la condizione all’origine dei conflitti si sa quando cominciano, ma non quando finiscono. Il pensiero di Machiavelli è figlio della politica dell’equilibrio sancita dalla pace di Lodi del 1454. In essa si riconosceva la sostanziale incapacità di ciascuno degli Stati italiani del Quattrocento di prevalere in maniera netta e incontestabile sugli altri. Da ciò è derivata una politica di sostanziale equilibro, di compromesso insomma. In uno scenario del genere ogni idealismo si sarebbe rivelato nella migliore delle ipotesi inconcludente, nella peggiore disastroso.

In generale, è convinzione dei realisti di oggi che l’idealismo sia stato un ideale politico storicamente fallimentare in ogni epoca. Ciò perché gli uomini nobili sono un’eccezione che conferma una regola: la maggior parte degli uomini è buona o cattiva a seconda delle convenienze del momento, perlopiù però è cattiva. Capire questa spiacevole verità è la chiave per stabilire quei principi utili per governare altri esseri umani. Dopo averli capiti e stabiliti c’è però un ulteriore passaggio da compiere: avere la forza del leone e la scaltrezza della volpe per attuarli.

Pensare con la propria testa

Quindi, in definitiva, che senso ha studiare filosofia? Ne ha molto. Direi che, dal momento che “vivere bene” dovrebbe interessare tutti, allo stesso modo la filosofia “dovrebbe” interessare tutti. Vero è però che non è per tutti, perché non tutti sono disposti a compiere lo sforzo – perché tale è – di pensare con la loro testa e si accontentano che altri pensino per loro.

Una studentessa una volta mi ha chiesto: “Prof, qual è il suo filosofo preferito?”. Con il rischio di venire frainteso, ho risposto con estrema sincerità, in coscienza, senza ipocrisie: “Me stesso!”. Ora, di difetti ne ho tanti, ma essere presuntuoso… non è fra questi. Anche se tutti i presuntuosi dicono di non esserlo, ragion per cui non mi sento di biasimare coloro che decideranno di non credermi. A ogni modo, ci si creda oppure no, perché ho voluto dare una risposta così volutamente provocatoria?
Tutti dicono di essere platonici, aristotelici, hegeliani, marxisti. Io invece posso solo dirvi che mi ispiro a tutti e a nessuno. Nel senso che adoro il mondo delle idee di Platone, ma non sopporto il suo essere monarchico. Sul piano politico sono più vicino al democratico Aristotele, di cui però non tollero la mentalità schematica, come se si potesse dare conto dell’illogicità della vita in un schemino logico preconfezionato. Sono con Hegel quando mi serve su un piatto d’argento la dialettica servo-padrone, contro di lui quando però dimostra di non avere il coraggio necessario a trarre le conseguenze del suo pensiero e rinuncia a rovesciare uno status quo iniquo solo per non contraddire il suo assioma fondamentale: il reale è razionale e viceversa. Il reale, se fa schifo, non è razionale. E un uomo che si spaccia per razionale non può starsene con le mani in mano e ha il dovere morale-intellettuale di reagire a una deprecabile situazione di stasi, allorché la ritenga effettivamente “deprecabile.
Che dire poi del portentoso lottatore Marx, che, a differenza del suo maestro Hegel, vuole eccome trasformare un ingiusto status quo” in qualcosa di meglio, preconizzando il riscatto degli oppressi a discapito degli oppressori. Sono con lui nel simpatizzare con gli ultimi della Terra, ma credo che come tutte le utopie la sua pecchi di non fare i debiti conti con la natura irrimediabilmente conservatrice ed egoista dell’essere umano. In fondo Hobbes non aveva tutti i torti nel definire l’uomo lupo per l’altro uomo, il celebre “homo homini lupus”…
Il discorso potrebbe continuare con decine di altri filosofi presi a prestito dalla storia di questa strana disciplina – più un’arte che una scienza secondo me – che è la filosofia. Il senso però mi sembra chiaro, anche se lo specifico tante le volte non lo fosse: ognuno deve diventare il miglior filosofo di se stesso, il che significa che deve prendere ciò che ritiene buono del pensiero degli altri e buttare a mare quello che degli altri pensatori ritiene buono solo per i pesci. Solo così si può continuare a fare una filosofia “forte” in barba a chi la vorrebbe “debole”.
A ben pensarci, non credo che esistano filosofie deboli, tutt’al più filosofi deboli. In filosofia tutto è stato detto, ma può e deve essere ridetto… meglio! Non mi stancherò mai di ripetere ai miei studenti che: filosofare – cioè pensare – è essenzialmente ripensare. Tutto ciò che stiamo pensando noi in questo momento è stato pensato anche da altri, che sono venuti prima di noi. In un certo senso, tutti i temi essenziali della filosofia sono stati abbozzati da Platone. A noi non resta che portare avanti il testimone, come si fa in una staffetta. Immaginatevi l’intera storia della filosofia come una corsa a staffetta dove ciascuno di noi può fare soltanto un tragitto relativamente breve e poi deve passare il testimone ad altri, che dovranno fare il loro per poi consegnarlo a loro volta e così via finché ci saranno persone disposte non solo a vivere e basta, ma anche a pensare “come” poter vivere meglio. E “come” si può farlo ce lo dice Platone riportando gli insegnamenti del suo maestro, Socrate, che aveva giurato fedeltà a un solo imperativo: conosci te stesso! Perché solo chi si conosce, sa cosa è meglio per sé e trova il modo di vivere bene. Il problema – non da poco – rimane imparare a conoscersi. Molti sono morti prima di essere riusciti a conoscere, che so, il dieci per cento di loro stessi. Forse è addirittura impossibile conoscersi fino in fondo. Conoscersi meglio però si può e si deve. Conoscere gli altri, invece, non voglio dire che sia impossibile, ma ci vorrebbe il miglior Tom Cruise del primo “Mission Impossible” e non quello più spento visto nei troppi sequel per tentare l’ardimentosa impresa.
Quindi, in definitiva, che senso ha studiare filosofia? Ne ha molto. Direi che, dal momento che “vivere bene” dovrebbe interessare tutti, allo stesso modo la filosofia “dovrebbe” interessare tutti. Vero è però che non è per tutti, perché non tutti sono disposti a compiere lo sforzo – perché tale è – di pensare con la loro testa e si accontentano che altri pensino per loro. Altro che empietà e corruzione delle giovani menti, Socrate è stato condannato dai Trenta Tiranni di Atene perché insegnava alla gente a pensare con la loro testa. E se ci pensate, non c’è cosa più pericolosa di questa per i tiranni, che, per controllarci meglio, vorrebbero che noi pensassimo come loro vogliono, non come vogliamo noi.

Filosofia per molti e non per tutti

Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.

Di questi tempi, tutti corriamo come dei matti, siamo sempre e di più trafelati, oberati da mille impegni che ci sobbarchiamo come illudendoci – non so – di essere immortali. Già, perché va bene dimenticarci come meccanismo di autodifesa la nostra dimensione mortale – a volte meglio non pensarci per godere appieno della nostra vita al presente –, però non dobbiamo nemmeno essere troppo schizofrenici, cioè a dire: perdere contatto con la realtà di ciò che siamo, creature che fingono soltanto di non sapere ciò che aspetta loro, che eternizzano il loro presente e lo vivono come se non fosse quello stillicidio di anni, mesi, giorni, ore, minuti, secondi che è in effetti. Appunto, considerando la meta, meglio capire come godersi il viaggio. Questo è ciò di cui si preoccupano i filosofi. Per voler essere dei guastafeste, si potrebbe senz’altro ribattere che c’è chi muore e non l’ha ancora capito. E con questo? “Capire” vale il prezzo del biglietto, anche se questo può voler dire soffrire proprio perché si è meglio compresa l’essenza di questa nostra vita: la sofferenza.
Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.
Credo si debba riscoprire una dimensione agonica del vivere, che vorrà pure dire soffrire e, per chi vuole vivere filosoficamente, capire questa sofferenza. Non è un caso se Edipo si acceca dopo avere appreso di avere ammazzato suo padre e avere generato figli con sua madre. Sapere questo, capirlo – “capire” è lo step successivo del “conoscere” – farebbe impazzire il migliore degli uomini, figuriamoci un assassino incestuoso. Comunque, meglio non accecarsi perché gli occhi vanno tenuti bene aperti e ci servono per vedere bene, con chiarezza, ci aiutano a capire. La visione, la vista è un coadiuvante della comprensione, la dilata, la fortifica. Perciò non mi resta che raccomandarvi di tenere gli occhi spalancati e augurarvi buon viaggio, con o senza filosofia, con o senza consapevolezza, a voi la scelta.
Costringere ad amare la filosofia è l’ultimo obiettivo che mi pongo. Non la penso come Epicuro e nemmeno come Nietzsche, la penso come me stesso e dico che la filosofia no, non è per tutti, ma per molti sì. Per quelli che non si accontentano a vivere e basta, ma vogliono vivere meglio, con più qualità, facendosi delle domande per darsi risposte funzionali, cioè che funzionino per sé. Il filosofo si pone domande “materiali”: cosa mangiare a pranzo o a cena, che film o serie televisiva vedere, che marca di crema solare comprare, che tragitto percorrere per andare al lavoro, eccetera. Come pure domande “spirituali”: chi siamo, da dove veniamo, che ci stiamo a fare qui sulla Terra, c’è vita solo “qui sulla Terra” o anche altrove, che cos’è la vita, perché c’è il tutto anziché il nulla e così via.
A costo di esagerare, la sparo grossa: forse persino Socrate si sbagliava a ritenere indegna una vita senza ricerca filosofica. Si può vivere “senza” filosofia (senza consapevolezza), ne sono convinto. È solo che, come Socrate, anche a me convince di più una vita “con” filosofia (con consapevolezza). Questo vuol dire che i filosofi sono maniaci del controllo? Non lo so, forse. O forse l’unico controllo che s’illudono o sanno di avere – chi può dirlo – è la consapevolezza di non poter controllare tutto e che a volte la corrente non si combatte, si asseconda se non si vuole affogare, come sa bene il nuotatore esperto. Oltretutto, ora che ci penso, non saprei in che altro modo vivere se non applicando, in ogni cosa che faccio, la mia filosofia di vita. In definitiva, la filosofia per me è tutto, ma questo “tutto” non lo è per tutti.

La filosofia ci rende liberi

Anche se qualcuno ci imprigiona mettendoci delle catene di ferro ai piedi o delle manette ai polsi, ma noi siamo liberi qui, nella mente, allora continueremo a esserlo anche se carcerati.

Io sono un filosofo e anche voi lo siete, solo che finora può essere che nessuno ve lo abbia mai detto. Perché dico questo? Facile, dal momento in cui siamo tutti vivi e più o meno vegeti ognuno di noi ha – che lo voglia o meno – una propria filosofia di vita, che coincide con un proprio modo di stare al mondo e vedere le cose. Tutto questo io lo chiamo “filosofia”. Confrontarsi con il pensiero dei più grandi filosofi di tutti i tempi è di fondamentale importanza per sviluppare il proprio punto di vista, il proprio angolo visuale sulle cose. Alcune di queste grandi menti potranno piacervi, altre le odierete, ma se c’è una cosa di cui sono ragionevolmente sicuro è  che nessun filosofo vi rimarrà del tutto indifferente. Ecco, una cosa importante che può insegnarvi la filosofia: è prendere posizione, lottare contro l’indifferenza dilagante nel mondo, dire la vostra imparando a pensare con la vostra testa che, a conti fatti, è l’essenza stessa della libertà perché nessuno è più libero di chi pensa con la propria testa e dice – con sensatezza – ciò che pensa.
La differenza fra le catene fisiche che ci tengono imprigionati e quelle mentali è che le seconde sono molto più insidiose, ci intrappolano con mille legacci e ci impediscono di vivere una vita pienamente consapevole. La consapevolezza è il succo della filosofia. (A tal proposito, rimando alla storiella zen del mandarino, che, in estrema sintesi, si può mangiare in due modi: senza consapevolezza e con consapevolezza, il primo modo implica un ingurgitare senza senso, mentre il secondo e più efficace modo significa assaporare coinvolgendo tutti e cinque i sensi.) Anche se qualcuno ci imprigiona mettendoci delle catene di ferro ai piedi o delle manette ai polsi, ma noi siamo liberi qui, nella mente, allora continueremo a esserlo anche se carcerati. Vero è che se si riesce a essere liberi di mente e non al “gabbio” sarebbe decisamente più confortevole per tutti quanti 🙂 In definitiva: a che serve la filosofia? A renderci liberi (e non è poco).