Il problema della “volontà di potenza”

[…] ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche.

Diventare ciò che si è” significa nietzscheanamente realizzare la propria “volontà di potenza”, oltrepassare il ponte che dall’uomo proietta al Superuomo, ovvero divenendo a tutti gli effetti: il dio di se stesso. E se ognuno è il proprio dio, non c’è bisogno del Dio nei cieli e per ogni uomo c’è una morale propria che gli si addice. Per questo Nietzsche apre la breccia al relativismo dei valori della nostra epoca, da alcuni ritenuto una liberazione, gli anticristiani che vedono nietzscheanamente nel cristianesimo l’origine di tutti i mali dell’uomo, e da altri invece un’aberrazione, i cristiani o coloro che sono idealmente vicini alle istanze cristiane. A chi vada la ragione è da vedere, anche se, abbracciando una visione relativistica dell’esistenza, si potrebbe dire che la ragione vada sia agli uni sia agli altri, in quanto con alcuni funziona di più una certa visione del mondo, mentre con altri un’altra, è relativo appunto, dipende dal singolo. Motivo per cui ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche. Badate bene, non voglio dire che lo abbia snaturato. Di certo qualcosa della filosofia nietzscheana è compatibile con la perversione nazista (soprattutto per quanto concerne il concetto di “volonta di potenza” mi vien da dire), però credo ci sia fra le righe una parte del pensiero nietzscheano che si possa e si debba salvare. A cosa mi riferisco? Alla valenza che esso ha per il singolo individuo, lo stimolo vitalistico che le parole di Nietzsche riescono a infondere nel lettore non del tutto sprovveduto, ovvero quello capace di farsi ispirare dal genio “sano” e perdonare il folle “malato”. Sanità e malattia sono infatti due categorie imprescindibili che si devono tenere in debito conto se si vuole meglio comprendere, cioè abbracciare, la complessità nietzscheana.
In ultima analisi, ciò che dico è molto semplice: c’è un Nietzsche “sano” che credo vada tutelato come patrimonio dell’umanità e un Nietzsche “malsano” che ritengo vada compatito. Perché? Non so voi, ma io ho un rispetto enorme per le persone che soffrono sia a livello fisico sia psichico e Nietzsche credo si possa ragionevolmente dire che abbia sofferto abbastanza nella sua vita. Ragion per cui se in alcune delle sue pagine a prevalere è più il livore della genialità, da uomo a uomo, non mi sento – in tutta franchezza – di fargliene una colpa.

Nietzsche e il dio di se stesso

In ultima istanza, la curiosità di Eva è propria di chi mira a farsi dio, il dio di se stesso e con ciò tradisce il patto di obbedienza stipulato con il proprio Creatore.

In materia religiosa ne “L’anticristoNietzsche elogia il “codice di Manu” come a significare, che in altre religioni, diversamente da quella cristiana, la figura della donna non è poi vista come causa di tutti i problemi, bensì viene addirittura idealizzata fino a essere identificata come portatrice del valore più sacro di tutti: quello di dare la vita. Infatti secondo questo codice, ma anche secondo una certa non trascurabile letteratura gnostica (la gnosi è la più antica eresia cristiana), la donna simboleggia la fusione con la spiritualità divina (la Pistis Sophia). Mentre l’uomo sarebbe invece legato alla dimensione carnale, dunque terrena.
A riprova di tutto ciò vi è il peccato originale commesso da Eva; peccato che simboleggia l’insaziabile sete di conoscenza propria della donna ma anche dell’uomo (se ci rifacciamo alla visione del libro della “Genesi”, la donna è stata tratta dall’uomo in quanto ne è una costola). La spinta conoscitiva di Eva, che vuole conoscere i segreti del bene e del male, sta a significare la tensione connaturata alla creatura umana che vuole oltrepassare i confini della propria limitata umanità, “umana troppo umana” direbbe Nietzsche. In ultima istanza, la curiosità di Eva è propria di chi mira a farsi dio, il dio di se stesso e con ciò tradisce il patto di obbedienza stipulato con il proprio Creatore.

Il sapiente Nietzsche

Che dire poi del rapporto di Nietzsche con il vicino Oriente, se non che il suo pensiero ha più cose in comune con lo spirito sapienziale degli orientali piuttosto che con lo spirito fin troppo razionale degli occidentali.

Fra i pensatori occidentali il maestro indiscusso di Nietzsche fu senz’altro Schopenhauer, con il quale l’autore de “L’anticristo” condivide il concetto di volontà. Soltanto che se per l’allievo Nietzsche questa è una forza positiva (si veda la sua volontà di potenza), per il maestro Schopenhauer la volontà è una forza fondamentalmente negativa, che ci rende più schiavi che liberi.
Una certa parentela Nietzsche ce l’ha pure con un filosofo dell’antichità: Eraclito, la cui filosofia del divenire è riassumibile con l’adagio “panta rei”, ovvero “tutto scorre”.
Più problematico è il rapporto con i tre grandi e illustri mostri sacri della filosofia antica: Socrate, Platone e Aristotele, direi soprattutto con quest’ultimo di cui non sopporta l’opprimente “principio di non contraddizione”, che mal si concilia con la visione nietzscheana della vita come contraddizione inevitabile e incessante.
Che dire poi del rapporto di Nietzsche con il vicino Oriente, se non che il suo pensiero ha più cose in comune con lo spirito sapienziale degli orientali piuttosto che con lo spirito fin troppo razionale degli occidentali.
Tra sapienza e ragione Nietzsche sceglie la prima a occhi chiusi, sin dal suo esordio nella filosofia che conta con il saggio “La nascita della tragedia”; esordio nel quale si scaglia con veemenza contro lo spirito razionale-socratico-apollineo uccisore dell’essenza migliore irrazionale-tragica-dionisiaca della cultura greca antica.
Oltretutto la sua vicinanza di pensiero con gli orientali è facilmente riscontrabile anche nella scelta, tutt’altro che casuale, di rendere il profeta indoiranico Zoroastro: l’eroe del suo capolavoro sia poetico sia filosofico “Also sprach Zarathustra”.

Nietzsche, filosofo o moralista?

[…] Nietzsche più che un filosofo è da ritenere un moralista, ovviamente non nel senso di uno che vuol farci la morale, anche perché la morale nietzscheana è nientemeno che un “sì” incondizionato alla vita, laddove il cristianesimo dice “no” a tutto ciò che è invece esaltazione del vivere […]

Di Nietzsche tutto si può dire tranne che sia stato un nichilista, semmai un umanista non del tutto compreso. Seppure di sicuro è stato un grande studioso del nichilismo, ma solo perché così ebbe almeno modo di riscontrare le crepe dei vecchi valori, fin troppo condizionati dal cristianesimo.
L’intento della sua filosofia era quello di distruggere il vecchio mondo morale per costruirne uno nuovo, da zero (“ex nihilo” cioè “dal nulla”), migliore e per i migliori. Motivo per cui secondo alcuni studiosi – Sossio Giametta in primis, grande traduttore e conoscitore del pensiero nietzscheano – Nietzsche più che un filosofo è da ritenere un moralista, ovviamente non nel senso di uno che vuol farci la morale, anche perché la morale nietzscheana è nientemeno che un “sì” incondizionato alla vita, laddove il cristianesimo dice “no” a tutto ciò che è invece esaltazione del vivere. Si veda la stigmatizzazione cristiana della vita sessuale, che per il dionisiaco Nietzsche è inammissibile essendo – per esempio – il sesso quanto di meglio la vita possa offrirci, o comunque fra quelle attività da considerare più vitalistiche.
La massima teorizzazione nietzscheana, vale a dire la volontà di potenza, cos’è se non un’orgogliosa e vibrante affermazione della vita e, di conseguenza, lotta senza quartiere e senza requie contro tutto ciò che vuole negarla o, a ogni modo, sminuirla. Definendo “peccato” il sesso al di fuori dello stretto recinto matrimoniale, il cristianesimo nega e sminuisce la vita stessa. D’altronde cos’è il sesso se non la massima espressione della potenza vitale anche nietzscheanamente concepita, poiché il sesso è vita e può produrre altra vita, se è quella la volontà di chi lo pratica. Quindi se un atto così bello e piacevole come il sesso incrementa la vita, perché contrastarlo alla maniera del cristianesimo paolino?

“L’anticristo” ovvero “L’antipaolo” di Nietzsche

L’obiettivo polemico de “L’anticristo” nietzscheano non è Cristo – per cui Nietzsche usa anzi parole lusinghiere – ma Paolo di Tarso, considerato sia il fondatore della teologia cristiana – il cui caposaldo è la resurrezione dei corpi gloriosi, inedita rispetto alla resurrezione dell’anima che invece non era una novità per il mondo greco – sia il mistificatore del messaggio del Nazzareno.

Secondo Nietzsche il cristianesimo è il capro espiatorio: la causa prima, nonché ultima, di tutti i mali dell’umanità.
Come attacco di discorso può sembrare tranciante, ma tant’è se andiamo a vedere le pagine del capolavoro nietzscheano intitolato “Der Antichrist”.
L’obiettivo polemico de “L’anticristo” nietzscheano non è Cristo – per cui Nietzsche usa anzi parole lusinghiere – ma Paolo di Tarso, considerato sia il fondatore della teologia cristiana – il cui caposaldo è la resurrezione dei corpi gloriosi, inedita rispetto alla resurrezione dell’anima che invece non era una novità per il mondo greco – sia il mistificatore del messaggio del Nazzareno.
La teologia paolina ripresa anche polemicamente dal film “L’ultima tentazione di Cristo” di Scorsese – tratto a sua volta dal romanzo di Kazantzakis – segna pertanto l’inizio di un mondo sopramondano, o perlomeno di una distinzione tra un mondo – quello in cui viviamo – inferiore, peggiore, a cui se ne oppone un altro superiore, migliore.
La teoria dei due mondi, filosoficamente parlando, non è estranea al platonismo, che riconosce un mondo perfetto delle idee o Iperuranio e un mondo sbiadito delle copie tutt’altro che perfette. Perciò non è un caso se il platonismo viene creduto dai primissimi Padri della Chiesa come il cammino di preparazione al cristianesimo.
A proposito del sopramondo prospettato dalla teologia cristiana ergo paolina, è come se Nietzsche rinfacciasse all’ex persecutore di cristiani Paolo – convertito alla causa della fede solo dopo la folgorazione sulla via di Damasco – di voler truccare le carte già in partenza, giocando al perenne rinvio delle promesse cristiane – la più efficace di tutte è il trionfo sulla morte – a un fantomatico aldilà da cui nessuno – a parte Cristo – è tornato per riferire.
Il cristianesimo ha dalla sua l’eternità, ma l’uomo dispone solo di un periodo limitato nel quale può affermare nietzscheanamente la propria volontà e può diventare ciò che è, il traguardo quasi irraggiungibile prospettato da Nietzsche.
Il cristianesimo come religione degli ultimi, inoltre, non può che sembrare un affronto insostenibile a chi come Nietzsche ha sempre creduto fermamente nell’ideale greco dell’eccellenza, per cui è sacrosanto che i migliori prevalgano sugli ultimi. Il cristianesimo ha per giunta l’aggravante di essere la religione dei deboli, di chi non ha il coraggio di ergersi al di sopra degli altri per affermare la propria potenza e dimostrare così anche la propria eccellenza. Quella cristiana è dunque una morale da “eunuchi”. Una morale che ha saputo produrre valori fasulli, per questo vi è la necessità di trasmutare questi valori, andare al di là del bene e del male, o meglio di quello che la religione cristiana ha creduto essere “bene” e “male”. La trasmutazione dei valori nietzscheana dovrà portare all’avvento dello Übermensch, sia che lo si traduca come Superuomo o – alla maniera di Gianni Vattimo – come Oltreuomo.
Dire che “Dio è morto” – affermazione contenuta nell’opera nietzscheana intitolata “La gaia scienza” – per Nietzsche equivale a dire che i vecchi valori sono defunti. Motivo per cui i tempi sono maturi per l’avvento del Superuomo, che altro non è se non il dio di se stesso.

Filosofia per molti e non per tutti

Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.

Di questi tempi, tutti corriamo come dei matti, siamo sempre e di più trafelati, oberati da mille impegni che ci sobbarchiamo come illudendoci – non so – di essere immortali. Già, perché va bene dimenticarci come meccanismo di autodifesa la nostra dimensione mortale – a volte meglio non pensarci per godere appieno della nostra vita al presente –, però non dobbiamo nemmeno essere troppo schizofrenici, cioè a dire: perdere contatto con la realtà di ciò che siamo, creature che fingono soltanto di non sapere ciò che aspetta loro, che eternizzano il loro presente e lo vivono come se non fosse quello stillicidio di anni, mesi, giorni, ore, minuti, secondi che è in effetti. Appunto, considerando la meta, meglio capire come godersi il viaggio. Questo è ciò di cui si preoccupano i filosofi. Per voler essere dei guastafeste, si potrebbe senz’altro ribattere che c’è chi muore e non l’ha ancora capito. E con questo? “Capire” vale il prezzo del biglietto, anche se questo può voler dire soffrire proprio perché si è meglio compresa l’essenza di questa nostra vita: la sofferenza.
Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.
Credo si debba riscoprire una dimensione agonica del vivere, che vorrà pure dire soffrire e, per chi vuole vivere filosoficamente, capire questa sofferenza. Non è un caso se Edipo si acceca dopo avere appreso di avere ammazzato suo padre e avere generato figli con sua madre. Sapere questo, capirlo – “capire” è lo step successivo del “conoscere” – farebbe impazzire il migliore degli uomini, figuriamoci un assassino incestuoso. Comunque, meglio non accecarsi perché gli occhi vanno tenuti bene aperti e ci servono per vedere bene, con chiarezza, ci aiutano a capire. La visione, la vista è un coadiuvante della comprensione, la dilata, la fortifica. Perciò non mi resta che raccomandarvi di tenere gli occhi spalancati e augurarvi buon viaggio, con o senza filosofia, con o senza consapevolezza, a voi la scelta.
Costringere ad amare la filosofia è l’ultimo obiettivo che mi pongo. Non la penso come Epicuro e nemmeno come Nietzsche, la penso come me stesso e dico che la filosofia no, non è per tutti, ma per molti sì. Per quelli che non si accontentano a vivere e basta, ma vogliono vivere meglio, con più qualità, facendosi delle domande per darsi risposte funzionali, cioè che funzionino per sé. Il filosofo si pone domande “materiali”: cosa mangiare a pranzo o a cena, che film o serie televisiva vedere, che marca di crema solare comprare, che tragitto percorrere per andare al lavoro, eccetera. Come pure domande “spirituali”: chi siamo, da dove veniamo, che ci stiamo a fare qui sulla Terra, c’è vita solo “qui sulla Terra” o anche altrove, che cos’è la vita, perché c’è il tutto anziché il nulla e così via.
A costo di esagerare, la sparo grossa: forse persino Socrate si sbagliava a ritenere indegna una vita senza ricerca filosofica. Si può vivere “senza” filosofia (senza consapevolezza), ne sono convinto. È solo che, come Socrate, anche a me convince di più una vita “con” filosofia (con consapevolezza). Questo vuol dire che i filosofi sono maniaci del controllo? Non lo so, forse. O forse l’unico controllo che s’illudono o sanno di avere – chi può dirlo – è la consapevolezza di non poter controllare tutto e che a volte la corrente non si combatte, si asseconda se non si vuole affogare, come sa bene il nuotatore esperto. Oltretutto, ora che ci penso, non saprei in che altro modo vivere se non applicando, in ogni cosa che faccio, la mia filosofia di vita. In definitiva, la filosofia per me è tutto, ma questo “tutto” non lo è per tutti.

Contro la morale idealistica kantiana

Bestia irriconoscibile questo “buon senso”, tutti ne parlano e per tutti è relativo. C’è un buon senso per ogni individuo e, per di più, non ce ne è uno per ognuno che valga per tutte le stagioni, di solito cambia a seconda della convenienza del momento. Io posso parlare di cosa significa per me avere “buon senso” qui e ora, che, nel mio piccolo, cerco di possedere e applicare, ma faccio fatica a pensarne uno dalla valenza universale, intendendo con ciò: universalmente valido.

Quando sento nominare il cosiddetto “buon senso” metto mano non alla pistola come diceva Goebbels quando sentiva parlare di cultura, ma toccare ferro per fare i debiti scongiuri, be’, quello sì. Perché? Chi stabilisce cos’è “buon senso” e cosa no invece? Bestia indecifrabile questo “buon senso”, tutti ne parlano e per tutti è relativo. C’è un buon senso per ogni individuo e, come se non bastasse, non ce ne è uno che valga per tutte le stagioni (di solito cambia a seconda della convenienza del momento). Io posso parlare di cosa significa per me avere “buon senso” qui e ora, ma faccio fatica a pensarne uno dalla valenza universale, intendendo con ciò: universalmente valido.
Persino applicare sempre il biblico, sacrosanto e condivisibile comandamento “non uccidere”, scritto a caratteri cubitali sulle tavole della Legge che Dio – secondo la tradizione – ha consegnato a Mosè, può risultare tutt’altro che semplice. Come mai? Si dia il caso che qualcuno ci punti una pistola contro ed esploda dei colpi, che riusciamo per miracolo a schivare. Al contempo ci è data un’arma e la possibilità di usarla per difenderci, sparando prima che questo “qualcuno” non ci stenda con una pallottola ben calibrata. Chi, a queste condizioni, rifiuterebbe la legittima difesa, ovvero lottare per avere salva la vita e chi altresì accetterebbe il suo destino di agnellino sacrificale senza colpo ferire? Io non saprei come reagirei (né vorrei mai saperlo), però qualche dubbio credo che mi sfiorerebbe la mente. Del resto anche lo Stato del Vaticano è per la reazione difensiva in caso di attacco armato ai suoi danni, il che è tutto dire.
Qui, quindi, non contesto tanto la bontà del “non uccidere” in sé e per sé, che peraltro fa parte della regola aurea comune a tutte le religioni, quanto l’universale validità della sua applicazione concreta in tutte le possibili e immaginabili situazioni che la vita potrebbe porci davanti. Motivo per cui reputo quantomeno “presuntuoso” propagandare ancora oggi come universalmente validi e comunemente accettabili “imperativi categorici” dal sapore kantiano che, seppure favolosi sul piano teorico, alla prova dei fatti si rivelano – per usare un eufemismo – di “difficile applicazione”. Ancor più dopo il sanguinoso Novecento che ci siamo lasciati alle spalle (non che i secoli precedenti siano stati più pacifici).
Dopo “non uccidere”, si prenda un altro “imperativo categorico” che fa un po’ acqua da tutte le parti: dire sempre la verità. Siamo sicuri che funzioni in ogni circostanza? Si veda il caso – esempio già sdoganato da altri in ambiente anglosassone che reputo efficace – di una ragazza che scappa da un inseguitore munito di coltello che vuol “farle la festa”, nel senso peggiore del termine. La ragazza riesce a far perdere le tracce di sé imboccando uno dei due sentieri nel bosco. Coincidenza vuole che noi brava gente che crede nell’imperativo categorico kantiano di dire sempre la verità veniamo interpellati dal tipo poco raccomandabile che sta inseguendo la fanciulla. Oltretutto abbiamo chiaramente assistito alla scena affacciati alla nostra finestra di casa posta giusto sul limitare del bosco in questione, perciò siamo a conoscenza della pericolosità del tipo. Se siamo kantiani fino in fondo e crediamo in una morale dal respiro universalistico dovremmo dire bene la verità all’inseguitore che ce l’ha magari pure chiesta con modi gentili, ovvero sentiremmo come un dovere civico irrinunciabile quello di dire che la fuggiasca – poco importa che, con tutta probabilità, stia scappando da un pazzo omicida per salvarsi la vita – ha imboccato il sentiero a destra anziché quello a sinistra e pazienza se, dicendo la verità al brutto ceffo, condanneremmo a morte certa o quasi la poveretta.
Chi come me e tutti quelli – sono in buona compagnia – che non credono nella troppo ambiziosa, idealistica morale kantiana si rendono conto che mentire a volte può letteralmente: salvare delle vite. Ragion per cui sostengo e continuerò a sostenere fino allo sfinimento che a volte avere un pensiero troppo coerente – in ambito morale e non solo – è stupido. Bisogna avere il coraggio di essere incoerenti con i propri principi, che, sul piano della vita morale di un uomo, devono essere relativistici e non universalistici. Questo perché il realismo relativistico salva molte più vite dell’idealismo universalistico e a insegnarcelo è la storia che non è vero che non è maestra di niente, è solo che noi siamo cattivi scolari. Un esempio? Prendiamo i capi di Stato vittoriosi al termine del Primo conflitto mondiale. La dottrina morale idealistica del Presidente americano Woodrow Wilson & soci in politica internazionale dopo la Prima è stata la principale – seppure non l’unica – causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale, ancora più sanguinosa e catastrofica della precedente. Perché? Hanno affamato la Germania costringendola a pagare pesanti risarcimenti di guerra e, di conseguenza, reso possibile l’ascesa di Adolf Hitler, con tutto quel che ne è derivato in termini di vite umane irrimediabilmente perdute.

Lo stupido multitasking

La verità è che quando mi concentro su una sola cosa per volta, allora sì – mi rendo conto – la faccio a regola d’arte. Con questo cosa voglio dire? Semplicemente che dovremmo tutti riscoprire – me per primo – il gusto della lentezza, dell’andare più piano, che non sempre significa andare “sani e lontano”, ma spesso sì.

Viviamo in un presente difficile, questo è il destino di ogni generazione; non ce ne è una che non si sia lamentata, più o meno a torto, dello stato di cose ereditato. Tuttavia, non si è troppo piagnucolosi nel constatare che la velocità con cui i cambiamenti, in tutti i settori, si succedono l’uno all’altro sia a dir poco disorientante. L’impressione generale è che si vada sempre più di corsa e, di conseguenza, per stare al passo con i tempi che corrono si vuole fare sempre più cose alla volta. Proprio su quest’ultimo aspetto, i neuroscienziati stanno facendo delle ricerche, i cui esiti sembrano propendere verso l’ipotesi che stiamo diventando tutti – passatemi il termine – un po’ più stupidi.
Lavorare in multitasking è cognitivamente impegnativo, porta a un sovraccarico eccessivo del nostro sistema cerebrale che per questo va in tilt. Le suddette ricerche stanno evidenziando come sia pressoché impossibile fare più cose alla volta – questo significa lavorare in multitasking –, perché sempre e comunque ne faremo una alla volta, che ci piaccia o meno.
Prendiamo il caso di un tizio qualsiasi, me per esempio, visto che una ne faccio e cento ne penso. Alcune volte mi capita di lavorare con quattro o cinque schermi davanti a me: due tablet, uno smartphone e uno, due computer. Bene, quando provo a lavorare in questa maniera mi rendo conto di lavorare male, “a spizzichi e bocconi” per così dire. Faccio un po’ di questo, un po’ di quello, un altro po’ di quell’altro e così via. La verità è che quando mi concentro su una sola cosa per volta, allora sì – mi rendo conto – la faccio a regola d’arte. Con questo cosa voglio dire? Semplicemente che dovremmo tutti riscoprire – me per primo – il gusto della lentezza, dell’andare più piano, che non sempre significa andare “sani e lontano”, ma spesso sì. Per farlo vi consiglio di familiarizzare con la filosofia, che è più innocua di quanto sembrerebbe a una prima occhiata. Questo perché la filosofia oltre a essere l’arte del dubitare, del porre le domande giuste, è anche l’arte del fare le cose con lentezza: del “prenderla come viene” direbbero i dudeisti memori dell’insegnamento di Drugo, protagonista del film “Il grande Lebowski”.
“Prenderla come viene” significa “prenderla con filosofia”, ovvero assegnando la giusta importanza alle cose che ci accadono, prendere la vita per quello che è: la più sensazionale e supersonica delle montagne russe. Non fai in tempo a salire che devi già scendere. Ed è così per tutti. In questo sta la grande democrazia della vita. C’è una poesia di Antonio De Curtis, in arte Totò, intitolata “La livella”, che incarna l’essenza democratica della vita: sia al ricco sia al povero sempre la stessa sorte tocca.
In attesa della resurrezione dei corpi gloriosi, spero e quindi credo. Sperare è credere. E credere, aveva ragione il filosofo-matematico Blaise Pascal, è un po’ come scommettere. Cosa? La più decisiva delle scommesse: che Dio esiste. Nel caso si vincerebbe tutto, vedi alla voce: salvezza eterna. In caso contrario si perderebbe: niente!
In ultima analisi, filosofare vuol dire proprio: prendersi il tempo che serve. Per scegliere bene e finire per fare la cosa giusta.

Filosofia e religione

Filosofia e religione sono diverse. Come possono l’arte del dubitare – per me la filosofia è più un’arte che una scienza – e la disciplina che più di ogni altra insegna a credere dirsi complementari? In apparenza la loro complementarietà potrebbe sfuggire, lo ammetto. Andando un po’ più a fondo, però, si finisce con lo scoprire che la prima è la via per accedere alla seconda.

Filosofia e religione sono diverse. Come possono l’arte del dubitare – per me la filosofia è più un’arte che una scienza – e la disciplina che più di ogni altra insegna a credere dirsi complementari? In apparenza la loro complementarietà potrebbe sfuggire, lo ammetto. Andando un po’ più a fondo, però, si finisce con lo scoprire che la prima è la via per accedere alla seconda. In che senso? La filosofia c’insegna a ricercare la o le verità, ma nel farlo ci mette in condizioni di ricercare la Verità, come si suole dire: ci colloca già sulla buona strada.
Sia chiaro io credo che ogni strada sia buona per sé e che per ognuno ce ne sia una diversa che, ciononostante – per questo non sono un relativista –, può condurre alla stessa meta. Questa meta per me è Dio, per un altro potrebbe essere il fato, per un altro ancora il caso. Ecco, secondo me tre sono le categorie di assoluti, categorie che la mente umana non può eludere: ovvero ciascuno, vivendo a modo proprio, finisce inevitabilmente per credere in una delle tre. Motivo per cui affermo che la filosofia è la via per arrivare alla religione, perché filosofare significa mettersi in cerca della Verità, ci tengo a precisare: non a trovarla. Va da sé che se uno non cerca, neanche può trovare.
Ebbene è a questo proposito che s’inserisce Dio, il fato o il caso. Questi tre assoluti sono i pilastri del pensiero. Pilastri, questi, che rendono meno vacillanti le fondamenta del nostro vivere. Sono convinto infatti che non si possa vivere senza un principio veritiero, quale che sia quello a cui si scelga di credere.

Tempo ed eterno ritorno

Il sistema del rito, del ripetere una ritualità rassicurante, ha proprio il compito di tranquillizzarci rispetto a quella che è una palese mancanza: la mancanza di tempo. Noi uomini siamo esseri mancanti di tante cose, una su tutte: di tempo. Non ne abbiamo mai abbastanza. Ed ecco che il sistema rituale, che ciascun popolo si dà, cerca – non è detto che ci riesca – di sopperire a questa mancanza.
In questo tentativo di rasserenare, la funzione del mito dell’eterno ritorno è estremamente importante. Sapere che queste sensazioni, questo momento ritorneranno è consolante. Certo, si può obiettare che se questo adesso non è granché, se proprio “adesso” si stesse soffrendo, be’, sapere che ciò si ripeterà è più un incubo che una rassicurazione. Vero. Resta il fatto che le popolazioni antiche trovavano conforto nell’eterna ripetizione data loro dal rito.
Lo stesso sollievo lo trovano oggi i seguaci di ogni religione nel mondo, che si confortano nella ciclica ripetitività del rituale. Si prenda il cristianesimo. Natale e Pasqua arrivano ogni anno. Ciò è confortante, o almeno lo è per un cristiano, perché la ruota gira e il mondo continua ad andare avanti, malgrado i problemi.