Saper stare al mondo

Pretendere di essere capiti senza però fare lo sforzo di capire gli altri è troppo comodo, a parere mio. Vuoi che gli altri ti capiscano? Bene, allora sforzati di “capire” tu per primo gli altri.

Fra le competenze da far maturare nei miei studenti, di sicuro ingloberei l’empatia. Questo perché non provare vicinanza, non riuscire a mettersi nei panni di un compagno ma – per esempio – schiamazzare durante le altrui interrogazioni, significa avere una competenza umana davvero nulla, perché non si fa lo sforzo di immedesimarsi nell’altro. Inoltre, questo “sforzo” altro non è che un atto dovuto, perché per quieto vivere noi esseri umani dobbiamo essere reciprocamente solidali gli uni con gli altri.

Già la vita è difficile, ci porta a dover essere in competizione e affrontare tante avversità, che se non fossimo quantomeno “solidali” fra noi non ci saremmo neanche evoluti. Se l’homo sapiens ha fatto un percorso evolutivo sorprendente è grazie a questo spirito di solidarietà che gli “umani” hanno più di altre specie animali. Quindi, se non insegniamo ai nostri ragazzi a essere di sostegno fra loro, un’unica grande squadra che combatte per un comune obiettivo, se non insegniamo loro a essere empatici, ebbene, allora significa che non stiamo rendendo loro un buon servizio.

Nel corso dei miei anni d’insegnamento, ho notato un atteggiamento che ritengo sbagliato in alcuni ragazzi durante le interrogazioni. Quelli che non sono coinvolti – in prima persona – tendono a distrarsi e a chiacchierare. Ho provato a farli ragionare che – proprio in questi momenti – dovrebbero stare ancora più attenti, perché la restituzione dei contenuti in classe è importante tanto quanto lo è la spiegazione degli stessi.

Ebbene, quando in alcune classi mi è capitato di rimproverare gli elementi più ciarlieri chiedendo loro di non disturbare la concentrazione dei loro stessi compagni intenti a sostenere la verifica orale, a volte è successo che questi “elementi” mi abbiano guardato storto manco fossi stato un marziano che ha avuto l’ardire di costringerli a un silenzio tanto ingiusto quanto odioso. Devo ammettere che in questi casi – per fortuna – sporadici sia rimasto a dir poco perplesso per questa assenza di empatia fra compagni di classe.

In generale, fra le cose che fatico a tollerare nei miei studenti vi è l’incapacità di mettersi nei panni dei compagni. Pretendere di essere capiti senza però fare lo sforzo di capire gli altri è troppo comodo. Vuoi che gli altri ti capiscano? Bene, allora sforzati di “capire” tu per primo gli altri.

Gli antichi e pragmatici Romani ci avevano visto giusto con il loro slogan “do ut des”, tu dai comprensione a me e io in cambio prometto di comprendere te. A mio avviso, questo significa saper stare al mondo.

Filosofia per molti e non per tutti

Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.

Di questi tempi, tutti corriamo come dei matti, siamo sempre e di più trafelati, oberati da mille impegni che ci sobbarchiamo come illudendoci – non so – di essere immortali. Già, perché va bene dimenticarci come meccanismo di autodifesa la nostra dimensione mortale – a volte meglio non pensarci per godere appieno della nostra vita al presente –, però non dobbiamo nemmeno essere troppo schizofrenici, cioè a dire: perdere contatto con la realtà di ciò che siamo, creature che fingono soltanto di non sapere ciò che aspetta loro, che eternizzano il loro presente e lo vivono come se non fosse quello stillicidio di anni, mesi, giorni, ore, minuti, secondi che è in effetti. Appunto, considerando la meta, meglio capire come godersi il viaggio. Questo è ciò di cui si preoccupano i filosofi. Per voler essere dei guastafeste, si potrebbe senz’altro ribattere che c’è chi muore e non l’ha ancora capito. E con questo? “Capire” vale il prezzo del biglietto, anche se questo può voler dire soffrire proprio perché si è meglio compresa l’essenza di questa nostra vita: la sofferenza.
Più si capisce e più si soffre. Quindi? Tanto vale arrendersi? Neanche per sogno, si vive lottando per ogni respiro, assaporandolo per giunta, godendo della bella notizia, ovvero che si è ancora vivi anche se non si sa per quanto.
Credo si debba riscoprire una dimensione agonica del vivere, che vorrà pure dire soffrire e, per chi vuole vivere filosoficamente, capire questa sofferenza. Non è un caso se Edipo si acceca dopo avere appreso di avere ammazzato suo padre e avere generato figli con sua madre. Sapere questo, capirlo – “capire” è lo step successivo del “conoscere” – farebbe impazzire il migliore degli uomini, figuriamoci un assassino incestuoso. Comunque, meglio non accecarsi perché gli occhi vanno tenuti bene aperti e ci servono per vedere bene, con chiarezza, ci aiutano a capire. La visione, la vista è un coadiuvante della comprensione, la dilata, la fortifica. Perciò non mi resta che raccomandarvi di tenere gli occhi spalancati e augurarvi buon viaggio, con o senza filosofia, con o senza consapevolezza, a voi la scelta.
Costringere ad amare la filosofia è l’ultimo obiettivo che mi pongo. Non la penso come Epicuro e nemmeno come Nietzsche, la penso come me stesso e dico che la filosofia no, non è per tutti, ma per molti sì. Per quelli che non si accontentano a vivere e basta, ma vogliono vivere meglio, con più qualità, facendosi delle domande per darsi risposte funzionali, cioè che funzionino per sé. Il filosofo si pone domande “materiali”: cosa mangiare a pranzo o a cena, che film o serie televisiva vedere, che marca di crema solare comprare, che tragitto percorrere per andare al lavoro, eccetera. Come pure domande “spirituali”: chi siamo, da dove veniamo, che ci stiamo a fare qui sulla Terra, c’è vita solo “qui sulla Terra” o anche altrove, che cos’è la vita, perché c’è il tutto anziché il nulla e così via.
A costo di esagerare, la sparo grossa: forse persino Socrate si sbagliava a ritenere indegna una vita senza ricerca filosofica. Si può vivere “senza” filosofia (senza consapevolezza), ne sono convinto. È solo che, come Socrate, anche a me convince di più una vita “con” filosofia (con consapevolezza). Questo vuol dire che i filosofi sono maniaci del controllo? Non lo so, forse. O forse l’unico controllo che s’illudono o sanno di avere – chi può dirlo – è la consapevolezza di non poter controllare tutto e che a volte la corrente non si combatte, si asseconda se non si vuole affogare, come sa bene il nuotatore esperto. Oltretutto, ora che ci penso, non saprei in che altro modo vivere se non applicando, in ogni cosa che faccio, la mia filosofia di vita. In definitiva, la filosofia per me è tutto, ma questo “tutto” non lo è per tutti.

I tre modi d’insegnamento della filosofia

Fra questi tre modi d’insegnamento prediligo quello “per analogie”, pur combinandolo – di tanto in tanto – con gli altri due. Perché? Favorisce il naturale filosofare – fare filosofia cioè – degli allievi. Chi “studia” soltanto, dimentica. Chi “fa” anche, capisce. Studiare non basta, serve capire. Come dico sempre ai miei studenti: “Sono contento che studiate, ma m’interessa di più che capiate…”.

Secondo me ci sono tre modalità d’insegnamento della filosofia: per definizioni, per problemi, per analogie.

L’insegnamento per “definizioni” ha il merito di essere più accurato e rispondente agli autori di cui si effettua la mediazione didattica – di Platone se si sta spiegando Platone, di Aristotele se si sta spiegando Aristotele e così via –, per contro, però, risulta forse troppo lontano dall’esperienza di vita dei discenti.

L’insegnamento per “problemi” è simile a quello della matematica, senonché è il metodo dell’indagine piuttosto che il risultato della stessa che conta per la filosofia.

L’insegnamento per “analogie” è quello sul quale vorrei dilungarmi. Il vantaggio più marcato è la fascinazione. Con il procedimento analogico, per esempio, nel caso si stia affrontando come argomento Platone, si potrebbe portare i propri alunni a paragonare l’idea di Bene in sé al Sole. Entrambi – infatti – sia il Bene sia il Sole illuminano, sono “illuminanti”. Nel libro VII della “Repubblica”, quello del mito della caverna, per intenderci, viene proposta questa suggestiva corrispondenza metaforica tra il Sole e il Bene in sé. Lo svantaggio di questa modalità è la difficoltosa trasposizione mentale dei significati da un piano a un altro. Ricordiamo che, sempre restando a Platone, l’uso di analogie era comprensibile nell’ottica del dualismo. Egli non a caso riconosceva un mondo sensibile delle cose – per esempio, tavolo, cane, uomo, eccetera –, e un mondo soprasensibile delle idee – per restare nell’esempio, idea di tavolo, cane, uomo e via elencando. È incontestabile che, quando si vuole rendere qualcosa con qualcos’altro, un qualche torto lo si produca. Si può tuttavia ovviare a questo “presunto” torto facendo capire ai ragazzi il concetto di proporzionalità: il Sole sta alle realtà sensibili così come l’idea di Bene in sé sta a quelle soprasensibili.

Ciascuno di questi tre metodi d’insegnamento afferisce a una precisa branca filosofica.

L’insegnamento per definizioni è proprio della “logica”.

L’insegnamento per problemi riguarda “l’etica”.

L’insegnamento per analogie rientra nella “teoretica”.

Fra questi tre modi d’insegnamento prediligo quello “per analogie”, pur combinandolo – di tanto in tanto – con gli altri due. Perché? Favorisce il naturale filosofarefare filosofia cioè – degli allievi. Chi “studia” soltanto, dimentica. Chi “fa” anche, capisce. Studiare non basta, serve capire. Come dico sempre ai miei studenti: “Sono contento che studiate, ma m’interessa di più che capiate…”.