La filosofia non è una scienza ma è un’arte. Spiegazione in sei punti essenziali

Perché non c’è “una filosofia”, ma ne esistono di diverse? Questo perché la filosofia è plurale e antidogmatica per definizione, proprio come lo è la scienza, o per meglio dire: le scienze. Il filosofo non spaccia verità, offre semplicemente un diverso angolo di visione della realtà, alternativo a quello della massa. Ogni filosofo ha il suo angolo visuale, il suo personale buco della serratura da cui osserva con meraviglia il mondo; sul nesso che c’è tra filosofia e meraviglia si leggano le pagine immortali di Aristotele nella “Metafisica”.

Primo punto, il senso del limite

La filosofia non è una scienza, ma il paradosso – i paradossi piacciono molto ai filosofi – è che la sua influenza sulla scienza è evidente. In che modo? Per via di un metodo che è possibile definire “scientifico”, che la filosofia ha trasmesso alla scienza, qualunque “scienza”; un metodo basato sul celebre dubbio cartesiano, che vanta come progenitori gli antichi filosofi scettici.

La filosofia ha fatto e continua a far porre alle scienze dei seri interrogativi sulle finalità che esse dovrebbero perseguire. Fino a “dove” possono spingersi senza mettere in pericolo di autoestinzione l’essere umano, l’unico animale in grado di provocare o accelerare la propria distruzione? Questo è l’interrogativo più pressante che la filosofia “sbatte in faccia” a ogni scienza cosiddetta “esatta”.

Una prova sconcertante di questa capacità autodistruttiva propria dell’uomo sono state le bombe atomiche sganciate il 6 e il 9 agosto del 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, che hanno sì messo la parola “fine” alla Seconda guerra mondiale, ma hanno anche inaugurato l’inquietante epoca storica ancora in corso di svolgimento. Quale? Quella che potremmo definire a pieno titolo come “l’età della deterrenza nucleare”, per l’appunto “ancora in corso” perché non è cessata con la Guerra Fredda nel 1991, anno dello scioglimento dell’Unione Sovietica.

Battuta l’Unione Sovietica in quella che è passata alla storia come “Guerra Fredda”, gli Stati Uniti hanno dovuto e continuano a dover affrontare altri nemici: il terrorismo sia interno sia esterno e la fin qui muscolare concorrenza geopolitica di superpotenze emergenti, su tutte la Cina. Il primo nemico che sembrava se non del tutto sconfitto, quantomeno in forte contenimento, potrebbe rialzare la testa dopo il recente assalto al Campidoglio di quelli che sarebbero sbagliato definire soltanto degli “eccentrici” e il precipitare degli avvenimenti in Afghanistan, che riportano le lancette della storia indietro di vent’anni. Mentre il secondo nemico potrebbe alla lunga innescare – Dio non voglia – la famosa “trappola di Tucidide”, dal nome dell’autore del classico della storiografia antica, “La guerra del Peloponneso”; trappola che consisterebbe nella disgraziata eventualità per cui la potenza emergente, messa alle strette e sentendosi in trappola, potrebbe reagire cominciando una guerra contro la potenza egemone; una guerra finalizzata a sostituirsi a quest’ultima nel ruolo di potenza egemonica, un po’ quanto avvenuto – per la precisione – nell’antichità tra l’emergente Atene e l’egemone Sparta, con la Cina calata nella parte della prima e gli Stati Uniti nella parte della seconda, volendo attualizzare.

Già all’indomani degli avvenimenti giapponesi, che posero fine al più sanguinoso e odioso conflitto della storia, alcuni scienziati hanno posto i riflettori sull’orlo del precipizio che sta lì davanti a noi, costituito da un’eventuale, ulteriore guerra mondiale, che, se combattuta, potrebbe portare all’estinzione dell’intero genere umano, o – tutt’al più – andarci molto vicino. Parafrasando il fisico Albert Einstein, una delle più geniali menti del Novecento, in caso si arrivasse a combattere una Terza guerra mondiale è lecito aspettarsi che un’ulteriore Quarta verrebbe combattuta con le clave di pietra…

Le scienze, tra cui la fisica che ha portato alla sciagurata creazione delle armi atomiche, soffrono da sempre di smanie di onnipotenza e anelano all’illimitato, mentre la filosofia insegna loro a fare i conti con il senso del limite, di cui molto spesso esse si dimenticano. In particolare, c’è una branca della filosofia, la filosofia morale, che si occupa di ricordarci i nostri limiti. Quale utilità potrebbe mai avere tale fastidioso promemoria? Potrebbe tornarci utile per superare questi “limiti”, perché solo ammettendoli ci è dato modo di cominciare un processo di costante, faticoso miglioramento atto a superarli, uno alla volta; per quanto ne rimarrebbe sempre uno pressoché invalicabile. Mi rendo conto che ciò che ci ricorda la nostra fondamentale impotenza può dare fastidio, ma fare finta di essere indistruttibili equivarrebbe a prendersi in giro e questo sarebbe un atteggiamento poco filosofico. Più del nostro “meglio” non ci è dato fare, non siamo onnipotenti. Prima lo capiremo e prima dimostreremo un’attitudine filosofica.  

Secondo punto, la filosofia è un insieme di filosofie e la più socratica è quella morale

S’immagini la filosofia come una grande scatola che ne contiene al proprio interno di più piccole. Ecco, la morale è uno di questi contenitori più “piccoli” contenuto dentro la più “grande” scatola filosofica. Motivo per cui la morale è quella sottocategoria filosofica più socraticamente intesa, ossia più praticata da Socrate, colui che in molti considerano il fondatore della filosofia; tant’è vero che si divide un periodo prima e uno dopo di lui, un po’ com’è stato fatto in ambito cristiano dove c’è stata una suddivisione tra un’età precedente e un’altra successiva alla venuta di Cristo.

Di cosa si occupa la filosofia morale? Per prima cosa bisogna sgomberare il campo agli equivoci: il filosofo morale “alla Socrate” non ha la benché minima pretesa di “farci la predica”, bensì vuole stimolarci a riflettere su ciò che è lecito considerare giusto e – di conseguenza – su cosa invece non lo sia. Perché soccorrere una persona che sta per affogare in mare è da considerarsi come un qualcosa di intrinsecamente giusto in sé e per sé, mentre togliere la vita non è mai giusto o lo è solo a determinate condizioni, a seconda di quale morale si voglia abbracciare, se una idealistica piuttosto che una realistica? Ce lo spiegano “le” filosofie morali, al plurale appunto, perché vi sono “più filosofie” all’interno del grande contenitore filosofico, ma ve ne sono anche di diverse all’interno delle singole scatole filosofiche contenute all’interno del più “grande contenitore”. Tanto da potersi spingere a dire che la filosofia è un insieme di scatole, ognuna con la propria legittimità e importanza. La più socratica di queste scatole è la filosofia morale.

Perché non c’è “una filosofia”, ma ne esistono di diverse? Questo perché la filosofia è plurale e antidogmatica per definizione, proprio come lo è la scienza, o per meglio dire: le scienze. Il filosofo non “spaccia” verità, offre semplicemente un diverso angolo di visione della realtà, alternativo a quello della massa. Ogni filosofo ha il suo angolo visuale, il suo personale buco della serratura da cui osserva con meraviglia il mondo; sul nesso che c’è tra filosofia e meraviglia si leggano le pagine immortali di Aristotele nella “Metafisica”.

Terzo punto, eccentricità e interiorità della filosofia

La filosofia è la più eccentrica delle discipline. Il suo sapere stesso è stravagante, nel senso che è più metodologico che contenutistico.

Contenuti filosofici ce ne sono e sono – ovviamente – le parole scritte ma anche i discorsi riportati per iscritto dei filosofi che ci accompagnano di epoca in epoca in un viaggio emozionante alla scoperta del pensiero, che non fa che ripensarsi in continuazione. Un viaggio più interiore che esteriore, che parte dal proprio sé e in esso fa ritorno.

Quarto punto, conosci te stesso e diventerai il pastore della tua vita

L’obiettivo più grande e nobile che ciascun filosofo si pone nella propria indagine onnicomprensiva della realtà è la conoscenza di sé. “Conosci te stesso”, questo è il severo monito socratico. Solo chi arriverà a conoscersi fino in fondo potrà dirsi libero. Da cosa? Dalla tirannia del conformismo, che porta all’adeguarsi alla massa con la patetica scusa del “tutti la pensano così e quindi è bene che io mi adegui”; imperdonabile “scusa” che spesso ci fa comportare da pecore belanti e ci impedisce di diventare i pastori delle nostre vite.

Come si fa a diventare il proprio pastore? Basta ritagliarsi uno spazio per pensare anziché limitarsi a vivere ogni momento con frenesia, perché “chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Magari questo modo di pensare poteva andare bene per il rinascimentale Lorenzo de’ Medici, ma non può funzionare per chi crede nel dovere dell’affrontare le grandi sfide di domani; “sfide” che impongono al singolo l’infaticabile ricerca della propria dose quotidiana di certezza, resistendo alla tentazione d’imboccare scorciatoie facili e fatalistiche.

Quinto punto, andare veloce non ti fa arrivare dove vorresti davvero

La filosofia è amica della lentezza. Il filosofo va lento mentre tutti gli altri attorno a lui corrono, il più delle volte senza sapere di preciso per andare dove. Il filosofo va “piano” perché vuole arrivare “lontano”, come insegna la troppo bistrattata saggezza popolare, non sempre in disaccordo con quella filosofica. Se proprio la si vuole dire, il filosofo è più un maratoneta che un centometrista; si rende conto che la vita è una maratona, si corre sulle lunghe distanze e la sua parte più succosa la si assapora “durante” la corsa e non al traguardo, uguale e deprimente per tutti.

Dov’è che ci conduce questa disciplina atipica, la filosofia? In noi stessi, come già detto. In una certa misura è come se ci restituisse a noi stessi. La filosofia ha la grande pretesa di insegnarci a pensare con la nostra testa, pensiero che può nascere solo da un’intima e profonda conoscenza di sé.    

Sesto punto, l’arte del dubitare

Se non è una scienza, allora che cos’è questa particolare disciplina? La filosofia è un’arte, l’arte del dubitare di tutto per comprendere meglio il Tutto che ci circonda.

Machiavelli pacifista improbabile

Quando gli interessi degli umani coincidono lo scontro diventa inevitabile, a meno che una delle due parti non rinunci alla contesa per manifesta inferiorità e si consegni senza porre condizioni alla parte avversa.

Forse sarà per via del contesto storico che non può non avere influenzato le sue idee, o forse perché esperto conoscitore dell’animo umano in quanto appassionato lettore dei classici antichi (Greci e Romani) e della sua non trascurabile vicinanza a personaggi illustri (tra cui l’illustrissimo Cesare Borgia), sta di fatto che Machiavelli neanche s’immagina una società senza guerre. Perché la guerra è così ineluttabile per l’essere umano? Per via della natura umana irriducibilmente guasta.

Quando gli interessi degli umani coincidono lo scontro diventa inevitabile, a meno che una delle due parti non rinunci alla contesa per manifesta inferiorità e si consegni senza porre condizioni alla parte avversa.

Data la natura umana, quindi, per un principe farsi trovare impreparato all’eventualità della guerra sarebbe la rovina. Per questo: “Un principe […] non deve avere altro obiettivo, né altro pensiero, né altro fondamentale dovere, se non quello di prepararsi alla guerra. Questo è l’unico compito che si addica veramente a chi comanda” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 145). Infatti “[…] i prìncipi, quando hanno pensato più alle raffinatezze che alle armi, hanno perso lo Stato da essi posseduto. Perderai lo Stato soprattutto se trascurerai le arti militari. Lo conquisterai se di esse diventerai esperto” (p. 145).

A ognuno il suo, sembrerebbe suggerire Machiavelli; e, a proposito di chi governa, non c’è nulla di più propriamente “suo” dell’arte della guerra.

Combattere per la vita

Tra combattere per forza d’inerzia e combattere per la vita corre un abisso. Chi lo fa per una più valida ragione nove volte su dieci avrà la meglio su chi combatte per denaro. Il motivo è di una banalità disarmante: chi combatte in ciò in cui crede è pronto a tutto, infatti, nessun ingaggio economico vale il proprio sacrificio senza una reale motivazione.

Machiavelli adduce degli esempi storici per asserire la pericolosità delle truppe mercenarie. Esempi virtuosi d’indipendenza dalle truppe mercenarie sono: Roma, Sparta, gli Svizzeri. Esempi deprecabili di dipendenza dagli eserciti mercenari: Cartaginesi, Tebani, Milanesi. Inoltre, Machiavelli prende atto di alcuni disastrosi esempi d’impiego di milizie mercenarie nella penisola italiana, in particolare: la bruciante sconfitta subita ad Agnadello dai Veneziani nel 1509 per mano degli aderenti alla Lega di Cambrai, capeggiata dalla Francia di Luigi XII. Ciò offre a Machiavelli lo spunto per dire che: “Con i mercenari, le conquiste sono sempre lente, tardive e deboli, mentre le perdite sono improvvise e stupefacenti” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 135).

La più grande piaga dell’Italia del Quattrocento? Machiavelli non ha dubbi: gli eserciti mercenari che l’hanno tenuta in scacco. (Per inciso, un problema non limitato a quel secolo della storia italiana.) L’impiego a mezzo servizio degli eserciti di professionisti, che combattevano per il loro tornaconto personale e non per una causa in cui credevano, hanno reso facile il compito di conquista agli eserciti stranieri, che invece una causa ce l’avevano ed erano disposti a morire per essa.

Sostiene Lev Tolstoj in “Guerra e pace”, che in caso di battaglia incerta, il fattore decisivo, il cosiddetto “fattore X” che, anche quando si è inferiori sia di numero sia di armamenti, può far pendere l’ago della bilancia dalla parte della vittoria è: il morale delle truppe. E, se una cosa è certa, quella è che il morale dei mercenari è volubile e incerto. Motivo per cui tra un esercito superiore ma demotivato e uno inferiore però motivato, quello che ha più possibilità di vittoria è il secondo.

Si pensi alla fine che fecero i soldati statunitensi in Vietnam, i quali combatterono senza capire il perché (a differenza dei politici che li avevano mandati a morire in una terra lontana per bilanciare in loro favore l’equilibrio delle potenze nel pieno della Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica). I vietcong sconfissero gli americani perché si battevano per tenere in piedi le loro case, per dare una vita migliore alle loro famiglie ed erano disposti a immolarsi per un ideale politico in cui investirono tutte le loro migliori energie.

Tra combattere per forza d’inerzia e combattere per la vita corre un abisso. Chi lo fa per una più valida ragione nove volte su dieci avrà la meglio su chi combatte per denaro. Il motivo è di una banalità disarmante: chi combatte in ciò in cui crede è pronto a tutto, infatti, nessun ingaggio economico vale il proprio sacrificio senza una reale motivazione.

Come sanno bene i cacciatori, è proprio quando sono braccati che i cinghiali diventano più pericolosi. E non solo loro, tutte le bestie, umani compresi.

Del fine che giustifica i mezzi

Una divisione manichea tra bene e male è un lusso che si può permettere solo chi non governa. Le esigenze cambiano e con esse anche ciò che è giusto o non è giusto fare. A volte ciò che è giusto potrebbe essere ciò che in termini cristiani si definisce male. Allo stesso tempo, però, sembrare buono in senso cristiano è fondamentale per il principe, che deve “apparire religioso”.

“Un principe […] non deve realmente possedere tutte le qualità, ma deve far credere di averle” (p. 167). Perché “[…] se le ha e le usa sempre, gli sono dannose.” Mentre: “Se fa credere di averle, gli sono utili” (p. 167). Per giunta: “[…] egli è spesso obbligato, per mantenere il potere, a operare contro la lealtà, contro la carità, contro l’umanità, contro la religione.” Quindi, ecco la stoccata finale che stronca qualsiasi tentativo di buonismo nell’interpretare il pensiero machiavellico: “[…] non si allontani dal bene, quando può, ma sappia entrare nel male, quando vi è costretto” (p. 169).

Una divisione manichea tra bene e male è un lusso che si può permettere solo chi non governa. Le esigenze cambiano e con esse anche ciò che è giusto o non è giusto fare. A volte ciò che è giusto potrebbe essere ciò che in termini cristiani si definisce male. Allo stesso tempo, però, sembrare buono in senso cristiano è fondamentale per il principe, che deve “apparire religioso”. Questo perché: “Gli uomini, in generale, giudicano più con gli occhi che con le mani, perché tutti vedono e pochi toccano con mano.”

A questo punto Machiavelli esprime quel concetto poi semplificato nella formula “il fine giustifica i mezzi”. Le sue esatte parole: “Nel giudicare le azioni degli uomini, e soprattutto dei prìncipi […] non si guarda ai mezzi, ma al fine. Il principe faccia quel che occorre per vincere e conservare il potere. I mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e lodati da ognuno […]” (p. 169). Per cui: “il fine giustifica i mezzi” non è che la parafrasi più convincente del passo appena citato.

Della volpe, del leone e di quanto la lealtà sia sopravvalutata per uno statista

Sarebbe bello se tutti fossero leali con il prossimo, il mondo sarebbe un posto migliore, pace e serenità per tutti ma, affinché tutto vada liscio e questo clima di distensione duri, la conditio sine qua non sarebbe che tutti, nessuno escluso, viaggiassero sulla stessa pacifica e serena lunghezza d’onda; basterebbe anche solo una stecca fuori dal coro, un solo essere umano sleale per mandare tutto a rotoli. Dunque, sarebbe bello sì, possibile…

La lealtà è sopravvaluta secondo Machiavelli. Prova ne sono queste parole: “Ognuno sa quanto sia lodevole, per un principe, essere leale e vivere con onestà, non con l’inganno. L’esperienza dei nostri tempi ci insegna tuttavia che i prìncipi, i quali hanno tenuto poco conto della parola data e ingannato le menti degli uomini, hanno anche saputo compiere grandi imprese e sono alla fine riusciti a prevalere su coloro che si sono invece fondati sulla lealtà” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 165). Della serie: la lealtà è uno scomodo vestito pruriginoso, che a volte va tolto per sentire meno prurito. Sarebbe bello se tutti fossero leali con il prossimo, il mondo sarebbe un posto migliore, pace e serenità per tutti ma, affinché tutto vada liscio e questo clima di distensione duri, la conditio sine qua non sarebbe che tutti, nessuno escluso, viaggiassero sulla stessa pacifica e serena lunghezza d’onda; basterebbe anche solo una stecca fuori dal coro, un solo essere umano sleale per mandare tutto a rotoli. Dunque, sarebbe bello sì, possibile…

A proposito dei modi di combattere, Machiavelli dice che ne esistono di due tipi: “[…] l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Il primo modo appartiene all’uomo, il secondo alle bestie. Ma poiché molte volte il primo modo non basta, conviene ricorrere al secondo. È pertanto necessario che un principe sappia servirsi dei mezzi adatti sia alla bestia sia all’uomo” (p. 165). Giocoforza: “Il principe è dunque costretto a saper essere bestia e deve imitare la volpe e il leone. Dato che il leone non si difende dalle trappole e la volpe non si difende dai lupi, bisogna essere volpe per riconoscere le trappole, e leone per impaurire i lupi. Coloro che si limitano a essere leoni non conoscono l’arte di governare” (pp. 165-166).

Due esempi del tutto arbitrari, due di tanti che si possono fare: Attila, re degli Unni; Garibaldi, eroe dei due mondi. Il primo fu un formidabile guerriero, però incapace di vedere oltre la successiva battaglia. Il secondo non fu secondo a nessuno in coraggio e spirito battagliero, ma dovette inginocchiarsi al cospetto di un reuccio piemontese. La loro natura leonina è lampante, solo con quella però non si governano gli uomini in tempo di pace, quando i nemici sono camuffati da amici e occorre il fiuto della volpe per stanarli. Per sconfiggere i nemici sul campo di battaglia un principe deve dare libero sfogo alla sua natura leonesca, per governare quella volpesca.

Ha senso essere leali in tutto e per tutto? Si direbbe proprio di no per Machiavelli: “Un signore prudente […] non può né deve rispettare la parola data se tale rispetto lo danneggia e se sono venute meno le ragioni che lo indussero a promettere. Se gli uomini fossero tutti buoni,” solito discorso, “questa regola non sarebbe buona. Ma poiché gli uomini sono cattivi e non manterrebbero nei tuoi confronti la parola data, neppure tu devi mantenerla con loro” (p. 167). Insomma, la prudenza non è mai troppa. Opportunismo machiavellico derivato da un pessimismo antropologico di fondo sulla base del quale: rispettare la parola data conviene solo se non va contro i propri interessi. Ragionamento spietato? Senza dubbio.

Un secolo dopo Machiavelli, un simile modo di ragionare verrà riproposto dal cardinale Richelieu, che per salvaguardare l’interesse nazionale francese (o “ragion di Stato”), pur essendo lui membro del clero cattolico e di un Paese cattolicissimo si allea furbescamente – massimo esempio di “natura volpina” – con le potenze protestanti per vincere la guerra dei Trent’anni e per spostare l’equilibrio di potenza europeo in favore della sua Francia. Si può dire che quello che Machiavelli teorizza, Richelieu lo realizza. Per gli uomini di ieri, di oggi e di ogni tempo risuona profetico questo passo de “Il principe”: “[…] chi meglio ha saputo farsi volpe, meglio è riuscito ad aver successo. Ma è necessario saper mascherare bene questa natura volpina ed essere grandi simulatori e dissimulatori. Gli uomini sono così ingenui e legati alle esigenze del momento che colui il quale vuole ingannare troverà sempre chi si lascerà ingannare” (p. 167). L’ammirazione di Machiavelli per Cesare Borgia è estesa anche – seppure in misura più contenuta – al padre papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia. Di quest’ultimo Machiavelli afferma: “Non ci fu mai uomo che promettesse con così grande efficacia, che giurasse con altrettanto fervore e che poi mancasse di parola come lui” (p. 167).

Mancare la parola data è un comportamento meschino? Secondo la morale lo è. In politica – in determinate circostanze – può essere un modo di agire da statista.

Meglio essere amati o temuti?

La parola d’ordine per il “principe saggio” è dipendere da sé e dalle proprie forze, non confidare che altri possano risolvere i suoi problemi, dimostrarsi risoluto, forte e – perché no – crudele all’occorrenza.

Inevitabile sorge il dilemma: “[…] se sia meglio essere amati piuttosto che temuti, o se sia meglio esser temuti piuttosto che amati” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 159). Continua Machiavelli: “La risposta è che si vorrebbe essere l’una e l’altra cosa, ma poiché è difficile mettere insieme le due cose, risulta molto più sicuro, dovendo scegliere, esser temuti piuttosto che amati” (p. 161). Perché? Il motivo è da ricercarsi nel pessimismo antropologico di Machiavelli, che più che “pessimismo” vero e proprio andrebbe considerato: realismo. Ovvero: l’uomo è tutto fuorché buono. Se alcune volte sembra tentato dal bene e lo compie anche, questa è da ritenersi un’eccezione, che non cambia la regola, ossia il male ha più forza di attrattiva del bene per l’uomo. Lo conferma in maniera inequivocabile Machiavelli stesso dicendo: “Gli uomini hanno meno timore di colpire uno che si faccia amare, piuttosto che uno che si faccia temere. L’amore è infatti sorretto da un vincolo di riconoscenza che gli uomini, essendo malvagi, possono spezzare ogniqualvolta faccia loro comodo. Il timore, invece, è sorretto dalla paura di essere punito, che non ti abbandona mai” (p. 161). Farsi temere è bene, farsi odiare no, dunque.

Sempre Machiavelli rintuzza il suo affondo nei confronti della bontà cristiana aggiungendo: “Il principe deve farsi temere in modo tale che, pur senza farsi amare, gli riesca tuttavia di non farsi odiare. Si può essere temuti e allo stesso tempo non odiati. E anzi il principe riuscirà sempre a raggiungere questo risultato se rispetterà i beni dei suoi cittadini e dei suoi sudditi, nonché le loro donne […] Si astenga soprattutto dal prendere la roba degli altri, perché gli uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio” (p. 161). Insomma, si perdona meglio un assassino di un ladro, stando a Machiavelli. È senz’altro ovvio, ancorché non per tutti scontato, che queste parole di Machiavelli vadano soppesate e contestualizzate all’interno di una più ampia cornice storica machiavellica più di quanto Machiavelli stesso sia mai stato; con l’espressione “machiavellica” s’intende la banalizzazione che di Machiavelli si è fatto nel corso dei secoli, tramutandolo in quello che “non” è mai stato, almeno non personalmente, ovvero, una sorta di genio del male, ispiratore – seppure non esecutore – di mille e più efferatezze. Machiavelli è non colpevole dall’accusa di avere agito in vita da “machiavellico”.

Si è detto volutamente non colpevole piuttosto che innocente. Questo perché l’innocenza è un’altra cosa rispetto alla non colpevolezza. Chi può davvero definirsi “innocente”? Oltretutto, bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato di “innocenza”. In un senso stretto, dal momento che si viene al mondo, nessuno è del tutto innocente. Secondo la vulgata cristiana: il peccato originale è una palla al piede che tutti ci trasciniamo dietro nel nostro cammino di vita. Poi senz’altro dipende da noi risultare più o meno peccatori, ovvero: più o meno malvagi. Con un esercizio di tutt’altro che sterile retorica, si potrebbe riutilizzare – e rovesciare – il celebre argomento di Sant’Agostino sul male, da lui definito un deficit di bene. Come? Facile, sostenendo che il bene è nient’altro che una carenza di male. Come si può ben vedere, la questione dell’innocenza di qualcuno è cosa ben più astratta, che interessa più la metafisica che la filosofia politica, che tratta degli uomini, di quello che “sono” e non di ciò che “dovrebbero essere”.

Machiavelli precisa che “[…] gli uomini, mentre amano secondo la volontà loro, temono secondo la volontà del principe” (p. 165). Motivo per cui: “Un principe saggio […] deve fondarsi su quel che dipende dalla volontà sua, non dalla volontà altrui. Deve soltanto cercare di non farsi odiare, come ho già detto” (p. 165). La parola d’ordine per il “principe saggio” è dipendere da sé e dalle proprie forze, non confidare che altri possano risolvere i suoi problemi, dimostrarsi risoluto, forte e – perché no – crudele all’occorrenza. L’essenziale è che la crudeltà non sia gratuita, ma sempre ben motivata da una causa di forza maggiore.

La crudeltà quanto basta

La conditio sine qua non per condurre vittoriosamente degli uomini in battaglia è farsi rispettare da essi e per rendere possibile ciò la crudeltà è solo un mezzo in vista di un fine più grande: la vittoria.

Nel capitolo diciassette de “Il principeMachiavelli ammette l’idea di una crudeltà necessaria (in politica). La prende da lontano cominciando col dire: “[…] ogni principe deve desiderare di essere giudicato clemente, e non crudele” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 159). Poi però prosegue: “Tuttavia deve badare a non far cattivo uso della clemenza. Cesare Borgia era ritenuto crudele; cionondimeno la sua crudeltà riportava l’ordine in Romagna, la unificava, la pacificava e la rendeva fedele. Si vedrà che alla fine il Borgia fu più umano dei Fiorentini i quali, per evitare di essere crudeli, lasciarono che le fazioni provocassero la rovina di Pistoia” (p. 159).

Come dev’essere allora un buon principe, intendendo con “buono” uno che sopra ogni altra cosa voglia fare il bene del suo popolo e non solo il proprio? La risposta ce l’ha Machiavelli ed è: “Infliggendo un piccolo numero di punizioni esemplari, risulterà più umano di coloro i quali, per eccessiva umanità, lasciano scoppiare disordini da cui derivano uccisioni o rapine. Queste, di solito, colpiscono l’insieme dei cittadini, mentre le condanne del principe colpiscono il singolo individuo” (p. 159). Quelli a essere più soggetti a questa “crudeltà necessaria” – sebbene ponderata – sono gli “Stati nuovi”, che sono per loro stessa natura più instabili e inclini – quindi – a ricorrere alla violenza come extrema ratio per sanare conflitti interni che potrebbero minarne l’unità.

Oltretutto per un principe che intende suscitare il rispetto delle truppe una certa dose di crudeltà ben distillata non solo è necessaria ma anche richiesta, perché: “Senza questa reputazione non gli sarebbe possibile tener uniti gli eserciti e indurli a combattere.” Un condottiero del passato che teneva alla reputazione di venire considerato “crudele” era Annibale. Tale reputazione “[…] fece sì che i soldati lo considerassero sempre venerabile e terribile. Senza la crudeltà, le altre sue capacità politiche non sarebbero bastate a ottenere questo risultato. Gli storici, alquanto sconsideratamente, ammirano il risultato e nello stesso tempo condannano la prima causa di esso” (p. 163). Il successo di un’impresa bellica quasi sempre è stato ottenuto con mezzi poco raffinati e i condottieri – come Annibale – non si sono fatti scrupoli di adoperarli per raggiungere il loro scopo. La conditio sine qua non per condurre vittoriosamente degli uomini in battaglia è farsi rispettare da essi e per rendere possibile ciò la crudeltà è solo un mezzo in vista di un fine più grande: la vittoria.

In conclusione, la crudeltà è necessaria per Machiavelli? Quanto basta, come nelle ricette di cucina.

Il dovere di schierarsi

Se c’è una cosa che insegna la storia è che: ogni status quo ha i giorni contati. In storia la stasi è solo mera apparenza. Anche quando le bocce sembrano ferme, in realtà si muovono, anche fosse in maniera impercettibile.

Schierarsi è bene, restare neutrali è male. Perché? Lo spiega Machiavelli: “E succederà sempre che chi non è amico ti chiederà di esser neutrale, e chi ti è amico ti chiederà di dichiarar guerra. I prìncipi indecisi, per evitare i pericoli presenti, decidono il più delle volte di restare neutrali, e il più delle volte precipitano” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 203).

In caso di situazione incerta, la neutralità sarà sempre l’opzione più sconsigliabile. Infatti, anche si andasse in guerra e si perdesse, nulla vieta che non si possa risorgere insieme al proprio alleato sconfitto. Nella benaugurata ipotesi in cui si vincesse, si avrebbe tutto l’apprezzamento e il sostegno dell’alleato vincitore e insieme ci si difenderebbe meglio da eventuali – e possibili – attacchi futuri.

Se c’è una cosa che insegna la storia è che: ogni status quo ha i giorni contati. In storia la stasi è solo mera apparenza. Anche quando le bocce sembrano ferme, in realtà si muovono, anche fosse in maniera impercettibile. Il corso della storia è in continuo movimento. “Se dirò all’attimo: fermati dunque! sei così bello! allora mi potrai gettare in catene, allora andrò volentieri in rovina” fa dire Goethe al suo Faust, che così dicendo spera di rimandare all’infinito la capitolazione. L’attimo storico è inarrestabile così come quello faustiano.

Il fluire eracliteo del fiume è la metafora che meglio azzecca l’andamento mutevole della storia. Per cui si può dire che in storia: nulla è certo, tranne il cambiamento.

Il potere della suggestione

Il popolo si lascia comandare solo da quel principe che esercita su di esso un ascendente. Fondamentale – in tal senso – è per il principe avere il potere di “[…] suggestionare la massa” (p. 117), chi ne è sguarnito non può esercitare l’onere e l’onore del comando.

Contro il volere popolare non è possibile governare. Per costruire il proprio potere “[…] su fondamenta solide” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 117) è necessario portare dalla propria parte il popolo, sia nel caso in cui grazie a esso si è preso il potere sia se lo si è conquistato grazie ai nobili.

Il popolo si lascia comandare solo da quel principe che esercita su di esso un ascendente. Fondamentale – in tal senso – è per il principe avere il potere di “[…] suggestionare la massa” (p. 117), chi ne è sguarnito non può esercitare l’onere e l’onore del comando. Di suggestione delle masse da parte dei capi ne parla Gustave Le Bon ne “La psicologia delle folle”, uno dei testi più letti e studiati – guarda caso proprio insieme a “Il principe” di Machiavelli – dai politici del Novecento, dittatori compresi.

La suggestione è impossibile senza la seduzione, motivo per cui un buon principe dev’essere un seduttore. Come si seduce? Con le lusinghe. Per esempio, si prenda un caso emblematico della nostra attualità politica, il reddito di cittadinanza; è chiaro che chi lo proporrà, lusingando così una larga fetta della popolazione disoccupata, con una tale esca, come effetto immediato otterrà una valanga di consensi in suo favore; certo, se poi costui non rispetterà le promesse fatte, in tempo di democrazia 2.0 ne pagherà il prezzo perdendo tutto il credito politico accumulato e si precluderà la possibilità di venire rieletto. Altri esempi potrebbero essere: promettere posti di lavoro, estendere i diritti civili alle minoranze, diminuire il carico fiscale dello Stato, eccetera.

Tante sono le lusinghe da adoperare in politica, quelle di oggi diverse da quelle di ieri; anche perché oggi i cittadini non sono più sudditi in tante parti del mondo; ragion per cui sono più smaliziati, conoscono i loro diritti e li rivendicano, ne chiedono di continuo l’estensione. Comunque, mutatis mutandis, cambia la forma ma non la sostanza: le lusinghe attecchiscono sul popolo come la ruggine al ferro.

Apologia di Cesare Borgia

Ognuno ha i propri modelli di riferimento, è indubbio quale sia quello di Machiavelli: Cesare Borgia, duca di Valentinois e per questo detto il Valentino.

“Coloro i quali, da semplici cittadini, diventano prìncipi soltanto grazie alla fortuna, lo diventano con poca fatica, ma devono poi penare per restare al potere” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 87). Ognuno ha i propri modelli di riferimento, è indubbio quale sia quello di Machiavelli: Cesare Borgia, duca di Valentinois e per questo detto il Valentino. Vero è però, stando a Machiavelli, che più si fatica a conquistare il potere e più agevolmente lo si conserva. Ciò è stato “vero” non solo per Cesare Borgia, ma anche per Francesco Sforza divenuto – per suoi meriti – duca di Milano.

A ogni buon conto, i rovesci della fortuna si abbattono pure sui grandi uomini, duca di Valentinois compreso. Infatti, morto il padre Alessandro VI (al secolo Rodrigo Borgia), Cesare perse conquiste e fama, anche se aveva usato “[…] tutti gli accorgimenti degli uomini saggi e capaci […]”. Tanta è la stima nei confronti del Valentino, che Machiavelli usa per descriverlo queste parole, che si commentano da sole, “[…] non saprei quali precetti migliori dare a un principe nuovo, se non prendendo come esempio Cesare Borgia. Se i mezzi adoprati non gli giovarono, non fu per sua colpa, ma per una straordinaria ed estrema malvagità della sorte” (p. 89).

La commossa partecipazione di Machiavelli alla vicenda umana del Valentino – non proprio un tenero agnellino – suggerisce questo adagio: la fortuna dà e toglie con uguale arbitrio. Come già sapevano gli eroi della grande tragedia greca: lottare contro la sorte è una missione persa in partenza e al massimo si può sperare in qualche vittoria di Pirro, che non serve di certo a impedire l’inesorabile sconfitta finale. Titanismo viene definito quell’atteggiamento eroico insito in quegli uomini che, malgrado le avversità della vita, si sono battuti senza risparmiarsi fino alla fine; “titanismo” che deriva dalla mitologia greca, di preciso dal racconto mitologico della bruciante sconfitta dei Titani, figli ribelli degli dèi Olimpi (che li sconfissero). Illustre esempio in tal senso è stato Cesare Borgia, il quale soffriva del “mal francese”, la sifilide, che ogni giorno di più contribuì non solo a scavargli la fossa, ma gli rese – oltretutto – più arduo il cammino che ce lo accompagnò.

Ecco altre parole al miele usate da Machiavelli nei riguardi del Valentino: “Nel duca c’erano tanto feroce ardimento e tanta capacità politica […]” (p. 99). Tanto meglio avrebbe potuto fare se non fosse stato per tre fattori: la fortuna avversa manifestatasi attraverso la consistenza degli eserciti nemici; la breve vita del papa suo padre; le sue precarie condizioni di salute. Il paragrafo tredici del capitolo sette de “Il principe” è una plateale sviolinata delle qualità di Cesare Borgia, di cui Machiavelli tesse le lodi sopra ogni altro principe. Nel paragrafo quattordici dello stesso capitolo, però, Machiavelli addebita al Valentino un errore: avere puntato sul candidato sbagliato per l’elezione papale dopo la morte del padre, favorendo il cardinale Della Rovere, poi divenuto Giulio II. Quest’ultimo aveva dei conti in sospeso con Cesare e glieli fece pagare a caro prezzo.