“Invece di preparare gli uomini per la vita, la scuola li prepara per gli impieghi pubblici in cui la riuscita non esige nemmeno un barlume di iniziativa […] Dall’alto al basso della piramide sociale, la massa formidabile dei diplomati e dei laureati stringe oggi d’assedio le carriere […] Nel solo dipartimento della Senna vi sono ventimila istitutori ed istitutrici disoccupati che, disprezzando i campi e gli opifici, si rivolgono allo Stato per vivere” (“Psicologia delle folle”, TEA, Milano, 2009, p. 125). Questo dice Gustave Le Bon sul finire dell’Ottocento. Le sue parole suonano ancora oggi attuali. Cosa parrebbe volerci dire l’autore della “Psicologia delle folle”?
A me sembra questo: che gli statali non sono che spiriti barbini, privi d’iniziativa e di una volontà che non sia quella di non bramare altro se non il “posto fisso” o, in alternativa, spirare provandoci. Non è che la considerazione dei cosiddetti “statali” sia tanto migliorata, oggi. Nell’immaginario collettivo sono sempre considerati alla stregua di mangiatori di pane a tradimento; in pratica, “magnaccia” scansafatiche che vivono sulle spalle di altra gente più industriosa di loro. Peccato che non sia tutto bianco o nero. Citando George Bernard Shaw: “Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata”.
Esistono degli statali sfaticati? Sì, certo, ne esistono e non pochi, vedi alla voce: “furbetti del cartellino” tanto per citare il più clamoroso episodio recente. L’altra domanda da porsi è però secondo me se ne esistono di volenterosi, che s’impegnano per fare bene e talvolta persino con creatività il loro lavoro? Io credo proprio di sì. Un esempio? Un insegnante che svolge a regola d’arte il proprio mestiere non fa altro che adempiere a una vera e propria missione: salvare – nel più alto e autentico senso della parola – le vite di giovani che senza le loro cure potrebbero finire sbandati e in balia di chissà quali ideologie fasulle, cattive compagnie, falsi profeti, pessimi maestri, fastidiosi imbonitori, sette degenerate e chi più ne ha più ne metta. Come fanno a salvarne un così alto numero? Sviluppando nella gioventù – erroneamente considerata nichilista – il più prezioso degli anticorpi: lo spirito critico. A che prezzo? Con la sacrosanta “fatica” di chi sa che sta facendo la cosa giusta, assolvendo alla propria missione esistenziale, qui e ora in questa desolata ma – per fortuna – non disperante “valle di lacrime”.
L’insegnamento come missione
Un insegnante che fa bene il proprio mestiere non fa altro che adempiere a una vera e propria missione: salvare – nel più alto e autentico senso della parola – le vite di giovani che senza le loro cure potrebbero finire sbandati e in balia di chissà quali ideologie fasulle, cattive compagnie, falsi profeti, pessimi maestri, fastidiosi imbonitori, sette degenerate e chi più ne ha più ne metta. Come fanno a salvarne un così alto numero? Sviluppando nella gioventù – erroneamente considerata nichilista – il più prezioso degli anticorpi: lo spirito critico.

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