Sopravvivere non può bastarci

Concordo con Caffo nell’affermare che sopravvivere non può bastarci, si tratta di vivere d’ora in avanti con maggiore dignità, ma mi sento di aggiungere anche: con più consapevolezza e accettazione della grande contraddizione umana insita in noi. La consapevolezza di una creatura finita che aspira all’infinito, che è una contraddizione insanabile, è vero, ma che è propria di ogni essere umano ed è propriamente ciò che ci ha reso nel bene e nel male quello che siamo. Io credo più nel bene che nel male.

Voglio riportare un passaggio interessante di “Dopo il Covid-19”, breve ma ricco instant book di Leonardo Caffo. “E se il mondo che seguirà sarà un mondo in cui la libertà conterà più del rischio di perdere la vita? Se vivere diventasse, improvvisamente e dopo il Covid-19, più interessante che sopravvivere? Presto o tardi, anche se la nostra società ci ha completamente diseducati ad affrontare il tema della morte, tutti quanti dobbiamo morire: siamo sicuri che questa vita lunghissima ma vuota per cui stiamo lottando adesso valga più di una vita intensamente breve?”

Chi ha qualche dimestichezza con la filosofia, non può non scovare in questo passo l’influenza senecana. C’è tanto del “De brevitate vitae” di Seneca in questo discorso di Caffo. Ciò non è affatto un difetto. Sono intimamente convinto che filosofare sia “con-filosofare”, come vuole Karl Jaspers, vale a dire: un “filosofare con” chi vive il nostro tempo, ma anche con chi ci ha preceduti e con chi ci succederà. Motivo per cui in filosofia l’originalità è impensabile. Riferirsi ai filosofi precedenti è indispensabile per chiunque filosofi oggi ed è incoraggiante sapere che chi verrà dopo rifletterà “insieme a noi” in un circolo virtuoso, ininterrotto del pensiero.

Precisato questo, la stessa timida critica che rivolgo a Seneca, di riflesso la muovo anche a Caffo, ossia: c’è un sentore di “carpe diem” tanto caro ai Latini nel brano sopra riportato. Come insegna il “Faust” di Goethe, s’illude chi crede di poter cogliere l’attimo. Si può godere l’attimo, assaporare il presente solo proiettandosi nel futuro che non sta davanti a noi, come alcuni credono in maniera del tutto erronea, bensì alle nostre spalle e da lì ci sorprenderà in ogni caso, su questo possiamo stare certi. In realtà, il Covid-19 ci palesa quella che dovrebbe essere un’ovvietà per noi umani: la prevedibile imprevedibilità sia in positivo sia in negativo del futuro. Perché “prevedibile imprevedibilità”? Non amo gli ossimori, ma in questo caso credo sia calzante definire “prevedibile” un futuro che per tutti riserva lo stesso tragico traguardo, la morte, altrettanto ritengo sia sensato parlare di “imprevedibilità”, perché come vivremo nel futuro e come trapasseremo anche – per fortuna – non ci è dato saperlo con precisione. Per quanto oggi esistano figure d’intellettuali che si fanno chiamare “futurologi”, in tutta franchezza credo che il futuro saprà sorprendere anche la più acuta delle previsioni “futurologiche”. Fra tutti, trovo più giusto quell’atteggiamento nei confronti del futuro di chi intende farsi cogliere affaccendati dalla morte, magari mentre si piantano i cavoli in giardino, come insegna Montaigne.

Concordo con Caffo nell’affermare che sopravvivere non può bastarci, si tratta di vivere d’ora in avanti con maggiore dignità, ma mi sento di aggiungere anche: con più consapevolezza e accettazione della grande contraddizione umana insita in noi. La consapevolezza di una creatura finita che aspira all’infinito, che è una contraddizione insanabile, è vero, ma che è propria di ogni essere umano ed è propriamente ciò che ci ha reso nel bene e nel male quello che siamo. Io credo più nel bene che nel male. In questo forse rimango un ottimista antropologico, come Rousseau, seppure convinto con realismo che, per quanto bene intenzionato, come ha rilevato Freud, nell’uomo agiscono due impulsi opposti: uno costruttivo, di vita, Eros; un altro autodistruttivo, di morte, Thanatos. La questione cruciale credo sia riuscire a tenere a bada il secondo a vantaggio del primo. Il guaio è che, a partire dalla seconda rivoluzione industriale in poi, con l’avvento della società capitalistica otto-novecentesca, si è avuto un trionfo dell’impulso di morte, che è ora di combattere e sconfiggere prima che finisca di scavarci la fossa; non solo le due guerre mondiali del Novecento, ma pure lo sfruttamento “illimitato” delle “limitate” risorse del Pianeta sono tutte prove lampanti dell’insano trionfo autolesionista del capitalismo odierno.

Malgrado molti scienziati e filosofi ne denuncino gli effetti e le cause, i politici (i neoconservatori e persino alcuni liberal-democratici) sempre meno considerano scienziati e filosofi che mettono in guardia da certi comportamenti predatori ai danni del Pianeta e di tutti quelli che ci abitano (compresi loro), mentre gli stessi politici se ne stanno in ammirante ascolto degli oracoli di oggi, gli economisti, alcuni dei quali (i neoliberisti), con i loro sciagurati consigli, ci hanno condotti a un punto di non ritorno con la paziente quanto inflessibile Madre Natura, che sa tanto di resa dei conti finali. Ci illudevamo di rimpallare il problema delle conseguenze del nostro sfruttamento alle future generazioni, mentre ora comincia a essere chiaro a molti – non ancora a tutti – che riguarda anche e soprattutto noi. Dico “soprattutto” perché ha ragione da vendere Caffo a sostenere che, se non ci rimbocchiamo le maniche noi per primi, potrebbero non esserci più altre generazioni dopo la nostra. Tocchiamo tutto quello che c’è da toccare, per scaramanzia, ma di sicuro prima lo capiamo e prima agiamo uniti nell’interesse di tutti. Meglio allarmare, se ciò comporterà svegliare i dormienti che ci hanno condotto sull’orlo di questo scongiurabile baratro.

Caffo ci dice che “non abbiamo neanche idea delle mostruosità che possono seguire alla crisi del Covid-19, se diamo al sistema la possibilità di espandersi anche dopo questo stop forzato”. Su questo punto, temo che di idee – tutte inquietanti – ce ne sarebbero eccome. Le riassumo in questi termini: aumento delle disuguaglianze e totale affermazione della legge della giungla. Risultato? L’uomo capitalistico – evoluzione, per certi aspetti, o involuzione, per altri, di quello sapiens – eserciterà fino all’ultimo le solite – deludenti – dinamiche di conflitto, giocherà sulle vite di poveri sfortunati – come se la sfortuna fosse una colpa – a chi arriverà prima al vaccino per affermarsi come padrone incontrastato di quell’ammasso di macerie che diventerà il mondo, svicolando l’unico vero problema: l’inevitabile auto-estinzione, seguitando di questo passo. C’è la speranza di venire smentito, ma per avverarla – al momento – mancano solide basi. A ogni modo, se non ci sono adesso, non è detto che non ci saranno domani.

Viva Rousseau

[…] evviva il buon selvaggio, evviva la natura destinata ad avere la meglio sulla cultura (compreso il mostro sacro della tecnica), evviva Rousseau scaturigine di ogni Thoreau (e Caffo) venuto dopo di lui. Altro che Marx, bentornato Rousseau!

In questi stralunati giorni di crisi epocale che stiamo vivendo, in un momento di serendipità mi sono imbattuto in un testo stimolante intitolato “Dopo il Covid-19” di Leonardo Caffo, filosofo salito alle luci della ribalta negli ultimi anni per il suo “antispecismo debole”. L’autore auspica una globalizzazione del “[…] mondo attraverso l’etica e non l’economia” e invita a riprendere “[…] a considerare la campagna e la natura più importanti delle città”. Su questi punti, mi trovo d’accordo con lui e mi vien voglia di gridare: evviva il buon selvaggio, evviva la natura destinata ad avere la meglio sulla cultura (compreso il mostro sacro della tecnica), evviva Rousseau scaturigine di ogni Thoreau (e Caffo) venuto dopo di lui. Altro che Marx, bentornato Rousseau! Bravo Caffo per avere restituito con il suo lessico le idee rousseauiane, ovvero, di chi ci ha messi in guardia dal pericoloso mito che la società capitalistica di oggi ha ereditato dal secolo dei lumi: il mito del progresso. “Andrà tutto bene” sì, se cambieremo il paradigma che ci ha condotti alla formulazione di questa frase fatta. Quale paradigma? Quello capitalista, che, come dice bene Caffo, se non a questa crisi, perirà alla prossima. In favore di quale altro nuovo paradigma? No di certo quello marxiano, per quanto Marx ci abbia indirizzati sulla buona strada con la sua critica lucida quanto spietata del capitalismo. Il paradigma che potrebbe allungare la vita dell’essere umano – Caffo ne parla in termini di essere “postumano”, sta bene chiamarlo così, conferisce una certa eco nietzscheana che mi piace – è senz’altro quello ambientalista. Tutto sta a capire quale ambientalismo potrà aiutarci a farci meno del male, salvarci mi sembra una parola troppo pomposa, tutto considerato.

Partire dall’etica della responsabilità di Hans Jonas sarebbe un buon inizio, ma ha ragione Caffo nel sottintendere che non ci potrà essere rivoluzione ambientalista se prima non verrà meno il Grande Nemico: il capitalismo. Ecco, questo libricino ha un merito secondo me, quello di recitare bene un “de profundis” per il capitalismo, che tante soddisfazioni ci ha dato (a qualcuno più che ad altri), ma a quale prezzo? Uno che non possiamo permetterci, come ci sta insegnando il Covid-19 o come ci insegnerà il Covid-119, ammesso – e non concesso – che come avremo la possibilità di arrivarci.

A essere onesto, non so quanto gli attori geopolitici del nostro tempo possano essere folgorati sulla via del Covid-19 e acquistare il senno mai avuto, cane mangia cane nella stupida logica realista degli statisti di oggi e di ieri (e spero contro ogni speranza “non” di domani), una autolesionistica logica della sopraffazione. Per quanto mi riguarda, auspico una diversa logica e non si sa mai, può non essere troppo tardi per l’uomo cambiare per davvero, anche se – ad oggi – i cambiamenti prodottisi non sono stati all’altezza della reale gravità del momento; stanno bene politiche di incentivi per chi investe in energie rinnovabili, è un punto di partenza, ma va fatto molto di più. Del resto, consola pensare che il “non-ancora” non equivale a un “giammai”, se non si è intervenuto come si deve fin qui, chi può escludere che non lo si farà una buona volta, dopo che evidente a tutti – pure a quelli più lenti di comprendonio – sarà che ci troviamo spalle al muro?

L’uomo potrà cambiare, ma solo se lo vorrà, sul serio. Finché l’uomo capitalistico agonizzerà rimanendo vivo, dubito che il cambiamento avverrà. Ricordiamoci che non c’è bestia più feroce di quella braccata, che si sente in trappola. E su una cosa sono sicuro, il capitalismo venderà cara la pelle prima di esalare il suo ultimo respiro. Nell’attesa che ciò avvenga (non si pone il problema del “se” ma solo del “quando”), occorre lavorare a un’ipotesi di società alternativa, che non sia utopistica ma percorribile. Gli idealisti teorizzano l’orizzonte ideale, i realisti devono condurci verso di esso ben consapevoli, a differenza dei primi, che non lo raggiungeremo mai. Averlo sempre davanti sarebbe già una vittoria, piuttosto che lasciarselo alle spalle e condannare precocemente – cioè prima del tempo – l’umanità.

Contro il determinismo istituzionale

Prima si capirà l’anima di un popolo, meglio si accetteranno le sue istituzioni senza operare forzature dall’esterno. Occorre dunque per gli italiani – rimanendo all’esempio appena citato – rassegnarsi al fascismo e al maschilismo in politica? A differenza di Le Bon, non mi sento affatto di avvalorare alcun ragionamento deterministico, stando al quale: siccome le cose sono sempre andate in un modo, allora continueranno ad andare così “in saecula saeculorum”. Dico solo, in questo sì fedele all’insegnamento di Le Bon e di Rousseau, che se non c’è un adatto humus culturale per far sì che un’istituzione democratica attecchisca anche laddove vuoi per motivi antropologici vuoi geografici non sembrerebbe possibile, bisogna non fare altro che pazientare e preparare il terreno allo sviluppo della democrazia. Come farlo? Educando le future generazioni. Dunque è questione di cultura e non di natura. Ragion per cui si sbagliava Le Bon e c’è speranza anche per noi italiani.

“Le istituzioni non hanno virtù intrinseche; non sono in sé né buone né cattive. Buone ad un momento dato e per un dato popolo, possono diventare pessime per un altro”, così scrive con grande lungimiranza – a fine Ottocento – Gustave Le Bon (“Psicologia delle folle”, TEA, Milano, 2009, p. 118). Se le istituzioni sono neutre, dunque, potremmo paragonarle a dei vestiti: non ce ne è uno che va bene per tutti. Per questo esportare la democrazia non solo non è possibile, ma è sbagliato in partenza. Ogni popolo deve avere modo di covare e sviluppare le proprie istituzioni senza ingerenze esterne, secondando la propria anima profonda.

Qualcosa del genere l’aveva affermata anche Jean-Jacques Rousseau, sostenitore dell’idea che ogni Paese necessitasse di uno specifico tipo di governo. Le democrazie avevano secondo lui bisogno di condizioni climatiche favorevoli, perlomeno non estreme; mentre per i Paesi con un clima più estremo le tirannie si lasciavano preferire. Quindi per Rousseau, volendo semplificare senza per questo sminuirne il pensiero, ogni Paese ha il sistema di governo che si merita in quanto più gli si confà.

“Un popolo non ha il potere di cambiare realmente le sue istituzioni. Può certo, a prezzo di rivoluzioni violente, modificarne il nome, ma non l’essenza”, a parlare è sempre il profetico Le Bon (“Psicologia delle folle”, p. 118). Devo ammettere che da genitore, ciò mi preoccupa perché è mia ferma convinzione – così com’era prima ancora che “mia” di Piero Gobetti – che il fascismo sia l’autobiografia della mia nazione. In altri termini: da Cesare a Mussolini esiste un nesso che fa sì che noi italiani prediligiamo un leader forte, o che perlomeno appare tale. Qual è il motivo di questo? Credo sia da ricercarsi nel cesaropapismo che ha lasciato tracce indelebili nel nostro dna come popolo.

Se andiamo a vedere la storia italiana più recente, ancora intrecciata con la cronaca dei nostri giorni, il ventennio berlusconiano rientra perfettamente in quest’ottica. Seppure in una forma più caricaturale e macchiettistica (da “Drive In” verrebbe da dire), Berlusconi rispecchia il tipo del governante prediletto dal popolo italiano, che preferisce demandare al salvatore della patria di turno le decisioni sul proprio avvenire, allergico al guazzabuglio democratico. Deriverebbe da questa “autobiografia della nazione” la profonda, sincera antipatia della maggioranza degli italiani verso il parlamentarismo e la classe politica in generale. A tale maggioranza non importa di venire raggirata perché tanto, secondo la comune vulgata: “Sono tutti uguali, tutti corrotti, tutti ladri” (si veda la politica anti-establishment portata avanti con insperato successo dal Movimento 5 Stelle). Tanto vale perciò dare il voto, fra tutti, al più simpatico ed effervescente di questi capipopolo, meglio se puttaniere. Infatti sia per Cesare, sia per Mussolini, arrivando all’ormai rassicurante “nonno d’Italia” Berlusconi la virilità è sempre stata decisiva per cattivarsi e mantenere il consenso degli italici (uso con cognizione di causa “italici” e non “italiani”).

Porre l’accento sulla propria componente virile, però, da solo come motivo non spiega l’ottimo stato di salute politica che gode ancora oggi il Cavaliere, che rispecchia un’altra caratteristica appartenuta anche a Cesare e Mussolini, sto parlando del: trasformismo. Si veda la trasformazione camaleontica perfettamente riuscita a Silvio da: sciupafemmine consumato ad amico dei cagnolini. Che intendo? Andate a vedere una qualsiasi bacheca di Facebook per capire dove voglio andare a parare, vale a dire: dei poveretti che muoiono delle peggiori malattie in conseguenza dell’inquinamento provocato dall’Ilva di Taranto a chi volete che importi (a pochi), mentre tutti sono pronti a levare gli scudi contro quei barbari che prendono a calci i propri amici a quattro zampe. Sia chiaro, chi vi parla adora gli animali, in quanto animale a sua volta, nonché possessore di una splendida quanto ruffiana cagnetta di razza meticcia. Ciò non toglie che questo nostro intenerirci di fronte ai maltrattamenti nei confronti degli animali è inspiegabile se paragonato al nostro atteggiamento pressoché diffuso d’indifferenza verso persone la cui unica colpa è quella di vivere a pochi passi dall’inferno dell’Ilva (questo naturalmente è solo uno degli innumerevoli esempi che si potrebbero portare, l’ho scelto perché mi sembra piuttosto esemplare).

Dal quadro politico dell’Italia degli ultimi anni, emerge un ulteriore aspetto che, di certo, non ci fa onore come italiani: il ruolo ancora oggi marginale della donna nella vita politica del nostro Paese. Una donna di potere – intendendo con esso quello specificatamente “politico” – in Italia sarà sempre malvista, nella migliore delle ipotesi, quando non dileggiata, nella peggiore. Perché? Proprio a causa del dna italico biecamente “maschilista”. Se in molti Paesi al mondo le donne di potere cominciano a essere la norma (la tedesca Angela docet), in Italia c’è ancora molta strada da fare per metterci al passo con i tempi che cambiano, senza che però la mentalità del popolo italiano sia cambiata poi più di tanto. Il “buon” Tommasi di Lampedusa nel suo capolavoro letterario, “Il Gattopardo”, del resto l’aveva predetto: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

Se il carattere è il destino di un uomo, secondo il celebre detto attribuito al filosofo Eraclito, lo stesso vale per il carattere che è il destino di un popolo. “Il destino dei popoli è determinato dal loro carattere e non dai loro governi” recita infatti Le Bon (“Psicologia delle folle”, p. 119). A completamento del suo ragionamento, sempre Le Bon prosegue: “Certi paesi, come gli Stati Uniti, prosperano meravigliosamente con istituzioni democratiche, ed altri, come le repubbliche latino-americane, vegetano nella più pietosa anarchia malgrado abbiano istituzioni simili. Le istituzioni sono altrettanto estranee alla grandezza degli uni quanto alla decadenza degli altri. I popoli restano comunque governati dal loro carattere, e tutte le istituzioni che non fossero intimamente modellate su di esso rappresenterebbero soltanto un abito preso a prestito, un travestimento transitorio” (“Psicologia delle folle”, p. 121).

Prima si capirà l’anima di un popolo, meglio si accetteranno le sue istituzioni senza operare forzature dall’esterno. Occorre dunque per gli italiani – rimanendo all’esempio appena citato – rassegnarsi al fascismo e al maschilismo in politica? A differenza di Le Bon, non mi sento affatto di avvalorare alcun ragionamento deterministico, stando al quale: siccome le cose sono sempre andate in un modo, allora continueranno ad andare così “in saecula saeculorum”. Dico solo, in questo sì fedele all’insegnamento di Le Bon e di Rousseau, che se non c’è un adatto humus culturale per far sì che un’istituzione democratica attecchisca anche laddove vuoi per motivi antropologici vuoi geografici non sembrerebbe possibile, bisogna non fare altro che pazientare e preparare il terreno allo sviluppo della democrazia. Come farlo? Educando le future generazioni. Dunque è questione di cultura e non di natura. Ragion per cui si sbagliava Le Bon e c’è speranza anche per noi italiani.

Certo è che per attuare questo cambiamento di paradigma non conosco altro modo se non potenziare la scuola, che significa: investire sulla formazione della futura classe dirigente. E noi, in Italia, cosa stiamo facendo in proposito? Stiamo andando verso questa direzione? A giudicare dalla scarsa considerazione sociale e conseguente retribuzione di quei professionisti, gli insegnanti, che di tale cambiamento di paradigma dovrebbero essere il motore, non direi proprio. Tuttavia, se questo motore viene ingolfato di continuo dalla troppa “aria fritta” fuoriuscita da una cattiva politica – da tanti slogan e poche idee – capita che s’inceppi e non parta, come sta capitando al motore malmesso del nostro Paese. Motore, questo, che per funzionare bene andrebbe lubrificato come si deve. E qual è il lubrificante che permette a un professore di coltivare i propri studi in modo da risultare più preparato e motivante? Fuor di metafora: sono i soldi questo lubrificante. I soldi – piaccia o no – danno valore a una professione. Se io Stato do pochi soldi a chi dovrebbe educare le future generazioni vuol dire che più di tanto non m’importa del mio futuro come Paese, perlomeno è questo il messaggio che passa. Se un qualsiasi parlamentare guadagna un “tot” per esercitare la sua funzione e un professore invece un “tot” di meno, cosa sto comunicando? Semplice, che credo solo in un presente dilatato che a malapena vede oltre agli egoismi della prossima legislatura. Una politica senza domani, ecco che impressione ho della politica italiana. E non mi vergogno a dire che ciò mi suscita il pessimismo dell’intelletto, che vivaddio controbilancio con il mio inguaribile ottimismo della passione.

Vi lascio con una domanda: che cos’è la politica, la buona politica almeno, se non quell’arte che dovrebbe seminare bene oggi per poter raccogliere i più squisiti frutti domani?

Come s’insegna la storia?

Reputo utile l’esercizio d’insegnamento di una storia “come se” dovessero viverla i ragazzi. Della serie: come vi comportereste se foste dei sanculotti e faceste fatica a procurare un tozzo di pane per i vostri figli? Vi ribellereste? L’assaltereste o no la Bastiglia? Tagliereste o no la testa al re che ha tramato per far saltare le vostre di teste, tessendo una tela di alleanze con le potenze straniere per restaurare l’ancien regime? Oppure se foste dei cittadini della Germania hitleriana, vi opporreste alle politiche razziali o piuttosto le sosterreste con l’azione o l’inazione (che è la stessa cosa, cambia solo la forma di sostegno)?

In occasione del giorno della memoria, vorrei parlarvi di una modalità alternativa d’insegnamento della storia.

A mio avviso, i ragazzi devono capire che bisogna contestualizzare, immedesimarsi nei panni di chi la storia l’ha vissuta sulla sua pelle, da vittima o da carnefice o da entrambe le cose; e non limitarsi a discettare su di essa trattandola come materia inerte, poiché la storia vive e pulsa dentro di noi.

Reputo utile l’esercizio d’insegnamento di una storia “come se” dovessero viverla i ragazzi. Della serie: come vi comportereste se foste dei sanculotti e faceste fatica a procurare un tozzo di pane per i vostri figli? Vi ribellereste? L’assaltereste o no la Bastiglia? Tagliereste o no la testa al re che ha tramato per far saltare le vostre di teste, tessendo una tela di alleanze con le potenze straniere per restaurare l’ancien regime? Oppure se foste dei cittadini della Germania hitleriana, vi opporreste alle politiche razziali o piuttosto le sosterreste con l’azione o l’inazione (che è la stessa cosa, cambia solo la forma di sostegno)?

Ovvio che di puro esercizio speculativo si tratta, ma quanto meno costringe i ragazzi a osservare quel preciso argomento storico da un altro punto di vista, più impegnato e meno distaccato, con una lente d’ingrandimento soggettiva, non più soltanto oggettiva, che poi quello dell’oggettività o imparzialità in storia è un mito. Per questo può rivelarsi una buona idea servirsi dell’ausilio della “cinestoria”, ovvero del cinema al servizio della storia, proponendo alla classe delle scene selezionate di film significativi; scene ricche di pathos, di epicità, di spunti, capaci di riscaldare gli animi facilmente infiammabili degli alunni. Una volta accesa la fiammella dell’interesse, sarà più facile – non automatico, certo – far appassionare alla materia storica il grosso della classe.

Assodato che la capacità di contestualizzare sia una competenza primaria di chi studia la storia, altra competenza fondamentale della disciplina storica è saper attualizzare, che significa comprendere quei nessi che ci portano dalla storia di ieri alla cronaca di oggi. Per esempio: sicurezza e libertà, perché la prima è sulla bocca dei politici di destra e la seconda su quella dei loro colleghi di sinistra? Da dove discendono queste due differenti visioni politiche? Con lo studio della storia i ragazzi impareranno che deriva tutto da Hobbes e Rousseau, due filosofi. E non è un caso se nei licei italiani a insegnare la storia nel secondo biennio e nel quinto anno siano dei professori di filosofia. Questo perché il legame tra storia e filosofia va ben al di là di Hegel e di Ministri dell’Istruzione hegeliani – vedi il fascista nonché idealista Giovanni Gentile –, risale alla notte dei tempi. La filosofia serve a dare un senso agli eventi storici, che altrimenti sarebbero un’insensata elencazione di fatti slegati che mancano di un filo rosso necessario a orientarsi fra di essi.

In definitiva, credo che la filosofia sia la bussola della storia.