La scuola che vorrei

La scuola che vorrei dovrebbe insegnare agli studenti ad agire da persone responsabili, con il coraggio delle proprie idee e la volontà di difenderle.

La scuola che vorrei dovrebbe insegnare agli studenti ad agire da persone responsabili, con il coraggio delle proprie idee e la volontà di difenderle. Ricordo un mio ex studente di una vecchia quinta simpatizzante revisionista, talmente coraggioso e volenteroso nel voler difendere la sua libertà di pensiero che in occasione di un’interrogazione di Storia diede mostra di sé. Aveva studiato come si deve, per cui non mi feci problemi a dargli un otto, valutando il suo grado di preparazione e mettendo tra parentesi il giudizio personale sulla pericolosità delle sue idee. Gli ridarei otto all’infinito, perché quel voto ha rispecchiato il mio giudizio ponderato sul lavoro di studio e documentazione che aveva svolto a casa, lui che nelle precedenti interrogazioni non era mai andato oltre a uno stiracchiato sei e mezzo. Questo per dire che ho premiato e sempre premierò chi sarà disposto a metterci la faccia, anche se non la penserà come, perché dimostrerà maturità, che è la qualità che un professore apprezza di gran lunga in uno studente. Non a caso l’esame di fine ciclo di studi si chiama proprio: “Maturità”.

Chi critica perché vede frustrata la propria aspettativa di voto, ha capito poco le finalità della scuola. Non sono così ipocrita da dire che il voto è l’ultima cosa, di certo però non è l’aspetto principale e più importante dell’essere studenti. Di solito tendono ad avere voti più alti proprio quegli studenti che capiscono questo, mentre si trovano più in difficoltà quelli che stentano ad accettare una valutazione magari non soddisfacente ma data senza pregiudizi, con imparzialità, rigore e la massima onestà intellettuale. “Non riesco a capire perché ho preso questo voto, che certamente non mi merito”, quante volte e quanti studenti avranno pensato qualcosa del genere? Tante volte e tanti studenti, io credo. Be’, sono nel torto e sono lontani dal capire perché devono imparare a crescere, a essere più maturi per arrivare finalmente a comprendere che un sette sudato può fare notevolmente più bene di un otto gonfiato.

Sono i voti più sofferti che preparano a quello che c’è fuori dalla scuola: una società cannibale in cui essere bravi a volte non basta e per questo occorre farsi il mazzo per meritarsi il lavoro dei propri sogni. La scuola non è una preparazione alla vita, è già vita, per parafrasare John Dewey, filosofo dell’educazione americano. Per questo l’atteggiamento migliore è lagnarsi di meno e rimboccarsi di più le maniche. I professori sono i vostri migliori alleati degli studenti, sono quelli che li accompagnano in quel processo di crescita che potrà portarli a realizzare ciò che si prefiggono, prima lo capiranno e meglio affronteranno le difficoltà della scuola, che non sono insormontabili ma ampiamente alla portata, solo che ci vuole impegno, ci vuole partecipazione attiva, ci vuole senso di responsabilità, ci vuole soprattutto volontà di migliorarsi accettando i consigli di chi ha più preparazione ed esperienza. Insomma, una storia vecchia come il mondo.

Cosa occorre per fare di uno studente un buon cittadino?

Questa società di rado ci abitua a pensare che è colpa nostra, bensì che è molto più conveniente incolpare gli altri in quanto facili capri espiatori; scarico di responsabilità che – spesso – affonda le radici nelle famiglie; gli zii dicono che la colpa è dei nonni, i nonni sostengono che è dei genitori, i genitori che è dei professori. Insomma, è tutto un patetico scarica-barile, che non aiuta per niente i ragazzi; loro soltanto è il merito o il demerito dei risultati ottenuti.

Sapete cos’è la sindrome del “docente amico”? Quell’atteggiamento proprio di quei professori che tendono a credere meglio alle lamentele degli studenti piuttosto che alla buona fede dei colleghi. Ecco, se devo essere onesto, a me non piace. Con questo non voglio dire che fra colleghi bisogna avere uno smisurato spirito di corpo che ti porti a dare la ragione a qualcuno solo perché fa il tuo stesso mestiere, questo no di certo; oltretutto, una simile solidarietà a prescindere dalle singole casistiche è più da stupidi che da persone intelligenti.
Nei limiti di una tranquilla e pacata conversazione, in passato mi è capitato di dissentire con l’operato di qualche collega. Malgrado ciò, le mie idee differenti gliele ho sempre dette in faccia, perché confido di avere innumerevoli difetti tranne quello di essere una persona sleale. A conti fatti, per quel che ho potuto constatare dalla mia esperienza d’insegnamento: hanno più ragione i colleghi degli studenti.
Dopo un’attenta analisi, la maggior parte delle critiche degli studenti – mi guardo bene dal dire la totalità – si rivelano “strumentali”. Un esempio a scelta: il voto non soddisfacente che suscita immotivata indignazione nello studente. Perché “immotivata”? Questa società di rado ci abitua a pensare che è colpa nostra, bensì che è molto più conveniente incolpare gli altri in quanto facili capri espiatori; scarico di responsabilità che – spesso – affonda le radici nelle famiglie; gli zii dicono che la colpa è dei nonni, i nonni sostengono che è dei genitori, i genitori che è dei professori. Insomma, è tutto un patetico scarica-barile, che non aiuta per niente i ragazzi; loro soltanto è il merito o il demerito dei risultati ottenuti.
Attribuirsi la responsabilità di qualche mancanza è sintomo di maturità. Poi è lecito domandarsi: ma come possono i figli essere maturi se i loro genitori non lo sono? Sapete qual è il colmo per un professore? Quando ti accorgi di avere davanti un genitore più immaturo del figlio, in occasione dei colloqui con le famiglie. A quel punto ti capita di rivalutare quel ragazzo, guardarlo sotto un’altra lente d’ingrandimento e capirlo anche meglio, non dico giustificarlo perché per me rimane comunque – in minima o maggiore parte – responsabile del proprio operato.
In generale, devo confessare che non sopporto le falsità che si dicono pur di non prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Contro il vizio della menzogna, credo che noi docenti dovremmo essere instancabili nel rimarcare il valore imprescindibile dell’onestà. Rimango dell’idea che la Scuola debba essere un’agenzia educativa, seconda solo alla famiglia; quest’ultima ha ovviamente più importanza perché è lì che in teoria – dico “in teoria” perché ci sono famiglie e famiglie – i ragazzi trascorrono la maggior parte del tempo e si formano diventando ogni giorno un po’ più grandi. A tal proposito, credo che più tardi si cominci a fare leva sul senso di onestà, di responsabilità degli alunni e meno possibilità questi ultimi avranno di sviluppare tali doti.
Onestà e responsabilità, ecco cosa occorre per fare di uno studente un buon cittadino.

Il tranello della condiscendenza

Noi docenti abbiamo pregi e difetti come tutti, ne dovremmo essere consapevoli noi per primi. Tuttavia, credo che se non si è un minimo consapevoli dei propri mezzi, delle proprie capacità, non si possa fare il mestiere che facciamo ogni giorno districandoci fra i banchi delle aule scolastiche e cercando in tutti i modi di suscitare l’interesse di un uditorio difficile come quello di ragazzi nel pieno dell’età dello sviluppo, con le loro naturali turbolenze, le loro inevitabili distrazioni e i loro comprensibili sbalzi d’umore.

D’inclinazione sono per fare poche cose ma fatte bene. Poi, certo, nessuno è perfetto, non credo esista il docente che ha tutte le qualità di questo mondo. Siamo persone e non ologrammi collegati a qualche cloud da cui attingere un numero illimitato di informazioni; ologrammi che da qui a qualche anno – stando a recenti sperimentazioni – magari prenderanno il posto di noi professori in carne e ossa, che siamo molto più fallibili e con molti più difetti. Gli studenti faranno le domande agli ologrammi e riceveranno in cambio una freddezza artificiale ma – in compenso – un’esattezza millimetrica nelle risposte.

Noi docenti abbiamo pregi e difetti come tutti, ne dovremmo essere consapevoli noi per primi. Tuttavia, credo che se non si è un minimo consapevoli dei propri mezzi, delle proprie capacità, non si possa fare il mestiere che facciamo ogni giorno districandoci fra i banchi delle aule scolastiche e cercando in tutti i modi di suscitare l’interesse di un uditorio difficile come quello di ragazzi nel pieno dell’età dello sviluppo, con le loro naturali turbolenze, le loro inevitabili distrazioni e i loro comprensibili sbalzi d’umore.

Credo di avere consapevolezza della importanza della professione che svolgo; “consapevolezza”, questa, che non va confusa con la pericolosa e sbagliata presunzione. Ai miei studenti offro competenza – oltre al massimo dello sforzo – ma non concedo “sempre” compiacimento, tantomeno la spalla su cui piangere, non mi comporto con loro da “migliore amico”, questo mai. Posso essere con loro disponibile, cordiale nei loro confronti, a seconda del grado di restituzione di disponibilità e cordialità che ricevo (tutta una questione di “do ut des”). Posso sdrammatizzare con loro per allentare la tensione (perché in fondo nella vita non è salutare prendersi sempre sul serio e a volte occorre dimostrare autoironia), ma non chiedetemi di confondere i ruoli che devono essere chiari vuoi a me, loro “professore”, vuoi a loro, miei “studenti”.

Se devo essere onesto trovo fastidiosi quei genitori post-sessantottini che si comportano coi loro figli da “migliori amici”. Un genitore non potrà mai essere il “migliore amico” del proprio figlio, occorre chiarezza dei ruoli: i figli devono fare “i figli” e i genitori devono fare “i genitori”. Ovvero? I figli dare preoccupazioni ai genitori e questi ultimi dare l’esempio ai primi. Ecco, i nostri ragazzi – lo dico da genitore prima che professore – hanno bisogno di esempi possibilmente “buoni”. Il problema è che il “buon esempio” sta diventando sempre più merce rara. E pensare che un solo “buon esempio” di un professore a uno studente, oppure di un genitore a un figlio, vale più di mille professori o genitori cosiddetti “migliori amici”.

In conclusione, venire incontro alle esigenze degli studenti entro certi “ragionevoli” limiti credo sia sacrosanto, essere però troppo accomodante nei loro riguardi non credo faccia il loro bene. E, siccome voglio fare del mio meglio per aiutarli a diventare ogni giorno studenti e persone più capaci, m’impegno a non cadere nel tranello della condiscendenza.