Saper parlare alle folle

Come conquistare il favore delle folle? Con discorsi semplici e il più possibile riconducibili a immagini. Le idee che arrivano alle folle sono solo la pallida eco di quelle che erano in origine. Per poter fare proprie delle idee, le folle hanno bisogno di semplificarle. Le idee complesse non scalfiscono la loro dura corazza.

Come conquistare il favore delle folle? Con discorsi semplici e il più possibile riconducibili a immagini. Le idee che arrivano alle folle sono solo la pallida eco di quelle che erano in origine. Per poter fare proprie delle idee, le folle hanno bisogno di semplificarle. Le idee complesse non scalfiscono la loro dura corazza.

Un oratore è innanzitutto un seduttore, motivo per cui ha maggiori chances di sedurre una folla, che non aspetta altro che qualcuno capace di conquistarla, “qualcuno” che sa bene quali tasti toccare e quali no invece.

“[…] quando le folle, per effetto di sconvolgimenti politici e mutamenti di fede, finiscono col professare un’antipatia profonda per le immagini evocate da certe parole, il primo dovere di un autentico uomo di Stato è quello di cambiare tali parole, senza, beninteso, mutare nulla nella sostanza. Questa infatti è troppo legata alla costituzione ereditaria per poter essere trasformata. Il giudizioso Tocqueville fa notare che il compito del Consolato e dell’Impero fu soprattutto quello di rivestire con parole nuove la maggior parte delle istituzioni del passato, sostituendo termini che suscitavano immagini sgradevoli con altri che, per la loro novità, non le suscitavano più. La taglia diventò pertanto contributo fondario; la gabella, imposta sul sale; gli aiuti, contributi indiretti e diretti; la tassa di dominio si chiamò patente, e così via” (LE BON, G., “Psychologie des foules”, 1895, trad. it. “Psicologia delle folle”, Tea edizioni, Milano, 2004, pp. 139-140).

Quale ammaestramento ricavarne? Cambiano le parole ma non cambia nulla, “de facto”. Il politico intelligente, per non dire furbo, più che altro è un ribattezzatore. Ribattezza e con ciò legittima vecchie politiche coniando nomi nuovi, che le rendono più gradite. La loro grande abilità è quella di saper riscaldare le minestre, veri intenditori di ribollite.

Come impostare un discorso pubblico vincente? “L’oratore che segue il suo pensiero e non quello degli ascoltatori perde, per questo solo fatto, ogni efficacia” (p. 146).

È piuttosto assodato che il bravo oratore sa parlare a braccio, così facendo riesce a essere più coinvolgente del pedante che legge il suo discorsetto preparato a tavolino, limitandosi a enfatizzare con la voce i passaggi più importanti e talvolta neanche quello. Per questo, in un discorso pubblico, è bene appuntarsi quanto di stimolante sollevato dall’uditorio, per avere dei validi appigli da cui partire per ribattere con efficacia punto su punto quelle tesi che contrastino la propria. L’oratore che non fa questo ha già perso in partenza la sfida oratoria. Casomai si dovesse intervenire subito, a freddo, senza avere testato in via preliminare la platea con domande “ad hoc” di scandaglio, meglio restare cauti, sul vago e affondare i propri colpi con pazienza, dopo avere ascoltato le ragioni altrui. Un discorso pubblico vincente – di solito – è un’estenuante prova di resistenza, una “maratona” mi verrebbe da dire, in cui i fuochi d’artificio dialettici è meglio tenerseli per il gran finale. Mentre, per la “captatio benevolentiae”, non guasterebbe cominciare una seduta oratoria con una battuta per dimostrare – sin da subito – acume e simpatia. Doti, queste, di cui un buon oratore non può essere privo.

Buoni propositi per il nuovo anno scolastico (e lotta senza quartiere alla sterile conoscenza specialistica)

Dunque, responsabilizzare e accrescere il livello di consapevolezza dei miei studenti sono due dei miei buoni propositi per il nuovo anno scolastico che sta per cominciare. Formare un individuo consapevole significa crescere un cittadino responsabile. Più cittadini responsabili avremo in futuro e maggiori possibilità ci saranno per noi tutti di avere un “futuro” come specie umana.

Nei limiti di quanto un essere umano può predicare bene e cercare di razzolare altrettanto “bene” – nessuno è perfetto e credere che qualcuno possa esserlo è follia – cerco di essere coerente coi miei principi didattici. Uno di questi mi impone di battermi sempre affinché i miei ragazzi non solo studino, ma pure capiscano l’importanza di ciò che studiano. A costo di ripetermi fino alla nausea, non mi stancherò mai di dire loro di dare la giusta – e non eccessiva – importanza alle valutazioni che ricevono. Un voto è e rimane “solo” un voto; quello più importante ciascuno se lo deve meritare ogni giorno per il livello d’impegno profuso sia in ambito lavorativo sia in quello dei rapporti interpersonali.
Motivo per cui – soprattutto con alcuni ragazzi di quinta – a volte mi piace provare a farli ragionare sul voto che si darebbero per la prestazione offerta; badate bene, voto che io ho già trascritto nel registro e che non modificherei per nessun motivo dato che è stato assai meditato, talvolta sofferto. Devo dire che quando tento questo “esperimento”, nella stragrande maggioranza dei casi i ragazzi indovinano, dimostrando di avere avuto la percezione della prestazione offerta. Quando ciò avviene mi rallegro del livello di responsabilizzazione raggiunto dai miei studenti. Ciò è per me motivo di grande soddisfazione in quanto credo – e spero – significhi che ho incoraggiato la “consapevolezza” nella maggior parte di loro. Poi, sarà perché sono esigente “in primis”con me stesso, auspico che questa “maggior parte dei miei studenti” diventi ogni anno “maggiore”.
Dunque, responsabilizzare e accrescere il livello di consapevolezza dei miei studenti sono due dei miei buoni propositi per il nuovo anno scolastico che sta per cominciare. Formare un individuo consapevole significa crescere un cittadino responsabile. Più cittadini responsabili avremo in futuro e maggiori possibilità ci saranno per noi tutti di avere un “futuro” come specie umana. È incredibile quanto noi “umani” siamo l’unica “specie” animale a rischio di auto-estinzione. Ipotesi, quest’ultima, scongiurabile solo cominciando a lavorare sulle future leve che solleveranno questo nostro mondo incerottato, che dio solo sa quanto ha bisogno di vedere aumentare il numero di intelligenze umanistiche capaci di andare oltre la troppo diffusa – oggi – e sterile conoscenza specialistica. A quest’ultima non ho paura di dichiarare: lotta senza quartiere.

La natura istintiva e sentimentale delle folle

Anche se una folla è composta da persone intelligenti o equilibrate è più che capace di comportamenti stupidi, per non dire folli.

Il problema fondamentale delle folle? Esse “[…] sono ignare della ragione e mosse soltanto dal sentimento” (LE BON, G., “Psychologie des foules”, 1895, trad. it. “Psicologia delle folle”, Tea edizioni, Milano, 2004, p. 188), ci dice Le Bon.

Anche se una folla è composta da persone intelligenti o equilibrate è più che capace di comportamenti stupidi, per non dire folli. Questo perché: “Nell’anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini, e di conseguenza le loro individualità, si annullano. L’eterogeneo si dissolve nell’omogeneo e i caratteri inconsci predominano” (p. 52).

Che insegnamento trarne? Quando si sta raggruppati in una folla, la diversa estrazione sociale conta meno di zero.

“Annullamento della personalità cosciente, predominio della personalità inconscia, orientamento determinato dalla suggestione e dal contagio dei sentimenti e delle idee in un unico senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite, tali sono i principali caratteri dell’individuo in una folla. Egli non è più se stesso, ma un automa, incapace di esser guidato dalla propria volontà” (p. 55).

Parole sante…

Ricordo la prima volta che andai a vedere una partita di calcio allo stadio, con mio padre. Avevo sei anni e durante il primo tempo rimasi terrorizzato osservando i comportamenti scalmanati di un gruppo di ultras, che mi sedevano intorno. Nel secondo parziale, non solo mi passò lo spavento, ma mi unii a quello che sempre più mi sembrava un delirare tanto insensato quanto divertente. Perché? All’inizio ero solo un bambino di sei anni spaurito, poi divenni parte di quella folla oceanica.

“Poiché la folla è impressionata soltanto da sentimenti impetuosi, l’oratore che vuole sedurla deve abusare di dichiarazioni violente. Esagerare, affermare, ripetere e mai tentare di dimostrare alcunché con il ragionamento sono espedienti familiari agli oratori nelle riunioni popolari” (p. 76).

Della serie: se proprio devi spararla, tanto vale che la spari grossa. Quest’argomentazione di Le Bon mi ricorda tanto le parole di Goebbels: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.

L’effimero prestigio

Questo brano di Le Bon mi fa venire in mente il mondo del calcio. Se a segnare un gol su punizione è Dybala, il tiro sarà sempre considerato dal telecronista di turno una pennellata d’autore anche se dovesse trattarsi di un tiraccio fatto con la suola della scarpa. Se a siglare un gol sempre su punizione con un tiro – in effetti – meraviglioso è un giocatore qualsiasi, invece, magari di una squadra provinciale, per lo stesso telecronista si sarà trattato di un errore di piazzamento del portiere, nella peggiore delle ipotesi, o tutt’al più di un bel tiro anche se casuale, nella migliore.

Che cos’è il prestigio? Sembra avere le idee chiare in proposito Gustave Le Bon: “Per un lettore moderno, l’opera di Omero è fonte di incontestabile e immensa noia; ma chi oserebbe dirlo? Il Partenone, nel suo stato attuale, è un rudere abbastanza privo di interesse; ma ha un tale prestigio che si finisce col vederlo attraverso il velo di tutti i ricordi storici. La caratteristica del prestigio è quella di impedirci di vedere le cose quali sono, di paralizzare i nostri giudizi. Le folle sempre, e gli individui molto spesso, hanno bisogno di opinioni già fatte. Il successo delle opinioni è indipendente della parte di verità o di errore che contengono; poggia unicamente sul loro prestigio” (LE BON, G., “Psychologie des foules”, 1895, trad. it. “Psicologia delle folle”, Tea edizioni, Milano, 2004, p. 167).

Questo brano di Le Bon mi fa venire in mente il mondo del calcio. Se a segnare un gol su punizione è Dybala, il tiro sarà sempre considerato dal telecronista di turno una pennellata d’autore anche se dovesse trattarsi di un tiraccio fatto con la suola della scarpa. Se a siglare un gol sempre su punizione con un tiro – in effetti – meraviglioso è un giocatore qualsiasi, invece, magari di una squadra provinciale, per lo stesso telecronista si sarà trattato di un errore di piazzamento del portiere, nella peggiore delle ipotesi, o tutt’al più di un bel tiro anche se casuale, nella migliore. Lo stesso dicasi per una parata decisiva. Un conto è se la fa Buffon, in tal caso sempre per il “suggestionato” telecronista sarà stata una paratona o addirittura, scomodando un linguaggio biblico a dir poco blasfemo, un “miracolo”. Mentre se a fare la stessa parata è un anonimo portiere di chissà quale squadretta, al massimo gli si può tributare il merito di avere fatto una “onesta” parata. Le definisco: stravaganze del prestigio.

Certo, un calciatore fuoriclasse accumula “prestigio”, di giocata in giocata. Ciononostante, sono persuaso che, con un pizzico di spirito critico in più, si possa arrivare ad ammettere – in tutta onestà – che un gesto tecnico può essere bello, persino degno dell’appellativo di “capolavoro”, indipendentemente da chi lo compie. Perché, non so a voi, ma a me nessuno può farmi il lavaggio del cervello convincendomi che l’ultimo e più brutto dei tiri di Messi, in virtù del maggiore prestigio dell’autore, va considerato migliore – a prescindere – del più incredibile dei gol da centrocampo di un Giaccherini qualsiasi.

In definitiva, credo che il prestigio occorra sudarselo, giorno per giorno, e che non sia soltanto questione di palmares. È questo il bello dello sport, così come della vita: dimostrare sul campo che si merita la vittoria più dell’avversario, così come ogni giorno di essere più forte delle avversità.

Insipido quanto inefficace conservatorismo

Prima della Rivoluzione francese le persone morivano lo stesso a sciami per i più futili motivi e le folle – come entità storicamente costituita – non esistevano ancora. Motivo per cui incolpare di tutti i mali del mondo la Rivoluzione francese e fingersi ciechi per non vedere il grande balzo in avanti fatto fare dalla stessa all’umanità in materia di diritti significa: essere stolti o semplicemente conservatori, il che è lo stesso. Pretendere di conservare le vecchie parrucche così come le vecchie abitudini cos’è infatti se non cieca stoltezza? Il progresso inteso come cambiamento continuo rinvia all’eracliteo fiume dove bagnandosi ogni volta non ci si bagna mai nella medesima acqua e come si potrebbe vista l’incessante mutevolezza delle cose?

Il sottotitolo della “Psicologia delle folle” potrebbe essere “Critica distruttiva della Rivoluzione francese”, non a caso G. Le Bon – l’autore – così si esprime: “Per scoprire che non si può riformare una società da cima a fondo seguendo i dettami della ragione pura, fu necessario massacrare molti milioni di uomini e sconvolgere l’intera Europa per vent’anni” (p. 145). Facile ribattere: senza la stessa, a quest’ora saremmo dei sudditi in balia dei capricci di reucci più o meno illuminati, purtroppo – il più delle volte – “meno” che “più”.

È vero, la violenza delle folle rivoluzionarie si è rivelata spaventosa finanche raccapricciante, ma non addebiterei i morti ammazzati alla follia delle folle, semmai dell’uomo in quanto strano animale sadomasochista, dominato cioè da una componente autodistruttiva che la psicanalisi freudiana ha ribattezzato spirito “thanatico”, da Thanatos personificazione maschile della Morte secondo i Greci; lo stesso spirito può essere detto anche “nichilistico”, a dimostrazione di quanto cambiando una parola non cambi però la sostanza della stessa.

Prima della Rivoluzione francese le persone morivano lo stesso a sciami per i più futili motivi e le folle – come entità storicamente costituita – non esistevano ancora. Motivo per cui incolpare di tutti i mali del mondo la Rivoluzione francese e fingersi ciechi per non vedere il grande balzo in avanti fatto fare dalla stessa all’umanità in materia di diritti significa: essere stolti o semplicemente conservatori, il che è lo stesso. Pretendere di conservare le vecchie parrucche così come le vecchie abitudini cos’è infatti se non cieca stoltezza? Il progresso inteso come cambiamento continuo rinvia all’eracliteo fiume dove bagnandosi ogni volta non ci si bagna mai nella medesima acqua e come si potrebbe vista l’incessante mutevolezza delle cose?

La biologia è la più grande amica del pensiero di Eraclito: si nasce, si cresce, s’invecchia, si muore. Con buona pace di Parmenide e di chi come lui s’immagina l’essere come fissità, l’essere è transeunte, ovvero: per adesso è, fra poco… staremo a vedere. Questo per dire che non ci è dato scegliere se accettare oppure no il cambiamento, così come non si può decidere se vivere o morire poiché vivere sottintende anche morire e, in quest’ottica, vivere è pure cambiare, passare cioè da uno stato dell’essere a un altro fino all’inevitabile epilogo. Perché? Morire non è che un passaggio da uno stato della materia a un altro, dall’essere viventi all’essere parte del tutto, seppure accontentandosi della condizione di polvere cosmica, ovvero polvere siamo e, come c’insegna la Bibbia, polvere torneremo a essere, questa è la nostra essenza da brividi, al solo pensarci. Si veda anche il ciclo buddistico di morti e rinascite tanto simile al principio della termodinamica: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Niente muore davvero e se lo dice anche la scienza… crediamogli. Non per questo, però, ci dobbiamo sentire più consolati a diventare qualcos’altro e, quindi, continuare a perdurare come materia cosmica; giacché, tornando allo stato essenziale di polvere, non è che ci si può continuare a considerare vivi…

Così come l’uomo biologicamente diviene altro, le idee che da lui scaturiscono non possono essere da meno. Perciò cambiano anche se poi – come ha ben intuito Le Bon e anche Tomasi di Lampedusa – non cambiano mai per davvero. Cambiano il nome, non il significato. Un barlume di consolazione lo si può ricavare dal tentativo di progredire effettuato dalla strana creatura umana, che, pur mirando al meglio tante volte, sono più le volte che fa cilecca e compie il peggio. Le rivoluzioni sono imperfette, così come le religioni, idem qualunque altra invenzione umana, perché l’uomo non è perfetto, perfettibile però sì, quantomeno ci prova, bisogna riconoscerglielo.

La Rivoluzione francese aspramente criticata da Le Bon, non differisce di una virgola da questa logica incentrata sull’errore e sull’errare caratterizzante l’animale uomo. Nelle sue mille imperfezioni e crudeltà – la ghigliottina e la guerra su tutte – gli eventi del 1789 e successivi hanno portato a cambiamenti significativi nella vita delle persone, tutt’altro che negativi. Il più significativo dei quali è avere reso gli individui: più adulti, padroni nel bene e nel male del loro destino politico più di quanto non lo fossero nell’ancien régime, dei cittadini pensanti e non soltanto dei sudditi adoranti, con dei diritti e – non dimentichiamolo – dei doveri ben precisi.

Nell’analizzare l’opera di Le Bon occorre secondo me salvare la bontà di alcune intuizioni sul funzionamento psicologico delle folle – la storia purtroppo gli ha dato ampiamente ragione – e buttare a mare certe considerazioni propagandistiche in chiave antiprogressista, sintomo di un insipido quanto inefficace conservatorismo.

Il problema della “volontà di potenza”

[…] ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche.

Diventare ciò che si è” significa nietzscheanamente realizzare la propria “volontà di potenza”, oltrepassare il ponte che dall’uomo proietta al Superuomo, ovvero divenendo a tutti gli effetti: il dio di se stesso. E se ognuno è il proprio dio, non c’è bisogno del Dio nei cieli e per ogni uomo c’è una morale propria che gli si addice. Per questo Nietzsche apre la breccia al relativismo dei valori della nostra epoca, da alcuni ritenuto una liberazione, gli anticristiani che vedono nietzscheanamente nel cristianesimo l’origine di tutti i mali dell’uomo, e da altri invece un’aberrazione, i cristiani o coloro che sono idealmente vicini alle istanze cristiane. A chi vada la ragione è da vedere, anche se, abbracciando una visione relativistica dell’esistenza, si potrebbe dire che la ragione vada sia agli uni sia agli altri, in quanto con alcuni funziona di più una certa visione del mondo, mentre con altri un’altra, è relativo appunto, dipende dal singolo. Motivo per cui ritengo la filosofia nietzscheana un pensiero a uso e consumo del singolo, non delle masse.
La storia ci ha insegnato che quando si è tentato sciaguratamente di applicare il pensiero nietzscheano alle masse ne sono emersi tutti i punti negativi, che in fin dei conti sono riscontrabili in tutte le filosofie. Il nazismo dunque ha strumentalizzato per i suoi fini distorti Nietzsche. Badate bene, non voglio dire che lo abbia snaturato. Di certo qualcosa della filosofia nietzscheana è compatibile con la perversione nazista (soprattutto per quanto concerne il concetto di “volonta di potenza” mi vien da dire), però credo ci sia fra le righe una parte del pensiero nietzscheano che si possa e si debba salvare. A cosa mi riferisco? Alla valenza che esso ha per il singolo individuo, lo stimolo vitalistico che le parole di Nietzsche riescono a infondere nel lettore non del tutto sprovveduto, ovvero quello capace di farsi ispirare dal genio “sano” e perdonare il folle “malato”. Sanità e malattia sono infatti due categorie imprescindibili che si devono tenere in debito conto se si vuole meglio comprendere, cioè abbracciare, la complessità nietzscheana.
In ultima analisi, ciò che dico è molto semplice: c’è un Nietzsche “sano” che credo vada tutelato come patrimonio dell’umanità e un Nietzsche “malsano” che ritengo vada compatito. Perché? Non so voi, ma io ho un rispetto enorme per le persone che soffrono sia a livello fisico sia psichico e Nietzsche credo si possa ragionevolmente dire che abbia sofferto abbastanza nella sua vita. Ragion per cui se in alcune delle sue pagine a prevalere è più il livore della genialità, da uomo a uomo, non mi sento – in tutta franchezza – di fargliene una colpa.

Pensare con la propria testa

Quindi, in definitiva, che senso ha studiare filosofia? Ne ha molto. Direi che, dal momento che “vivere bene” dovrebbe interessare tutti, allo stesso modo la filosofia “dovrebbe” interessare tutti. Vero è però che non è per tutti, perché non tutti sono disposti a compiere lo sforzo – perché tale è – di pensare con la loro testa e si accontentano che altri pensino per loro.

Una studentessa una volta mi ha chiesto: “Prof, qual è il suo filosofo preferito?”. Con il rischio di venire frainteso, ho risposto con estrema sincerità, in coscienza, senza ipocrisie: “Me stesso!”. Ora, di difetti ne ho tanti, ma essere presuntuoso… non è fra questi. Anche se tutti i presuntuosi dicono di non esserlo, ragion per cui non mi sento di biasimare coloro che decideranno di non credermi. A ogni modo, ci si creda oppure no, perché ho voluto dare una risposta così volutamente provocatoria?
Tutti dicono di essere platonici, aristotelici, hegeliani, marxisti. Io invece posso solo dirvi che mi ispiro a tutti e a nessuno. Nel senso che adoro il mondo delle idee di Platone, ma non sopporto il suo essere monarchico. Sul piano politico sono più vicino al democratico Aristotele, di cui però non tollero la mentalità schematica, come se si potesse dare conto dell’illogicità della vita in un schemino logico preconfezionato. Sono con Hegel quando mi serve su un piatto d’argento la dialettica servo-padrone, contro di lui quando però dimostra di non avere il coraggio necessario a trarre le conseguenze del suo pensiero e rinuncia a rovesciare uno status quo iniquo solo per non contraddire il suo assioma fondamentale: il reale è razionale e viceversa. Il reale, se fa schifo, non è razionale. E un uomo che si spaccia per razionale non può starsene con le mani in mano e ha il dovere morale-intellettuale di reagire a una deprecabile situazione di stasi, allorché la ritenga effettivamente “deprecabile.
Che dire poi del portentoso lottatore Marx, che, a differenza del suo maestro Hegel, vuole eccome trasformare un ingiusto status quo” in qualcosa di meglio, preconizzando il riscatto degli oppressi a discapito degli oppressori. Sono con lui nel simpatizzare con gli ultimi della Terra, ma credo che come tutte le utopie la sua pecchi di non fare i debiti conti con la natura irrimediabilmente conservatrice ed egoista dell’essere umano. In fondo Hobbes non aveva tutti i torti nel definire l’uomo lupo per l’altro uomo, il celebre “homo homini lupus”…
Il discorso potrebbe continuare con decine di altri filosofi presi a prestito dalla storia di questa strana disciplina – più un’arte che una scienza secondo me – che è la filosofia. Il senso però mi sembra chiaro, anche se lo specifico tante le volte non lo fosse: ognuno deve diventare il miglior filosofo di se stesso, il che significa che deve prendere ciò che ritiene buono del pensiero degli altri e buttare a mare quello che degli altri pensatori ritiene buono solo per i pesci. Solo così si può continuare a fare una filosofia “forte” in barba a chi la vorrebbe “debole”.
A ben pensarci, non credo che esistano filosofie deboli, tutt’al più filosofi deboli. In filosofia tutto è stato detto, ma può e deve essere ridetto… meglio! Non mi stancherò mai di ripetere ai miei studenti che: filosofare – cioè pensare – è essenzialmente ripensare. Tutto ciò che stiamo pensando noi in questo momento è stato pensato anche da altri, che sono venuti prima di noi. In un certo senso, tutti i temi essenziali della filosofia sono stati abbozzati da Platone. A noi non resta che portare avanti il testimone, come si fa in una staffetta. Immaginatevi l’intera storia della filosofia come una corsa a staffetta dove ciascuno di noi può fare soltanto un tragitto relativamente breve e poi deve passare il testimone ad altri, che dovranno fare il loro per poi consegnarlo a loro volta e così via finché ci saranno persone disposte non solo a vivere e basta, ma anche a pensare “come” poter vivere meglio. E “come” si può farlo ce lo dice Platone riportando gli insegnamenti del suo maestro, Socrate, che aveva giurato fedeltà a un solo imperativo: conosci te stesso! Perché solo chi si conosce, sa cosa è meglio per sé e trova il modo di vivere bene. Il problema – non da poco – rimane imparare a conoscersi. Molti sono morti prima di essere riusciti a conoscere, che so, il dieci per cento di loro stessi. Forse è addirittura impossibile conoscersi fino in fondo. Conoscersi meglio però si può e si deve. Conoscere gli altri, invece, non voglio dire che sia impossibile, ma ci vorrebbe il miglior Tom Cruise del primo “Mission Impossible” e non quello più spento visto nei troppi sequel per tentare l’ardimentosa impresa.
Quindi, in definitiva, che senso ha studiare filosofia? Ne ha molto. Direi che, dal momento che “vivere bene” dovrebbe interessare tutti, allo stesso modo la filosofia “dovrebbe” interessare tutti. Vero è però che non è per tutti, perché non tutti sono disposti a compiere lo sforzo – perché tale è – di pensare con la loro testa e si accontentano che altri pensino per loro. Altro che empietà e corruzione delle giovani menti, Socrate è stato condannato dai Trenta Tiranni di Atene perché insegnava alla gente a pensare con la loro testa. E se ci pensate, non c’è cosa più pericolosa di questa per i tiranni, che, per controllarci meglio, vorrebbero che noi pensassimo come loro vogliono, non come vogliamo noi.

Filosofia e politica

Temo che, poiché insegna a pensare con la propria testa, la filosofia darà sempre fastidio al potente e al prepotente di turno.

Avrei potuto intitolare questo post anche: “Le ragioni per cui nessun partito ha ragione”. Il proprio partito ha sempre ragione? È stupido anche solo supporlo, figuriamoci pensarlo. Chi è solito ragionare con la propria testa, non è solito iscriversi a partiti politici, a meno che non abbia delle ambizioni. Cosa legittima, purché si capisca che una volta scesi in campo si dovrà per forza o per amore fare i conti con la spietata logica partitica. Gustave Le Bon (lo scopritore della “psicologia delle folle) non ha dubbi: in gruppo si è più stupidi. Tesi che appoggio in pieno.
In breve, non è detto che la ragione del partito – non importa quale – sia più ragionevole, più giusta di quella del singolo. Spesso accade il contrario: tante teste, tanta confusione. Se fossimo tutti uguali o la pensassimo tutti allo stesso modo, che noia sarebbe il mondo? Mi devo scusare, ma un po’ come Unamuno anche io appartengo a un partito il cui unico iscritto sono io soltanto e a volte penso che siamo pure in troppi.
Come mi capita di dire sempre ai miei ragazzi a lezione: “Il mio compito con voi non è fare politica, ma è fare in modo che impariate a pensare con la vostra testa così da impedire ai politici di raggirarvi”. Ecco, tutt’al più è filosofia politica. Nulla di originale, dal momento che c’è già chi ci ha provato e ha pure fatto una brutta fine. Lo hanno prima processato, poi condannato all’esilio e quel folle – follia filosofica fu la sua – se le è fatta commutare in condanna a morte, rifiutando l’esilio dalla sua amata città, le cui leggi aveva sempre amato e rispettato.
Se proprio quelle stesse leggi, tanto amate e rispettate da lui – a questo punto tutti dovrebbero avere capito trattarsi di Socrate –, si erano rivoltate contro di “lui”, tanto valeva accettare serenamente il proprio fato avverso e morire per le idee in cui aveva sempre creduto, che aveva ogni giorno praticato insegnando la filosofia nel solo modo che conosceva: “sapendo di non sapere”, ovvero vivendo filosoficamente. Come? Ricercando il sapere che è compito proprio di ciascun filosofo. Perché una vita senza ricerca – come lui stesso ha detto – non è degna di essere vissuta.
Temo che, poiché insegna a pensare con la propria testa, la filosofia darà sempre fastidio al potente e al prepotente di turno. È vero, oggi non ci sono più i Trenta Tiranni, Crizia pure è trapassato, ma la tirannia invisibile che ci governa tutti – non mi riferisco alla presente situazione politica italiana, sia chiaro – ha ancora più bisogno della filosofia e di una vita filosofica come antidoto alla schizofrenia dei nostri tempi.

L’umanesimo necessario

Siccome è piuttosto assodato quanto il domani cominci nell’oggi, più tardi si getteranno le basi per risolvere questi problemi e meno chances si avranno per uscirne con le ossa tutte intere. Secondo me – e non solo – un modo ci sarebbe: ritornare a credere e investire su un’istruzione umanistica, ultimamente tanto bistrattata ma che costituisce il “grillo parlante”, la “voce della coscienza”, la “bussola” che permette a quella tecnico-scientifica di non smarrire la via.

“Poiché il numero degli eletti è limitato, quello dei malcontenti è per forza immenso. Questi ultimi sono pronti a tutte le rivoluzioni, quali ne siano i capi o gli scopi. Con l’acquisizione di conoscenze inutilizzabili l’uomo si trasforma sempre in un ribelle” (“Psicologia delle folle”, TEA, Milano, 2009, p. 126). Queste parole potrebbe averle scritte qualsiasi Ministro dell’Istruzione degli ultimi vent’anni di storia repubblicana italiana, invece sono di Gustave Le Bon. A sentirli ripetono sempre tutti la stessa ricetta – onde conservare il potere e lo status quo presente, a loro vantaggioso – e cioè miglior cosa sarebbe “sostituire gli odiosi manuali e i pietosi concorsi con un’istruzione professionale capace di riportare la gioventù verso i campi, gli opifici e le imprese coloniali oggi trascurati” (p. 126). La solita solfa, insomma: l’eterno ritorno del conservatorismo in materia d’istruzione. Della serie: alla fine quasi che era meglio Giovanni Gentile e la sua riforma della scuola datata 1923.
Governo che viene, riforma del sistema scolastico che se ne va per lasciare il posto all’ideologia dominante, di ideali ormai neanche a parlarne. E che dire degli scenari odierni e futuri? Scenari da “disaster movie” fantascientifico sembrerebbero unanimi nel confermarci quanto i lavori di cosiddetta “bassa manovalanza” saranno sempre più svolti da macchine, robot o androidi, poco importa. Per questo si fa un “gran parlare” di redditi di cittadinanza o di dignità, che poi sempre della stessa cosa si tratta e sempre la stessa ineludibile domanda pongono: in che modo i manovali di “domani”si guadagneranno il pane? Un massiccio incremento di droghe e criminalità saranno – con tutta probabilità – i seri effetti collaterali che i governanti futuri si dovranno preparare a contrastare con efficacia se non vorranno esserne travolti. Per non parlare degli scenari geopolitici che potrebbero vedere nazioni farsi la guerra per accaparrarsi le migliori tecnologie.
Siccome è piuttosto assodato quanto il domani cominci nell’oggi, più tardi si getteranno le basi per risolvere questi problemi e meno chances si avranno per uscirne con le ossa tutte intere. Secondo me – e non solo – un modo ci sarebbe: ritornare a credere e investire su un’istruzione umanistica, ultimamente tanto bistrattata ma che costituisce il “grillo parlante”, la “voce della coscienza”, la “bussola” che permette a quella tecnico-scientifica di non smarrire la via. Una scoperta scientifica o un’innovazione tecnologica è una cosa grandiosa, può segnare un grande balzo in avanti per l’umanità. Chi lo mette in dubbio? Io no di certo. Tuttavia sia la scienza sia la tecnologia senza una visione globale manca di un elemento essenziale: ciò che esattamente permette a una data innovazione di essere fruita, fatta propria e utilizzata per il meglio.
Un esempio? Si prenda una pistola. Può risultare una strepitosa invenzione finalizzata a difendersi dai malintenzionati che vogliono farci del male. Come può – del resto – anche essere la peggiore delle invenzioni umane, se usata da uno studente squilibrato per fare strage dei suoi compagni e compagne. Tutto dipende dal “fine”– “telos” avrebbero detto i Greci – per cui una cosa viene fatta. Senza un fine preciso, quale che sia, a seconda delle proprie convinzioni, si è – scusate il gioco di parole – “finiti”. Inutile girarci intorno, la scienza, la tecnologia hanno un baco costitutivo: hanno poca o talvolta nessuna dimestichezza con la “finalità”, che è invece pane per i denti dei cultori delle “humanae litterae”, che di finalità, quale che sia, se ne intendono e parecchio, avendoci costruito i loro plurimillenari giacimenti di sapere.

L’insegnamento come missione

Un insegnante che fa bene il proprio mestiere non fa altro che adempiere a una vera e propria missione: salvare – nel più alto e autentico senso della parola – le vite di giovani che senza le loro cure potrebbero finire sbandati e in balia di chissà quali ideologie fasulle, cattive compagnie, falsi profeti, pessimi maestri, fastidiosi imbonitori, sette degenerate e chi più ne ha più ne metta. Come fanno a salvarne un così alto numero? Sviluppando nella gioventù – erroneamente considerata nichilista – il più prezioso degli anticorpi: lo spirito critico.

“Invece di preparare gli uomini per la vita, la scuola li prepara per gli impieghi pubblici in cui la riuscita non esige nemmeno un barlume di iniziativa […] Dall’alto al basso della piramide sociale, la massa formidabile dei diplomati e dei laureati stringe oggi d’assedio le carriere […] Nel solo dipartimento della Senna vi sono ventimila istitutori ed istitutrici disoccupati che, disprezzando i campi e gli opifici, si rivolgono allo Stato per vivere” (“Psicologia delle folle”, TEA, Milano, 2009, p. 125). Questo dice Gustave Le Bon sul finire dell’Ottocento. Le sue parole suonano ancora oggi attuali. Cosa parrebbe volerci dire l’autore della “Psicologia delle folle”?
A me sembra questo: che gli statali non sono che spiriti barbini, privi d’iniziativa e di una volontà che non sia quella di non bramare altro se non il “posto fisso” o, in alternativa, spirare provandoci. Non è che la considerazione dei cosiddetti “statali” sia tanto migliorata, oggi. Nell’immaginario collettivo sono sempre considerati alla stregua di mangiatori di pane a tradimento; in pratica, “magnaccia” scansafatiche che vivono sulle spalle di altra gente più industriosa di loro. Peccato che non sia tutto bianco o nero. Citando George Bernard Shaw: “Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata”.
Esistono degli statali sfaticati? Sì, certo, ne esistono e non pochi, vedi alla voce: “furbetti del cartellino” tanto per citare il più clamoroso episodio recente. L’altra domanda da porsi è però secondo me se ne esistono di volenterosi, che s’impegnano per fare bene e talvolta persino con creatività il loro lavoro? Io credo proprio di sì. Un esempio? Un insegnante che svolge a regola d’arte il proprio mestiere non fa altro che adempiere a una vera e propria missione: salvare – nel più alto e autentico senso della parola – le vite di giovani che senza le loro cure potrebbero finire sbandati e in balia di chissà quali ideologie fasulle, cattive compagnie, falsi profeti, pessimi maestri, fastidiosi imbonitori, sette degenerate e chi più ne ha più ne metta. Come fanno a salvarne un così alto numero? Sviluppando nella gioventù – erroneamente considerata nichilista – il più prezioso degli anticorpi: lo spirito critico. A che prezzo? Con la sacrosanta “fatica” di chi sa che sta facendo la cosa giusta, assolvendo alla propria missione esistenziale, qui e ora in questa desolata ma – per fortuna – non disperante “valle di lacrime”.