Machiavelli al tempo del coronavirus

Nel caso di una pandemia mondiale né l’esempio storico di Kutuzov e nemmeno quello di Quinto Fabio Massimo porterebbero a risultati apprezzabili: temporeggiare sarebbe il peggiore dei mali possibili. E allora qual è l’atteggiamento più consono, più machiavellico per risolvere problemi reali e non astratti, che è ciò che esattamente si prefigge un politico? In altri termini, come affrontare da discepoli realisti di Machiavelli il gravoso momento presente condizionato dal dilagare del coronavirus?

Per comprendere appieno il controverso autore de “Il principe”, ritengo più plausibile adottare una linea interpretativa che distingua tra l’uomo Machiavelli, da una parte, e il filosofo Machiavelli, dall’altra. L’uomo Machiavelli è stato tutto fuorché l’accezione che, nel corso dei secoli, è stata assegnata all’aggettivo “machiavellico”, vale a dire: malvagio, doppiogiochista, cospiratore, intrigante, insomma, capace di qualunque scelleratezza pur di tenere saldamente il potere o accrescerlo. Infatti, andando a guardare la sua biografia, non si trovano conferme che avesse simili tratti caratteriali. Il filosofo Machiavelli, invece, è stato il massimo teorizzatore del realismo politico, ovvero di un certo modo di pensare e fare politica: il modo di chi crede che, a volte, per ottenere un bene più grande occorra scendere a compromessi con la propria coscienza.

A discolpa di Machiavelli, va detto che l’idealismo morale e politico, di stampo kantiano, alla lunga potrebbe essere più nocivo del realismo machiavellico. Agire secondo la propria massima morale, darsi un imperativo categorico e non muoversi di un millimetro dalle proprie posizioni è un atteggiamento tanto nobile quanto estremistico. Perché?

Si prenda il problema del carrello ferroviario ideato dalla filosofa Philippa Ruth Foot nel 1967. Si tratta di un esperimento mentale molto noto. Il carrello sta per trucidare cinque persone intrappolate su un binario. Un uomo assiste alla scena e, decidendo di abbassare la leva dello scambio, potrebbe fare in modo che il carrello devi su un altro binario dove però è incastrata una persona che in tal caso morirebbe, a seconda delle versioni: un operaio o una bambina. Che fare in una situazione del genere? Meglio tirare la leva del treno e lasciare che muoia una persona, o non fare niente ottenendo come risultato la morte di cinque persone? Se si è kantiani fino al midollo e ci si è ripromessi di salvaguardare la vita propria e altrui in ogni circostanza, non si muoverebbe un dito e si permetterebbe che avvenga un danno maggiore, perché in nessun caso si ammetterebbe l’ipotesi di concedere un male minore. Se si decidesse d’intervenire, d’altra parte, si contravverrebbe alla massima morale kantiana di agire in maniera tale da non nuocere ad anima viva e con ciò si tradirebbe anche l’imperativo categorico “non uccidere”. Ancora oggi i filosofi si arrabattano nel provare a risolvere questo dilemma etico che – per definizione – appare ed è irrisolvibile. Sarebbe facile se rimanesse soltanto una questione teorica, ma così non può essere per un medico – per esempio –  che in particolari circostanze – purtroppo attuali – deve decidere quale vita salvare, o per chi ha un ruolo politico ed è chiamato a prendere delle decisioni riguardanti la collettività, ad agire “hic et nunc”. Non è più teoria, bensì routine.

In politica non fare niente è già fare qualcosa, significa temporeggiare. A volte questo produce successi incredibili. Si pensi al generale Kutuzov, artefice con la sua tattica attendista della disfatta dell’esercito napoleonico durante la campagna di Russia, oppure a Quinto Fabio Massimo, che tenne lontano da Roma il condottiero cartaginese Annibale impegnandolo in battaglie diversive in giro per la penisola. Altre volte però temporeggiare è la peggiore delle opzioni, perché non fare niente porterebbe a danni irreparabili, mentre intervenire con tempestività e decisione, anche con misure antipopolari, potrebbe limitarli.

Nel caso di una pandemia mondiale, né l’esempio storico di Kutuzov e nemmeno quello di Quinto Fabio Massimo porterebbero a risultati apprezzabili: temporeggiare sarebbe il peggiore dei mali possibili. E allora qual è l’atteggiamento più consono, più machiavellico per risolvere problemi reali e non astratti, che è ciò che esattamente si prefigge un politico? In altri termini, come affrontare da discepoli realisti di Machiavelli il gravoso momento presente condizionato dal dilagare del coronavirus?

Come il signor Wolf di “Pulp Fiction”, un realista machiavellico “risolve problemi” e sa bene che, per ogni situazione, c’è una soluzione diversa. Un conto è filosofeggiare a vuoto, un conto è farlo per decidere. Machiavelli promuove una filosofia politica finalizzata a prendere decisioni. Per questo “Il principe” si profila come un manuale per decisori, cioè per politici. Kant filosofeggia per altri filosofi come lui, che s’interrogano sull’uomo astratto, ideale, lontano anni luce dall’uomo reale, concreto. Chi la pensa come Kant e ha una posizione estrema sulle questioni morali e politiche, non conosce mezze misure, né quello spirito di adattamento necessario per prendere decisioni giuste, anche – e soprattutto – nei momenti più difficili.

Mi dispiace dirlo, ma l’idealismo kantiano incoraggia un atteggiamento estremistico, per quanto nobile e lodevole in teoria, che – alla prova dei fatti – potrebbe risultare più dannoso dello spietato realismo machiavellico.

Gli estremismi, persino se buoni nelle intenzioni – com’è il caso dell’estremismo morale kantiano – sono nocivi perché creano disequilibri, che sono la condizione all’origine dei conflitti si sa quando cominciano, ma non quando finiscono. Il pensiero di Machiavelli è figlio della politica dell’equilibrio sancita dalla pace di Lodi del 1454. In essa si riconosceva la sostanziale incapacità di ciascuno degli Stati italiani del Quattrocento di prevalere in maniera netta e incontestabile sugli altri. Da ciò è derivata una politica di sostanziale equilibro, di compromesso insomma. In uno scenario del genere ogni idealismo si sarebbe rivelato nella migliore delle ipotesi inconcludente, nella peggiore disastroso.

In generale, è convinzione dei realisti di oggi che l’idealismo sia stato un ideale politico storicamente fallimentare in ogni epoca. Ciò perché gli uomini nobili sono un’eccezione che conferma una regola: la maggior parte degli uomini è buona o cattiva a seconda delle convenienze del momento, perlopiù però è cattiva. Capire questa spiacevole verità è la chiave per stabilire quei principi utili per governare altri esseri umani. Dopo averli capiti e stabiliti c’è però un ulteriore passaggio da compiere: avere la forza del leone e la scaltrezza della volpe per attuarli.

Qual è la più importante qualità di un professore?

Uno dei tanti compiti del docente è mettere voti onesti, né troppo severi né troppo generosi. Una valutazione, affinché sia utile, dev’essere “formativa”, deve cioè “formare” la persona che si ha davanti, renderla consapevole su cosa e come migliorare. Di fronte a una scena muta o quasi, per quanto ci dispiaccia, non si può lasciar correre.

Trovo assurde quelle interrogazioni dove devi parlare tu e non lo studente, perché quest’ultimo non riesce a spiccicare parola, magari perché si è bloccato, o ha la personalità fragile, o non si ricorda quanto ha o – diversamente – “non ha” studiato. Quando capita, tu professore che vuoi essere di aiuto ai tuoi studenti, non vuoi mostrarti troppo rigido, fiscale (anche se non ci sarebbe nulla di male a esserlo). Al contrario, provi ad andargli incontro: cominciare tu il discorso, deviare su una domanda in teoria più facile… perché dico “in teoria”? Perché “in pratica” tutte le domande sono difficili per chi non studia. Alcune volte, in situazioni del genere, si può finire con il rifare daccapo la spiegazione per quanto parli solo tu, dato che chi dall’altra parte dovrebbe esporti dei contenuti non è capace di farlo. Quando capita questo, però, più che mettere il voto alla prestazione dello studente, dovresti metterla a te stesso.

Per quanto mi riguarda, cerco di evitare una situazione tanto ridicola, dal momento che trovo diseducativo farla passare franca a uno studente che non si presenta preparato a un’interrogazione. Infatti, che insegnamento potrà mai trarne se il professore non lo aiuterà a capire che ha sbagliato? Siccome, oltre a essere professori, siamo anche educatori, mi pare doveroso correggere comportamenti erronei per far sbocciare il senso di responsabilità nei nostri studenti. Quando un professore s’interroga da solo e mette un voto a sé stesso più che alla pessima prestazione di chi ha davanti, oltre a non agire secondo deontologia, rende un pessimo servizio al ragazzo, come se – implicitamente – lo invitasse a riprovarci la volta successiva, quella dopo ancora e così via in un continuo prendere/prendersi in giro.

Uno dei tanti compiti del docente è mettere voti onesti, né troppo severi né troppo generosi. Una valutazione, affinché sia utile, dev’essere “formativa”, deve cioè “formare” la persona che si ha davanti, renderla consapevole su cosa e come migliorare. Di fronte a una scena muta o quasi, per quanto ci dispiaccia, non si può lasciar correre.

Con la mia scala valutativa già cerco – nei limiti del possibile – di aiutare i miei studenti, visto che come voto minimo parto dal tre e non disdegno – in rari casi ma succede – di mettere il massimo, cioè dieci. Quindi, per scelta didattico-educativa ho deciso di escludere dal novero delle valutazioni possibili i voti minimi che reputo lesivi della dignità della persona. Mi posso permettere questo perché mi guardo bene dal fare verifiche a crocette, preferendo quelle a domanda aperta, che – peraltro – mi sembrano più consone a materie quali Filosofia e Storia che si basano molto sul saper argomentare. Uno studente che non ha argomenti e non riesce a svilupparci sopra un discorsetto di senso compiuto “non” ha colto uno degli aspetti principali della disciplina filosofica. Inoltre, uno studente incapace di esporre le proprie idee, nel corso della sua vita sarà sempre dimezzato perché non in grado di comunicare “a parole” e “per concetti” ciò che sente dentro di sé, ciò che pensa.

Pensare è quel che rende l’uomo un “animale razionale”, che rispetto alle altre specie animali possiede quel “quid plus”, quel valore aggiunto costituito dalla ragione. Quest’ultima tutti ce l’abbiamo, anche se non tutti ne facciamo uso o perlomeno non sempre, altrimenti avrebbe avuto ragione Kant con il suo trattato “Per la pace perpetua” a ritenere possibile – grazie al progredire della ragione – un mondo privo di guerre.

Di certo non condanno quei miei colleghi che somministrano prove strutturate, in particolare quelli delle materie scientifiche. Nel loro caso è impossibile non partire dallo zero perché – faccio un esempio – se in un test “a crocette” do dieci domande e un alunno non ne indovina neanche una, questi logicamente si dovrà beccare un rotondo quanto scoraggiante zero. Vorrei anche aggiungere che in verifiche formato quiz – per quanto ben congegnate – vi sono più rischi che: lo studente possa rispondere nella maniera corretta tirando a indovinare, oppure possa copiare – con più agio che in quelle discorsive – da qualche compagno.

A ogni modo, con le domande aperte che propongo ai miei studenti, aggiro allegramente il problema dei voti minimi e, andando come scala di valutazione dal tre al dieci, mi sembra di operare “in aiuto” dei miei alunni. Perciò, quando uno studente non mi riconosce questa forma di premura nei suoi confronti ma – anzi – protesta per un voto che non lo soddisfa, be’, non nego che ci rimango male. Poi, per carità, il dispiacere mi passa subito e dimentico in fretta perché non voglio essere un professore vendicativo. So bene di avere “il coltello dalla parte del manico” e non mi sembra corretto accanirmi su chi – come uno studente al cospetto di un “prof” – è in una posizione di debolezza; approfittarsene sarebbe da vigliacchi, da chi fa il forte coi deboli e il debole coi forti.

Tutti i professori ambiscono a esseri giusti, si sa, ma giacché la giustizia è prerogativa divina e non è cosa di questo mondo, di solito ci si accontenta di essere equi, ovvero: capaci di trattare con la massima equità i propri studenti. Motivo per cui per essere in pace con quello che faccio, mi basta pensare – e sperare – di essere equo. Equità, ecco qual è la più importante qualità di un professore.

Digressione sulla filosofia della bellezza o estetica

In definitiva, la bellezza ci aiuta a scoprire il senso delle cose, a dare senso alle cose. Questo perché il “senso” non è mai a disposizione e non è mai dato una volta per tutte, va ricercato di continuo, senza sosta.

Ciò che rende bella una cosa è il nesso delle sue parti, è l’intero. La bellezza nell’arte è qualcosa che va tirata fuori, un po’ come fa lo scultore intento a plasmare una forma da un pezzo di marmo grezzo. Uno dei più importanti pensatori di estetica moderna, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), sostiene che la bellezza non è più il carattere delle cose, bensì un sentimento del soggetto che vede, ascolta, sente le cose, riguarda il sentimento dell’io.
Per Kant invece che cos’è il bello? Un giudizio di gusto. Nella “Critica del giudizio” (1790) afferma che il giudizio di gusto non compete alla sfera della conoscenza né a quella della logica, bensì a quella dell’estetica. Che significa? Semplicemente che non può non essere “soggettivo”. Ovvero tradotto: ciascuno ha la sua preferenza. O ancor meglio, come insegna la saggezza popolare: “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Può esserci una bellezza universale, tuttavia varia il modo in cui ciascun soggetto la percepisce. Motivo per cui: “La bellezza è negli occhi di chi guarda”, altro prezioso detto sempre preso a prestito dalla saggezza popolare.
C’è un profondo nesso – inoltre – che lega la bellezza alla verità, come aveva peraltro intuito il poeta romantico inglese John Keats nella sua famosa lirica “Ode a un’urna greca”: “Beauty is truth, truth beauty”. Secondo Theodor Adorno (1903-1969), importante esponente della corrente estetica novecentesca, la bellezza artistica ci permette di liberarci “dalla” costrizione della realtà. E, come se non bastasse, il bello ci promette la libertà, la felicità. “Si può vivere senza la scienza, l’inglese, la Russia, ma non si può vivere senza la bellezza”, se diamo retta a quanto ci dice Dostoevskij. La bellezza ti attrae nel suo vortice e non si riesce a resisterle, c’è poco da fare.
In definitiva, la bellezza ci aiuta a scoprire il senso delle cose, a dare senso alle cose. Questo perché il “senso” non è mai a disposizione e non è mai dato una volta per tutte, va ricercato di continuo, senza sosta. A questo punto è lecito domandarsi: l’arte e la bellezza devono liberarsi “dell’esistente” o “dall’esistente”? Secondo Friedrich Nietzsche l’arte ci deve poter guarire dalla triste verità della vita, che è la morte. In tutta franchezza, penso che avesse ragione Nietzsche. E aggiungo soltanto: che se la nostra esistenza ci è più sopportabile in parte lo dobbiamo all’arte che ha fatto della bellezza la sua unica ragione d’essere.

Amore è tempo

Può l’amore saziarci allora? Come potrebbe? È impossibile sentirci saziati a causa della materia di cui siamo fatti, che non sono i sogni come pretende Shakespeare (o almeno non soltanto), bensì i secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni che ci è dato vivere in quanto esseri di e nel tempo. Per questo si può affermare con ragionevole certezza che: essere è tempo e l’amore pure è tempo, in quanto suprema sintesi dell’essere.

Amore è tempo, nel senso che non posso separare l’uno dall’altro, essendo il primo una manifestazione dell’essere, forse la più sublime (di sicuro la più potente), e come tale è intrecciato nel secondo poiché il nostro essere – come ci insegna Heidegger – è fatto di tempo. Prendendo a prestito una metafora dalla fisiologia umana: se l’amore è il cuore pulsante del nostro sentire, il tempo è la gabbia toracica che lo contiene. Oppure, usando una terminologia marxiana: il tempo è la struttura, l’amore la sovrastruttura. Amore e tempo sono due ingredienti della stessa pasta, che messi assieme formano quella prelibatezza chiamata vita, tanto gustosa quanto indigesta. “Gustosa” se la si sa assaporare, amando, non importa se solo se stessi o una persona speciale. “Indigesta” perché digerire il fatto che si deve morire rimane sullo stomaco ai più.

Può l’amore rimarginare la ferita del tempo? Ci può mettere un cerotto, che può reggere per un po’ e poi, come ognuno di noi ben sa, inevitabilmente si stacca. Ecco, la vita amorosa non è altro che uno scollamento graduale ma implacabile da se stessi e/o dalla persona che ci sta accanto e che presto o tardi dovremo lasciare o ci lascerà lei per causa di forza maggiore.

Può l’amore saziarci allora? Come potrebbe? È impossibile sentirci saziati a causa della materia di cui siamo fatti, che non sono i sogni come pretende Shakespeare (o almeno non soltanto), bensì i secondi, i minuti, le ore, i giorni, gli anni che ci è dato vivere in quanto esseri di e nel tempo. Per questo si può affermare con ragionevole certezza che: essere è tempo e l’amore pure è tempo, in quanto suprema sintesi dell’essere.

Per quanto mi riguarda, credo che in amore o si è altruisti, dedicando la propria fedeltà a un’altra persona, oppure si è egoisti, rimanendo fedeli solo a se stessi. Poi c’è una via mediana, intrapresa dai più, della serie: Sto con te ma ti sono fedele nello spirito perché la mia carne copula con chi gli pare. Questa è un’ipocrisia da quattro soldi, perché carne e spirito sono una cosa sola (almeno per me). Io rivendico una certa concezione amorosa che non si basa unicamente sul pur importante amore di sé (chi non si ama non può amare né può essere amato da altri), ma anche e soprattutto su quello per un’altra persona a cui si è liberamente scelto di donare il proprio amore esclusivo. (Per approfondire questo tema, vi rimando alla lettura de “La scelta in amore” di Ortega y Gasset.)

Dimmi chi ami e ti dirò chi sei. Oppure: siamo chi amiamo. Soltanto un amore che sia il riflesso della nostra libera ed esclusiva “scelta” può farci sentire in parte appagati. Certo, da qui a dirci saziati troppo ce ne vuole.

L’essere umano è una creatura insaziabile per definizione e mancante sempre di qualcosa. Mancanza, questa, già espressa da Platone, che nel “Simposio” fa raccontare al personaggio di Aristofane il famoso mito dell’androgino. Mito, questo, che spiega il motivo per cui ci sentiamo incompleti, ovvero perché ci manca la nostra metà, in origine separata al nostro essere, perciò incompleto.

L’uomo come creatura separata è un argomento sviscerato anche dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud. Non è un caso che la versione freudiana della teoria dell’iceberg sancisca la vittoria dell’Io e del Super-Io, che, coalizzati, battono 2-1 il solitario Es, con il risultato che il principio di piacere finisce soffocato a vantaggio del principio di realtà. Mi spiego con un esempio.

Se, secondo Freud, non ci accoppiamo tutti con tutti abbandonandoci ai nostri istinti più animaleschi, il più animalesco dei quali è quello sessuale, è tutta colpa o tutto merito – dipende dai punti di vista – del principio di realtà, che ci reprime, rendendoci pertanto dei buoni cittadini/e rispettosi/e l’uno delle mogli/luna dei mariti dell’altro.

Personalmente riconosco a Freud di avere avuto una grande intuizione, riconducibile però a un altro mito platonico, quello dell’auriga – o del carro alato che dir si voglia – enunciato nel “Fedro”. In quest’opera Platone ci parla – come al solito – per metafora degli appetiti dell’anima, le parti della quale sono: un auriga, identificabile con l’Io freudiano; un cavallo bianco simboleggiante la ragione, l’equivalente del Super-Io freudiano; un cavallo nero incarnante la passione, nientemeno che l’Es freudiano. Con questo non è mia intenzione insinuare che Freud abbia plagiato, con la sua teoria dell’iceberg, quella platonica degli appetiti dell’anima presentata nel mito dell’auriga. Dico solo che Platone ha intuito molto di quello che poi Freud avrebbe teorizzato più avanti.

Che significa tutto questo? Che in filosofia l’originalità pura non esiste ed è quantomeno sopravvalutata. Tutto è stato pensato, occorre solo ripensarlo per migliorarlo. Dunque, filosofare è ripensare. Ogni ripensamento rivisita e rinfresca teorie pregresse, imprescindibili seppure bisognose di evolversi. Il procedimento del pensiero filosofico è di tipo evolutivo, tende – e ci aveva visto giusto Hegel – verso un cammino progressivo di emancipazione del genere umano in nome della ragione. Peccato che – e in questo Hegel non ci aveva visto per niente – questo progresso non è unidirezionale, ma direi piuttosto bidirezionale: ci si evolve, è vero, così come è altrettanto vero che ci si può pure – nessuno se lo augura – involvere. Quello che è bene ribadire è che il cammino del pensiero non può fare a meno neanche di una virgola di quanto è già stato pensato. Se c’è una cosa che insegna la filosofia: è che ogni pensiero può e deve essere migliorato ripensandolo, da chi ha l’onore e l’onere di venire dopo. Non c’è filosofo – a mio avviso – che non debba e non possa venire ripensato, compresi e in particolare modo i vari mostri sacri: da Platone ad Aristotele, passando per Hegel o Kant. Ogni filosofo che ha vissuto, che vive o che vivrà sotto al Sole deve e può essere ripensato “in saecula saeculorum”.

Per chiudere vorrei raccontare il mito della nascita di Eros, così come ci viene narrato nel “Simposio” platonico (per chi non lo sapesse, ce n’è pure uno di Senofonte). Eros nasce il giorno della festa di Afrodite, sotto il segno della bellezza, da padre ricchissimo, Espediente, e da madre poveraccia, Penia. Questa vede ‘sto gran pezzo di figliolo, Espediente, e subito se ne innamora. Aspetta con pazienza che tutti siano ubriachi fradici, Espediente compreso, e poi… zac! Gli monta sopra, si dimena un po’ e si fa inseminare. Il frutto di questa cavalcata diviene Eros, il figlio preciso, sputato di ambedue i genitori, che – come tale – eredita alcuni caratteri del padre, altri della madre. Dal primo prende il gusto per le cose belle, dalla seconda la spinta a possederle. Eros infatti ambisce alla conoscenza, questo perché “non” la possiede (anche perché se no che senso avrebbe ricercare una cosa che già si ha?), bensì la brama con tutto se stesso. Per questo motivo è – fra tutti gli dèi – quello che più ricerca la conoscenza, che è la meta implicita ed esplicita del suo pro-tendere.

Perché vi ho raccontato, semplificandolo, confesso, questo mito? Perché la filosofia deve a Eros la sua tensione erotica verso: la conoscenza, la verità, il bene, la giustizia, il bello e chi più ne ha più ne metta. La filosofia nasce con Eros e ha in Eros il suo più degno paladino. L’Eros che Freud chiamerà spirito di vita e opporrà a Thanatos, che è invece spirito di morte. Vita e morte, Eros e Thanatos: la filosofia insegna che sono le due facce della stessa medaglia.

Finché Eros, che è spirito di vita, continuerà a palpitare, fino ad allora la Vita avrà una parola da opporre alla Morte.

Il paradigma della qualità

L’educazione alla qualità e non all’efficienza è ciò che si dovrebbe ritornare a insegnare nelle scuole. Ho usato volutamente il termine “ritornare”, perché questo tipo di educazione è stato usato in passato, nell’antica Atene, da un signore paragonatosi a un “tafano” e – come se non bastasse – anche a una “levatrice”, di cervelli beninteso. Il suo nome ormai consegnato alla posterità è: Socrate.

 

Dopo i passi avanti fatti con il passaggio dalla scuola del programma a quella della programmazione, dalla conoscenza cumulativa alla formazione di specifiche competenze, la scuola italiana è giunta a un bivio e deve scegliere se imboccare la strada maestra della “qualità” o deviare per la ripida scorciatoia della “quantità”. Fallita e si spera ormai tramontata l’idea della scuola-azienda (ma “mai dire mai”, visto che do ragione a Mark Twain e credo anch’io che “la storia non si ripeta ma spesso faccia rima”), introdotta con la riforma Moratti, una scuola neanche a dirlo incentrata sul paradigma dell’efficienza industriale, è giunta l’ora di svoltare verso un paradigma di tutt’altro segno e di nuovo umanista.

La mia impostazione rousseauiana mi fa concepire la formazione come un unicum volto a formare tanto l’individuo di oggi (infante/bambino/ragazzino/ragazzo) quanto il cittadino di domani (futuro elettore o rappresentante politico). Ergo, per formare al meglio nella sua interezza l’educando, ritengo sensato e doveroso promuovere quello che chiamo: il paradigma della qualità. Il fondamento filosofico della stessa l’ho ricavato dal romanziere americano Robert M. Pirsig. Egli ha promosso una metafisica della qualità, che, a mio avviso, può – senza forzature – applicarsi alla didattica.

Il fordismo – da Henry Ford, inventore della catena di montaggio – inteso come esaltazione della quantità, ci ha resi schiavi della produttività a tutti costi. Ribaltando il detto cartesiano, per un fordista dei nostri giorni: “Produci dunque sei”. Una rivalutazione del principio di qualità potrebbe ovviare alla degenerazione prodotta dal principio opposto di quantità. Solo tale rivalutazione può rimettere al centro l’uomo, ormai ridotto alla stregua di automa dedito principalmente alla produzione, al produrre quel surplus, quella eccedenza che Marx ha chiamato “plusvalore”, che è proprio ciò che permette ai capitalisti di arricchirsi. (Non a caso c’è chi ha visto nel marxsismo un nuovo umanesimo, seppure tradito poi – nonostante le resistenze di alcuni ad ammetterlo – dalle scelleratezze perpetrate nei Paesi del socialismo reale.)

Qual è il male della filosofia odierna, o ancora meglio: della didattica filosofica contemporanea? Questo male secondo Pirsig – e anche secondo me – si chiama filosofologia. I filosofologi sono per una concezione “archeologica” della filosofia, che andrebbe secondo loro rintanata nelle accademie, dimore dei filosofologi, i quali più che a filosofare – come avrebbe voluto Kant, promotore del metodo zetetico, da “zetein”, “indagine” – si insegna la filosofologia. Che cos’è? Un continuo rimando di citazioni privo del coraggio di osare argomentare proprio dello spirito originario della filosofia, quella autentica, delle origini tanto per intenderci, la cui incarnazione ci è data dal celebre detto socratico “so di non sapere”. Al contrario i filosofologi sanno troppo e, paradossalmente, pensano troppo poco, o – in alcuni casi addirittura – quasi neanche pensano e si limitano a citare altri più titolati di loro come se da ciò ne derivasse un particolare merito (il merito, se c’è, tutt’al più è dell’autore citato). Insomma, il citazionismo è diventato lo sport più praticato nelle sempre più deserte accademie.

Più che il possesso di qualche conoscenza, la filosofia è ricerca della conoscenza. Si tratta di una ricerca incessante e infaticabile, che è nel dna stesso della materia, detto in termini più “accademici”: nel suo statuto epistemologico. Interessante a tale riguardo è il mito della nascita di Eros, che racchiude il senso profondo della filosofia e del filosofare inteso come continuo cercare mai domo, appagato poiché Eros/filosofia: di certo non arderebbe di amore per la conoscenza, se solo la possedesse.

Nelle scuole servirebbero degli insegnanti di filosofia e non dei filosofologi. Perché chi è che può insegnare se non chi ha dimestichezza e confidenza con una determinata disciplina? Il filosofologo, non facendo lui direttamente filosofia, non può insegnare alcunché a dei liceali, tanto meno a pensare con la loro testa, che – come si evince dalle “Indicazioni ministeriali” – è la competenza più basilare della disciplina filosofica.

Da dove comincerei questo cambiamento di paradigma e – perché no – di passo nell’insegnamento? Partirei dal bandire dal lessico degli studenti i vari “così disse Tizio o Caio”, motivandoli sin da subito ad affermare “così dico” con una certa cognizione di causa. Questo significa farli prendere coscienza delle loro idee, a mio avviso. Va da sé che per farlo i miei studenti dovranno conoscere quelle dei principali pensatori, senza per questo costringerli a scimmiottare i testi o i manuali studiati, per poi, una volta terminata l’interrogazione o il compito in classe, disinteressarsene come se quell’apprendimento non fosse utile per le loro vite. Mi piacerebbe che durante le interrogazioni e i compiti in classe i miei alunni mi spiegassero il tale filosofo o il tale periodo storico con parole loro, facendo un uso ponderato delle citazioni, che nel migliore dei casi denotano una memoria alla Pico della Mirandola, nel peggiore invece un odioso studio “a pappagallo” dei testi. Dunque, auspico che il “così dico” subentri finalmente al “così si dice”, la fase attiva a quella passiva, studiare filosofia ma anche impratichirsi con il filosofare: fare filosofia in prima persona.

Perché questo? Perché lo dico io? No, semplicemente perché lo dice già il “Profilo generale e competenze per l’insegnamento della filosofia”. Si sa, però, un conto è dirlo, un altro è attuarlo. Facendo un’eccezione alla mia regola, ne cito un breve passaggio: “La conoscenza degli autori e dei problemi filosofici fondamentali dovrà aiutare lo studente a sviluppare la riflessione personale, l’attitudine all’approfondimento e la capacità di giudizio critico”.

Va bene studiare i grandi del pensiero, però occorre metterci del proprio. Tradotto: non basta sapere e non basta neanche comprendere, ma occorre trasformare, cioè fare proprio un apprendimento. Un po’ come a voler dire, rielaborando l’undicesima “Tesi su Feuerbach” di Marx: i “filosofologi” si sono limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di trasformarlo”.

Come penso di riuscire nell’intento? Facendo mio il metodo argomentativo-critico-decostruttivo che ben si attaglia all’insegnamento della filosofia (e anche della storia). Sono convinto che insegnare a filosofare liberi dalle catene del “così si è sempre detto, fatto, pensato”. Parafrasando Heidegger: la “diceria” è la vera tirannia del pensiero.

Filosofare è ripensare quanto è già stato pensato, non mi stancherò mai di ripeterlo. Motivo per cui: la vera essenza della filosofia è dinamica. Senza un ripensamento radicale, che affondi cioè sino alla radice stessa del problema, non può esserci alcun rinnovamento. E non c’è rinnovamento senza ripensamento.

Insomma, alla fine si ritorna sempre al “conoscere te stesso”; conoscenza di sé che è l’unica conoscenza possibile. Già sarebbe tanto arrivare a conoscersi nell’arco della propria vita. Solo conoscendosi a fondo ci si può riconnettere con il proprio sé più autentico, capire cosa si vuole e provare a ottenerlo.

L’educazione alla qualità e non all’efficienza è ciò che si dovrebbe ritornare a insegnare nelle scuole. Ho usato volutamente il termine “ritornare”, perché questo tipo di educazione è stato usato in passato, nell’antica Atene, da un signore paragonatosi a un “tafano” e – come se non bastasse – anche a una “levatrice”, di cervelli beninteso. Il suo nome ormai consegnato alla posterità è: Socrate.

Pertanto, è l’educazione maieutica socratica il presupposto alla mia didattica della qualità. Perché insegnare deve ritornare a essere concepito come un “compito di salute pubblica”, come una “missione”, per dirlo come Morin, o come una vocazione, per dirlo come lo dico io.

Che tipo di “missione”? Una missione trasmissiva, che “richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un’arte”. Quale tecnica, quale arte? Una tecnica, un’arte “che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l’eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi” (“La testa ben fatta”, p. 106).

In definitiva, all’insegnamento è necessaria una pulsione erotica, platonicamente intesa come: “amore per la conoscenza”, che non si possiede, ma a cui si vuol tendere. Come trasmettere questo amore? Con passione e fatica senza dimenticare che, come afferma Platone nel dialogo “Ippia Maggiore”: “Le cose belle sono difficili”. Sia l’amore sia la bellezza – l’uno, Eros, secondo la leggenda platonica viene concepito durante la festa di Afrodite, quindi, nasce sotto il suo segno – richiedono cura, dedizione, impegno, in una parola: consacrazione. Serve amore, tanto amore per consacrarsi alla bellezza, che non so se potrà salvare il mondo come credono alcuni – il più famoso dei quali è Dostoevskij –, di sicuro però credo ci si possa trovare tutti d’accordo nel dire che: senza la bellezza – nell’accezione più ampia possibile, che ben poco ha a che vedere con la cosmesi – il mondo sarebbe un posto ben più misero in cui vivere. Finché c’è bellezza, invece, c’è speranza. Quale? Che il domani possa essere migliore dell’oggi.

Prima lezione di filosofia a dei liceali

È mia convinzione che, oggi, si stia avvertendo la mancanza di una filosofia forte e di “filosofi” degni di questo nome, capaci cioè di ripensare la realtà “in toto” così da rinnovarla e, dunque, migliorarla. Difatti, non esiste alcuna progressione migliorativa senza una radicale capacità di ripensamento. Poiché s’è vero, come credo, che filosofare è ripetere – ce lo fa intuire Platone in una sua opera intitolata “Fedro” –, è altrettanto vero però che filosofare è “ripensare” quanto è già stato pensato.

Cos’ho in comune con Socrate, Pirsig, Gramsci?

Credo anch’io che tutti gli uomini siano filosofi.

Bene, il mio obiettivo, come vostro professore, è accompagnarvi in questo triennio e tirare fuori “il filosofo” che si cela in ognuno di voi.

Diventerete “filosofi” studiando, oltre agli appunti delle lezioni e ai materiali che vi fornirò, anche le pagine del vostro manuale di testo. L’approccio didattico che vi propongo è quello storico-filosofico, con delle incursioni mirate su temi di particolare rilevanza, che sceglierò per voi.

Quest’anno partiremo dai filosofi detti Presocratici (perché sono venuti prima di Socrate, che possiamo ritenere a pieno titolo il padre – insieme a Platone – della Filosofia con la “F” maiuscola) e arriveremo fino a Epicuro.

Oggi, come prima lezione, siccome è la prima volta che incontrate questo oggetto per i più misterioso chiamato “filosofia”, vi proporrò una riflessione sull’essere filosofi, affinché vi rendiate conto della possibile applicazione concreta di questa materia nata tra il VI e il V secolo a. C. nelle colonie greche e in Grecia.

Visto che tutto in filosofia parte dal domandare, direi di partire subito con una domanda: che cosa significa essere “filosofi”, o meglio ragionare in termini filosofici?

Innanzitutto è bene chiarire cosa “non” vuol dire.

Per farlo mi avvarrò del romanzo filosofico “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” dello scrittore americano Robert M. Pirsig adatto alla vostra età, dato che – immagino – molti di voi possederanno già una moto di piccola cilindrata o, quanto meno, un motorino. Anche se, devo essere onesto con voi, i motori in questo caso sono l’espediente, che l’autore trova, per parlare di altro. E questo altro è appunto: la filosofia.

Il tema centrale del romanzo è il viaggio, un viaggio – possiamo dire – alla ricerca della libertà assoluta, che spesso coincide con la solitudine assoluta. I protagonisti sono due, padre e figlio. Della trama non vi dirò altro, per evitare ogni forma di “spoileraggio”. Vi dirò qualcosa in più sull’autore, che, a mio avviso, ha la stoffa del filosofo di razza, seppure di un genere particolare: “anticonvenzionale”, nel senso che si colloca al di fuori delle convenzioni del mondo accademico, del quale si chiama fuori risultando una sorta di “eretico” della filosofia.

Le Accademie – luoghi dove si possono trovare i professori di filosofia più quotati – non gli stanno granché simpatiche, anzi è proprio il caso di dire: non gli stanno simpatiche per niente. Secondo Pirsig in queste, la filosofia, più che come materia viva, viene studiata come reperto archeologico. Per lui gli accademici sono dei “filosofologi” e non dei filosofi, e quella che loro insegnano non può dirsi filosofia ma: “filosofologia”. Pirsig li accusa di non “fare filosofia”.

Be’, se diamo uno sguardo alla realtà odierna, questa tendenza alla filosofologia ha preso un po’ troppo piede, perlomeno in ambito universitario. Vi dico subito che sull’argomento la penso allo stesso modo di Pirsig, per questo mi guarderò bene dall’insegnarvi filosofia alla maniera dei filosofologi. O perlomeno, questo è l’obiettivo che mi pongo con voi.

È mia convinzione che, oggi, si stia avvertendo la mancanza di una filosofia forte e di “filosofi” degni di questo nome, capaci cioè di ripensare la realtà “in toto” così da rinnovarla e, dunque, migliorarla. Difatti, non esiste alcuna progressione migliorativa senza una radicale capacità di ripensamento. Poiché s’è vero, come credo, che filosofare è ripetere – ce lo fa intuire Platone in una sua opera intitolata “Fedro” –, è altrettanto vero però che filosofare è “ripensare” quanto è già stato pensato. Compito arduo, ma non impossibile, come i vari: Kant e Hegel – autori che affronteremo più in là, non quest’anno – testimoniano. Questi due, malgrado avessero buoni motivi per gettare la spugna e arrendersi al cospetto di veri e propri “giganti” del pensiero quali – per esempio ma non soltanto – Platone e Aristotele, tuttavia si guadagnarono con nobile fatica, la cosiddetta “fatica del concetto”, il loro posto di tutto rispetto nel “pantheon” riservato ai più grandi pensatori.

Immaginate la storia della filosofia come una staffetta, a proposito della quale ogni filosofo del passato ci ha lasciato il testimone da portare avanti. Di certo non sarà con il modo ossequioso dei “filosofologi” che si potranno riscrivere pagine importanti di filosofia: una filosofia che ritorni a essere produttiva, propositiva. La riverenza non la dobbiamo ad altri nostri simili, semmai dobbiamo loro, a tutti loro: il rispetto, quello sì.

I grandi filosofi del passato non sono stati niente più che esseri umani come noi, con i loro pregi e i loro difetti, creature fallibili la cui stella ha solo brillato un po’ più di altre, ma che poi si è spenta così come vuole il destino di ogni stella. A dire il vero, dei loro difetti in quanto uomini c’interessa poco, o niente. Li giudicheremo per quello che ci hanno lasciato: il loro pensiero, la loro filosofia. Come vedete mi è capitato e capiterà spesso di usare i termini “pensiero”, “filosofia” come sinonimi. È normale, non preoccupatevi.

Ora, proviamo a ripensare alla storia della filosofia sin dai suoi albori: se Aristotele fosse stato “riverente” con il pensiero di Platone, non avrebbe mai raggiunto le vette di pensiero che di fatto raggiunse, consegnandoci le sue opere immortali; non sarebbe stato altro che uno dei tanti discepoli del sommo Platone.

Cosa ci dimostra questo?

Semplicemente che ognuno di noi può maturare un proprio pensiero, seppure stringendo una speciale affinità elettiva con quello di alcuni dei più grandi filosofi della storia, vissuti prima di noi. Vedrete che quest’anno a seconda delle vostre “formae mentis” parteggerete più per Platone o più per Aristotele. Al riguardo la penso come il signor Pirsig, il quale afferma che il mondo si divide in due schiere: una formata dai platonici e un’altra dagli aristotelici. Semplificando: i primi guardano in alto, i secondi in basso, come questo dipinto intitolato “La scuola di Atene” di Raffaello Sanzio.

Fate attenzione, qui Platone ha il dito puntato verso l’alto, come a indicare le cose di lassù, mentre il discepolo Aristotele tiene il palmo della mano aperto verso il basso, come a volere rimarcare la sua appartenenza al mondo di sotto, questo nostro mondo in cui abbiamo i piedi ben piantati, altro che l’Iperuranio del maestro.

In effetti, dipingendo Platone con il dito puntato in alto e Aristotele con il dito rivolto verso il basso, Raffaello sintetizza – come nessun altro ci era riuscito prima – le loro filosofie, entrambe protese a ricercare la Verità. Se Platone era convinto che la si potesse trovare nell’Iperuranio, un luogo mitico posto in siderali altitudini dove hanno sede le Idee (avremo poi modo di vedere cosa intende con esse, a tempo debito), Aristotele era persuaso che la si dovesse cercare nel nostro mondo terrestre, guardando per l’appunto in basso, vivisezionando la realtà con perizia di un chirurgo (non a caso era figlio di un medico).

Vi ho parlato un po’ di Platone e Aristotele, perché lo stesso fa Pirsig nel suo romanzo molto filosofico e poco motociclistico. A suo avviso, la filosofia per pochi eletti promossa dalle Accademie tradisce la natura stessa della disciplina. La filosofia originaria, che cioè non si è dimenticata delle proprie origini, è a disposizione di tutti e tutti ne possono disporre perché: tutti gli uomini sono filosofi. Solo che non tutti se ne rendono conto, oppure lo sanno. Questa convinzione è ciò che accomuna, come vi ho già detto all’inizio: Socrate, Gramsci, Pirsig e me. Dunque, fare filosofia è alla portata di tutti.

Perché dico “fare filosofia”?

Perché studiarla equivale già – in un certo senso – a farla, nel senso che mentre la si studia, ve ne accorgerete, non vi lascerà affatto indifferenti, ma coinvolgerà – nel bene e nel male – ogni neurone e sinapsi del vostro cervello. A volte vi annoierà, certo. Magari la maggior parte delle volte. Ma sono sicuro che qualche volta – spero – vi colpirà al punto da farvi meglio sopportare le volte in cui avreste voluto scagliare il libro o gli appunti il più lontano possibile da voi.

Se me lo permetterete, oltre a studiare la storia della filosofia, vorrei con voi fare filosofia anche, che si dice: “filosofare”. Insieme renderemo questa materia, tutto fuorché indifferente, non più mera esclusiva degli “incravattati” accademici. Senza nulla togliere alle cravatte né agli accademici che hanno tanto studiato e hanno dovuto compiere innumerevoli sacrifici per farsi una posizione. Meritano infatti un sincero, profondo rispetto coloro che consacrano la loro vita alla conoscenza.

Magari ora vi starete chiedendo: “Ma ‘sto professore perché ce l’ha tanto con i tizi in giacca e cravatta che insegnano nelle Accademie?”.

Potrei rispondere che non ce l’ho affatto con costoro, che, anzi, lo ribadisco: hanno tutta la mia stima e comprensione. È solo, però, che trovo giusto chiarire che non è quasi mai vero che il vestito esteriore fa il monaco. Chi lo pensa è un superficiale, il contrario di un filosofo. Questi non lo riconoscerete dall’abito che indossa, ma dal modo filosofico con cui pensa, perché la filosofia è essenzialmente un abito interiore.

Un tale Diogene di Sinope – pensatore che vedremo quest’anno – detto “il Cinico” invidiava la frugalità dei cani e dimorava in una botte, ma non per questo era meno filosofo di altri meglio agghindati ma con una rapa al posto del cervello. Anzi, è probabile che in virtù del suo coprirsi di stracci, lo era in misura maggiore di molti altri più elegantoni di lui, perché – talmente indaffarato a edificare il proprio abito interiore – non dava granché importanza al modo di vestirsi.

Con questo non vi sto consigliando di andare in giro alla maniera di Diogene – anche perché d’inverno fa freddo e a volte pure in autunno –, vi sto solo dicendo di pensarci bene prima di etichettare una persona come un eccentrico. Spesso sono le persone stravaganti che ci arricchiscono di più a livello umano.

Il vero filosofo non guarda alle apparenze, non si cura la barba o si preoccupa di avere i capelli fuori posto, per lui molto più grave è avere le idee in disordine. Bisognerebbe scovare i tanti Diogene del nostro tempo e dare loro un megafono per esprimere il loro prezioso anticonformismo. Poiché conformarsi sempre potrebbe non essere la soluzione. È nei pareri discordanti che va ricercata la soluzione, alla quale, molto spesso, ci si arriva per sentieri inesplorati.

Vi confesso che spero con voi di avere trovato i miei giovani e gagliardi Diogene pronti a fare con me, seppure non in motocicletta come i protagonisti del romanzo di cui vi ho parlato (anche perché nella mia Harley c’è posto per un solo passeggero), un viaggio lungo dei secoli, chiamato: storia della filosofia.

Ah, non vi ho ancora detto che la parola “filosofia” deriva dal greco “philo-sophìa”, che significa: amore (philo) per la sapienza (sophìa).

“Nomen omen”, dicevano i Latini. Se si può dare loro ragione e davvero “il nome è un presagio” – questo vuol dire il proverbio – credo che la prospettiva per voi di studiare filosofia e, allo stesso tempo, diventare i filosofi che in realtà già siete – solo che non sapete di esserlo, “so di non sapere” diceva non a caso Socrate, il maestro di Platone e Aristotele – non sia poi da buttare.

Chiudo con una raccomandazione, mai scontata: studiate e vedrete che staremo bene insieme.

P.S. V’invito a non prendere per “oro colato” qualunque cosa vi dirò nel corso dell’anno. Anzi. Se non vi convince, mettete in discussione le mie ragioni, ma preoccupatevi dopo di convincermi della plausibilità delle vostre. La conoscenza è negoziazione inclusiva, non possesso esclusivo.

Io-Sofi-Harley-2