Meglio la democrazia rappresentativa o quella diretta?

Laddove permangono situazioni di crisi economica, marginalità sociale, problemi d’integrazione degli immigrati in fuga dal “climate change” – in prevalenza per problemi di siccità – e da sanguinose guerre nei Paesi di origine, rancore degli autoctoni immiseriti da uno stato d’inflazione perenne con stipendi sempre fermi e prezzi delle merci – anche di prima necessità – in costante aumento, laddove una o più di queste condizioni persiste, allora avrà ancora senso lottare con tutte le proprie forze contro gli intolleranti-ignoranti di cui è pieno il mondo e la cui madre è sempre incinta.

Ha ancora senso la mediazione attuata dalla democrazia rappresentativa?

Profezia di Gustave Le Bon, avveratasi ai giorni nostri: “Quanto agli uomini di Stato, anziché guidare la nazione cercano soltanto di seguirla. Il loro timore dell’opinione pubblica sfiora a volte il terrore e pregiudica la stabilità della loro condotta” (LE BON, G., “Psychologie des foules”, 1895, trad. it. “Psicologia delle folle”, Tea edizioni, Milano, 2004, p. 187).

I politici odierni sono delle banderuole, cambiano opinione a seconda degli umori mutevoli della folla dei loro elettori. Debolezza, questa, che ritroviamo – in una forma più o meno accresciuta – in tutti i governi democratici. Sarò più chiaro: la caccia al consenso rende i politici ostaggi dei loro elettori e delle promesse fatte loro. Con ciò non mi sogno neanche lontanamente di delegittimare il modello della democrazia parlamentare.

Ad ogni modo, non voglio nemmeno mitologizzarlo, poiché di difetti la democrazia ne ha eccome e ammetterli è proprio nel dna di un democratico. Inoltre, tale ammissione può essere un punto di forza se si è disposti a lavorarci sopra per smussare gli angoli e rendere il funzionamento democratico più performante, che non significa eliminare difetti che le appartengono, tutt’al più diminuirli alleviandone gli effetti. Eliminandoli “in toto” si scadrebbe nel suo opposto: la tirannia. E ciò è ampiamente poco auspicabile per una lunga serie di motivi, il più importante dei quali è: uno Stato dominato da un regime tirannico è più aggressivo con i suoi vicini e tende alla sopraffazione molto più di uno Stato democratico. Già solo questo motivo potrebbe bastare per considerare la democrazia il migliore regime di governo possibile.

Questo non vuol dire che chi vive sotto una democrazia, si deve aspettare come ricompensa la kantiana “pace perpetua” a cui si può credere giusto se si è idealisti scriteriati o semplici creduloni. Azioni aggressive possono e – di fatto – sono commesse anche da democrazie in piena regola; basti pensare agli Stati Uniti della dinastia Bush e alle loro guerre di esportazione dei valori democratici, manco fossero degli iPhone da rivendere in tribali Apple Store sperduti nel deserto.

La pace è un periodo momentaneo d’interruzione tra due guerre? Fin qui la storia ha dimostrato la veridicità di tale asserzione. Auspico – come “quasi” tutti credo – che in futuro le cose andranno diversamente, che sapremo fare tesoro degli sbagli madornali compiuti in passato. Vero è che ad oggi non mancano segnali di tensione, che Dio non voglia potrebbero dare vita a nuovi immaginabili – e inimmaginabili – conflitti. Se c’è un dato inconfutabile sulle guerre è che esse sono imprevedibili, o meglio se ne può pure prevedere l’inizio ma non lo svolgimento, tanto meno la fine. Un esempio? Chi mai si sarebbe sognato che l’uccisione dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando potesse innescare un conflitto di caratura mondiale? Tutto questo per dire che il fatto di essere una democrazia, non impedisce di essere una “democrazia in guerra”, per quanto essa resti il più “pacifico” dei regimi di governo.

Piuttosto un governante democratico tende a fidarsi della diplomazia in misura maggiore di un governante despota. Perciò auguro lunga vita alla democrazia, fermo restando che tutti gli esperimenti di esportazione della medesima sono stati e temo saranno: fallimentari. Un Paese dev’essere maturo al punto giusto per far sì che i semi democratici s’innestino e diano frutto. In caso non lo sia e si voglia forzargli la mano rendendolo a tutti i costi “democratico”, si rischia di fare solo danni, peggiorando la situazione anziché migliorarla. È realpolitik la mia, niente più che sano realismo.

Mi permetto una considerazione generale: la democrazia in sé non è in crisi, anzi. È la democrazia rappresentativa a vacillare. Al contrario gode di ottima salute l’ideale rousseauiano di democrazia diretta, che, però, in quanto “ideale” credo sia destinato a non attecchire sul “reale”, se non scendendo – e di molto – a necessari compromessi. Fare politica senza stringere patti, alleanze, senza mediare fra le parti è impensabile. Poiché la politica è essenzialmente mediazione.

Da realista, quale sono, non credo nella piena efficienza della democrazia diretta. Quella rappresentativa è più attuabile, anche se rimane un compromesso, tutto sommato però accettabile se gli organismi di controllo funzionano.

Ciò detto, sono democratico? Certo, ma anche realista. Un ottimista può essere molto più pericoloso e può fare molti più danni di un pessimista. Quanto può essere ottuso l’ottimismo e quanti danni possa fare ce lo hanno insegnato bene – a loro spese – i leader europei, i quali, a cavallo tra il primo e il secondo conflitto mondiale, si fecero abbindolare dalle promesse hitleriane e le cose poi andarono come tutti ben sappiamo.

Tornando alla domanda iniziale: la mia risposta è senz’altro affermativa, ha senso eccome la democrazia rappresentativa, pur con tutte le sue innegabili e – senza dubbio – migliorabili criticità. La mediazione in politica è fondamentale e una modalità alternativa alla democrazia non ce la possiamo permettere, a meno che non vogliamo il ritorno degli “ismi” del Novecento, di cui non so voi ma io ne ho piene le tasche e che guai a dare per morti. Laddove permangono situazioni di crisi economica, marginalità sociale, problemi d’integrazione degli immigrati in fuga dal “climate change” – in prevalenza per problemi di siccità – e da sanguinose guerre nei Paesi di origine, rancore degli autoctoni immiseriti da uno stato d’inflazione perenne con stipendi sempre fermi e prezzi delle merci – anche di prima necessità – in costante aumento, laddove una o più di queste condizioni persiste, allora avrà ancora senso lottare con tutte le proprie forze contro gli intolleranti-ignoranti di cui è pieno il mondo e la cui madre è sempre incinta.

In ultima analisi, che dire della democrazia diretta se non che è una bella utopia. Il fatto che sia bella, però, non la rende meno utopica.

Le parole sono sopravvalutate

Le parole sono infide, ingannevoli, non hanno peso. Le azioni, quelle sì invece, pesano come macigni. Poi si dovrebbe sempre pensare prima di parlare (ecco perché la raccomandazione di contare almeno fino a dieci), purtroppo però non sempre si ha la lucidità per farlo.

Le parole sono importanti? A sentire il regista Nanni Moretti sì, secondo me sì e no. Se si desse retta a tutte le parole che si dicono, scoppierebbe una guerra ogni minuto nel mondo. Dunque, non sono così importanti e, soprattutto, non sono vincolanti, non per me almeno. Sono il primo ad ammettere che ne dico tante, forse anche troppe di sciocchezze e non vorrei essere giudicato in base a quello che ho detto, ma mi piacerebbe esserlo sulla base di ciò che ho fatto o non fatto (a volte anche “non fare” è un “fare”).
Le parole sono infide, ingannevoli, non hanno peso. Le azioni, quelle sì invece, pesano come macigni. Poi si dovrebbe sempre pensare prima di parlare (ecco perché la raccomandazione di contare almeno fino a dieci), purtroppo però non sempre si ha la lucidità per farlo.
In definitiva: viva le azioni, abbasso le parole!

Come s’insegna la storia?

Reputo utile l’esercizio d’insegnamento di una storia “come se” dovessero viverla i ragazzi. Della serie: come vi comportereste se foste dei sanculotti e faceste fatica a procurare un tozzo di pane per i vostri figli? Vi ribellereste? L’assaltereste o no la Bastiglia? Tagliereste o no la testa al re che ha tramato per far saltare le vostre di teste, tessendo una tela di alleanze con le potenze straniere per restaurare l’ancien regime? Oppure se foste dei cittadini della Germania hitleriana, vi opporreste alle politiche razziali o piuttosto le sosterreste con l’azione o l’inazione (che è la stessa cosa, cambia solo la forma di sostegno)?

In occasione del giorno della memoria, vorrei parlarvi di una modalità alternativa d’insegnamento della storia.

A mio avviso, i ragazzi devono capire che bisogna contestualizzare, immedesimarsi nei panni di chi la storia l’ha vissuta sulla sua pelle, da vittima o da carnefice o da entrambe le cose; e non limitarsi a discettare su di essa trattandola come materia inerte, poiché la storia vive e pulsa dentro di noi.

Reputo utile l’esercizio d’insegnamento di una storia “come se” dovessero viverla i ragazzi. Della serie: come vi comportereste se foste dei sanculotti e faceste fatica a procurare un tozzo di pane per i vostri figli? Vi ribellereste? L’assaltereste o no la Bastiglia? Tagliereste o no la testa al re che ha tramato per far saltare le vostre di teste, tessendo una tela di alleanze con le potenze straniere per restaurare l’ancien regime? Oppure se foste dei cittadini della Germania hitleriana, vi opporreste alle politiche razziali o piuttosto le sosterreste con l’azione o l’inazione (che è la stessa cosa, cambia solo la forma di sostegno)?

Ovvio che di puro esercizio speculativo si tratta, ma quanto meno costringe i ragazzi a osservare quel preciso argomento storico da un altro punto di vista, più impegnato e meno distaccato, con una lente d’ingrandimento soggettiva, non più soltanto oggettiva, che poi quello dell’oggettività o imparzialità in storia è un mito. Per questo può rivelarsi una buona idea servirsi dell’ausilio della “cinestoria”, ovvero del cinema al servizio della storia, proponendo alla classe delle scene selezionate di film significativi; scene ricche di pathos, di epicità, di spunti, capaci di riscaldare gli animi facilmente infiammabili degli alunni. Una volta accesa la fiammella dell’interesse, sarà più facile – non automatico, certo – far appassionare alla materia storica il grosso della classe.

Assodato che la capacità di contestualizzare sia una competenza primaria di chi studia la storia, altra competenza fondamentale della disciplina storica è saper attualizzare, che significa comprendere quei nessi che ci portano dalla storia di ieri alla cronaca di oggi. Per esempio: sicurezza e libertà, perché la prima è sulla bocca dei politici di destra e la seconda su quella dei loro colleghi di sinistra? Da dove discendono queste due differenti visioni politiche? Con lo studio della storia i ragazzi impareranno che deriva tutto da Hobbes e Rousseau, due filosofi. E non è un caso se nei licei italiani a insegnare la storia nel secondo biennio e nel quinto anno siano dei professori di filosofia. Questo perché il legame tra storia e filosofia va ben al di là di Hegel e di Ministri dell’Istruzione hegeliani – vedi il fascista nonché idealista Giovanni Gentile –, risale alla notte dei tempi. La filosofia serve a dare un senso agli eventi storici, che altrimenti sarebbero un’insensata elencazione di fatti slegati che mancano di un filo rosso necessario a orientarsi fra di essi.

In definitiva, credo che la filosofia sia la bussola della storia.

Accettazione stoica e amor fati superomistico

Sia negli stoici sia in Nietzsche vi è un’accettazione della propria condizione. Tuttavia quella degli stoici è un’accettazione passiva, subìta.

Esiste una relazione di vicinanza tra il modo di accettare il fato degli stoici e quello di Nietzsche? No, non credo. Lo stoicismo è fin troppo imparentato con il cristianesimo, la cui “morale” viene definita da Nietzsche senza mezzi termini “da schiavi”. La concezione superomistica nietzscheana è di ben altra pasta. Sia negli stoici sia in Nietzsche vi è un’accettazione della propria condizione. Tuttavia quella degli stoici è un’accettazione passiva, subìta. Basta leggere i “Pensieri” di Marco Aurelio o le “Lettere a Lucilio” di Seneca per desumerlo.

L’amor fati di Nietzsche è invece, dapprima, scelta consapevole, volontaria del proprio destino e, successivamente, legittimazione-accettazione dello stesso. Nietzsche elegge il destino a missione da compiere, a qualunque costo; ragion per cui accettarlo è una scelta volontaria, superomistica appunto. È il Superuomo stesso che si fa carico del destino prescelto, qualsiasi esso sia. Sta qui la grandezza e l’originalità del Superuomo, almeno dal punto di vista del suo teorizzatore.

Volere è davvero potere?

Malgrado la componente casualistica, fatalistica o divina dimostrino la precaria e fragile condizione impressa nella filigrana delle nostre esistenze, non possiamo né dobbiamo prescindere dalla componente volontaristica. Altrimenti significherebbe arrendersi senza lottare, quando la lotta è precisamente la condizione necessaria e ineludibile dello stare al mondo. Al contrario, credo che abbiamo bisogno di sviluppare una volontà ponderata, non onnipotente, commisurata al nostro essere creature a cui è dato un certo tempo – per agire e patire, agire è patire – e abitanti un certo spazio.

Volere è davvero potere? Mi è stato obiettato di tenere troppo in conto il detto baconiano “volere è potere”. Rispondo con quella che a me sembra un’ovvietà: se non vuoi, nemmeno puoi. Non è che puoi senza volere. È tecnicamente difficile, per non dire impossibile; anche se i pubblicitari dell’Adidas risponderebbero sulle rime di un loro famoso spot che “impossible is nothing”. Non so voi, ma ripensando alla mia vita, non posso non convenire che quello che ho, ce l’ho proprio perché l’ho fortemente voluto. Per questo do ragione all’affermazione di Francis Bacon, pur non condividendone l’accezione prometeica (da Prometeo, quello che rubò il fuoco sacro agli dèi per favorire il genere umano e inaugurò così l’èra della tecnica). Direi piuttosto d’interpretare – ogni comprensione non può che essere un’interpretazione soggettiva – l’affermazione baconiana più in chiave psicologico-motivazionale.  Ergo per me: volere – il più delle volte, non sempre – è davvero potere.

Dalla volontà baconiana il passo per arrivare alla volontà di potenza nietzscheana non è breve, ma neppure troppo lungo. Nel mio libro “Filosofi da Oscar” mi avventuro in una disamina del capolavoro nietzscheano, “Così parlò Zarathustra”, in particolare della sezione dell’opera intitolata “La visione e l’enigma”. Qui espongo quella che è secondo me la peculiarità della volontà di potenza nietzscheana intesa come “affermazione suprema della vita, che rifugge il tanfo sepolcrale di un vissuto passivo, parassitario”; Nietzsche infatti “valorizza la vita, in quanto valore accorpante tutti gli altri” (“Filosofi da Oscar”, pp. 48-49). Cos’altro aggiungere se non che: il segreto della volontà come di tutte le cose è nella misura, nel “giusto mezzo” direbbe Aristotele. Perciò volere è bene, eccedere però ci porta dritti ad Auschwitz, a compiere cioè le più nefande aberrazioni in nome di una volontà onnipotente.

Mi viene in mente l’immagine montaliana della storia; immagine, questa, applicabile anche alla storia individuale, non solo a quella universale; la storia dipinta come una catena di anelli che non sempre tengono. Ciò per dire che qualcosa che ci sovrasta e che ci sfugge c’è e – ho motivo di credere – ci sarà sempre. Che sia il caso, il fato o Dio non importa, poiché si tratta di parole diverse che indicano lo stesso, identico dato di fatto, la precarietà e fragilità dell’essere umano.

Malgrado la componente casualistica, fatalistica o divina dimostrino la precaria e fragile condizione impressa nella filigrana delle nostre esistenze, non possiamo né dobbiamo prescindere dalla componente volontaristica. Altrimenti significherebbe arrendersi senza lottare, quando la lotta è precisamente la condizione necessaria e ineludibile dello stare al mondo. Al contrario, credo che abbiamo bisogno di sviluppare una volontà ponderata, non onnipotente, commisurata al nostro essere creature a cui è dato un certo tempo – per agire e patire, agire è patire – e abitanti un certo spazio.

A proposito della sciagurata volontà di potenza nietzscheana, mi viene da dire che il bello – e anche il più grande limite – di Nietzsche è che ciascuno può fornire una chiave interpretativa differente del suo pensiero. A ogni modo, se la potenza dev’essere sopraffazione della altrui volontà per affermare ed espandere la propria, be’, allora credo sia meglio – nel senso di meno dannoso – un pensatore “impotente”. La volontà di sopraffazione è sempre e comunque becera, lo dico pur essendo un grande estimatore di Nietzsche. Ciò non toglie che pure i grandi possono prendere delle “grandi” cantonate. Comunque, riflettendo su Nietzsche, non si può non tenere presente il delicato rapporto tra pensiero e patologia; a volte, nei suoi scritti, a emergere non è tanto la sua genialità quanto la sua condizione patologica.

Detto questo, come mia abitudine, da ogni filosofo, Nietzsche compreso, cerco di prendere quello che per me è il meglio, mettendo da parte ciò che ritengo non lo sia. La volontà di potenza “non” è quanto di “meglio” può offrire la filosofia nietzscheana. Di Nietzsche preferisco prendermi altro, per esempio: la concezione dell’amare il proprio destino, o “amor fati”.

Diventare ciò che si è

Uno dei consigli più utili e azzeccati – almeno secondo me – che Nietzsche ci dà è: divenire ciò che siamo. Realizzare cioè la nostra potenza; ciò che si è in potenza appunto. Purché ciò, però, non comporti sopraffare il potenziale altrui; di contro, la volontà di potenza è uno dei più grandi abbagli di Nietzsche. Occorre semmai competere con la potenza dell’altro per affermare la propria; affermazione, questa, che non coincide con sopraffazione.

Dopotutto due o tre intuizioni sensate “Federico” Nietzsche ce le ha avute. Attenzione, però, il pensiero nietzscheano – come per stessa ammissione dell’autore – è dinamite pura. Ergo: va maneggiato con cura. E oltre a essere dinamitardo, a volte – aggiungo io – va preso con le molle e non come oro colato tutto quello che dice. Cosa, questa, che andrebbe fatta peraltro con qualsiasi filosofo. Essere filosofo infatti non significa essere infallibile, al contrario vuole dire confessare apertamente la propria fallibilità, il famoso “so di non saperesocratico.

Uno dei consigli più utili e azzeccati – almeno secondo me – che Nietzsche ci dà è: divenire ciò che siamo. Realizzare cioè la nostra potenza; ciò che si è in potenza appunto. Purché ciò, però, non comporti sopraffare il potenziale altrui; di contro, la volontà di potenza è uno dei più grandi abbagli di Nietzsche. Occorre semmai competere con la potenza dell’altro per affermare la propria; affermazione, questa, che non coincide con sopraffazione.

In questo decisivo punto sta il mio scarto con il Nietzsche-pensiero, la cui filosofia apprezzo in molti passaggi, pur senza condividerla in toto, anzi. Per questo e per altri aspetti siamo ai lati opposti della barricata. Un esempio su tutti? Lui è un feroce aristocratico, io un incallito democratico.

Riforma della scuola o riformatori da riformare?

A parole – giusto quelle – i politici sembrerebbero cantare tutti o quasi la stessa canzone: chi non investe sulla Scuola, non investe sul futuro del proprio Paese. Peccato, però, che l’attuale classe politica, perlomeno nell’Italia degli ultimi anni, di fatto non fa più politica (intesa come il Bene comune), piuttosto tira a campare (fa il bene proprio).

Mentre tutti parlano di sciopero, oggi, una domanda mi sorge spontanea: e se, anziché riformare la Scuola, riformassimo i riformatori? (Il signore della foto parlerebbe di rottamazione…) Alcuni cambiamenti nascondono dei peggioramenti. Un esempio? Le ultime riforme della Scuola. Questo succede quando si vuole far passare, con un bieco tranello del Legislatore: il messaggio di un riformismo progressista orgogliosamente sbandierato, quando in realtà dietro c’è solo un miope disegno di taglio indiscriminato. Laddove ci sono comparti, come la Scuola, che, più che di tagli, necessiterebbero di continui investimenti.

A parole – giusto quelle – i politici sembrerebbero cantare tutti o quasi la stessa canzone: chi non investe sulla Scuola, non investe sul futuro del proprio Paese. Peccato, però, che l’attuale classe politica, perlomeno nell’Italia degli ultimi anni, di fatto non fa più politica (intesa come il Bene comune), piuttosto tira a campare (fa il bene proprio).

Il problema della politica italiana è che a forza di vivacchiare, delle uova oggi (accalappiare consensi), si è scordata della gallina domani (come si governa). E Dio solo sa quanto la nostra malridotta Italia ha bisogno di galline domani. Quindi, ricapitolando: cos’è che secondo me manca alla politica italiana, oggi? Un orizzonte ideale al quale aggrapparsi per combattere la miseria del reale, che, di questo passo, può solo peggiorare.

La forza (benefica) delle illusioni

Dunque, secondo me, non tutte le illusioni vengono per nuocere; alcune sono indispensabili per vivere. Un esempio? Prendiamo Freud, uno dei tre “maestri del sospetto” (gli altri due sono Marx e Nietzsche), stando a Derrida. Dei tre è forse quello che ci va giù più duro nel condannare le illusioni. La sua intera teoria psicanalitica che cos’è se non un’illusione di controllo? Freud si è illuso di poter vivere senza illusioni rendendo l’uomo consapevole dei suoi limiti “in quanto uomo”. E che cos’è questa consapevolezza – appunto – se non un’illusione di controllo? L’illusione di chi si sente in pieno controllo del proprio destino, quando poi tutti – in cuor nostro – sappiamo bene che è il caso, il fato o Dio ad avere il controllo sulle nostre vite. E se persino Freud, il paladino dei disillusi, s’illudeva, non c’è che arrendersi all’evidenza: l’illusione ci è necessaria per non impazzire, vista la realtà fondamentalmente inaccettabile della vita, la morte. Piaccia o meno tutti abbiamo bisogno d’illuderci per non spararci un colpo in testa alla maniera di Kirillov, uno dei protagonisti dei “Demoni” di Dostoevskij. D’altronde se non ci si potesse illudere, che senso avrebbe vivere?

L’uomo acquisisce la consapevolezza del proprio essere “nel” tempo la prima volta che fa esperienza della morte. La morte di una persona a noi vicina, o anche di un animale domestico, perfora il “velo di Maya” delle illusioni. Anche se questa consapevolezza deve durare il tempo di un bagliore, poiché per poter vivere – checché se ne dica – ciascuno di noi ha bisogno di alimentare la più dolce e irreale delle illusioni: pensare alla morte come se fosse una cosa a noi “estranea”, che riguarda solo gli altri. Perché questo? Il pensiero della nostra morte ci è intollerabile.

Dunque, secondo me, non tutte le illusioni vengono per nuocere; alcune sono indispensabili per vivere. Un esempio? Prendiamo Freud, uno dei tre “maestri del sospetto” (gli altri due sono Marx e Nietzsche), stando a Derrida. Dei tre è forse quello che ci va giù più duro nel condannare le illusioni. La sua intera teoria psicanalitica che cos’è se non un’illusione di controllo? Freud si è illuso di poter vivere senza illusioni rendendo l’uomo consapevole dei suoi limiti “in quanto uomo”. E che cos’è questa consapevolezza – appunto – se non un’illusione di controllo? L’illusione di chi si sente in pieno controllo del proprio destino, quando poi tutti – in cuor nostro – sappiamo bene che è il caso, il fato o Dio ad avere il controllo sulle nostre vite. E se persino Freud, il paladino dei disillusi, s’illudeva, non c’è che arrendersi all’evidenza: l’illusione ci è necessaria per non impazzire, vista la realtà fondamentalmente inaccettabile della vita, la morte. Piaccia o meno tutti abbiamo bisogno d’illuderci per non spararci un colpo in testa alla maniera di Kirillov, uno dei protagonisti dei “Demoni” di Dostoevskij. D’altronde se non ci si potesse illudere, che senso avrebbe vivere?

Inoltre, le illusioni sono anche importanti per alzare l’asticella dei propri obiettivi. A dare retta alla magra realtà, tutti ci dovremmo accontentare della solita minestra riscaldata. Ecco, le illusioni sono il pepe che dà sapore alla vita. Ovvio che ogni tanto tocca pure fare i conti con la realtà. Ma solo “ogni tanto”, troppo spesso non fa bene e, di sicuro, non aiuta.

L’eccesso è sempre sbagliato, sia esso di realtà o d’illusioni. In questo mi rifaccio ad Aristotele e predico anch’io la via mediana come la più opportuna.

Per chiudere il cerchio del mio ragionamento: la vita è troppo amara senza la dolcezza zuccherosa delle illusioni.

Talento, genio e teoria del flusso

Pensando a certi geni che volano alti sulle ali della loro arte, mi è venuto in mente lo studio di uno psicologo dal nome impronunciabile: Mihály Csíkszentmihályi, ideatore della teoria del flusso. Questi analizzando il “modus operandi” degli artisti, si accorse che, talmente presi dalla loro arte, si dimenticavano di tutto – persino dei loro bisogni primari: mangiare, dormire, eccetera – per lunghissimi periodi di tempo. Csíkszentmihályi definì questo tipo di attività: “autotelica”, ossia che trova già in sé il suo scopo, la sua raison d’etre.

“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può” diceva Ernest Hello ripreso poi da Carmelo Bene, che aggiunse su se stesso: “Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. Bell’aforisma, che invita alla riflessione. Il genio è un essere umano molto abile. Dunque: vista la sua natura immanente – non è certo un dio, tutt’al più un essere umano che ci azzecca più degli altri –, se non vorrebbe nulla, non potrebbe nulla, ma rimarrebbe uno dei tanti – troppi – geni incompresi che ci sono a questo mondo. Mia opinione, opinabilissima peraltro.

Pensando a certi geni che volano alti sulle ali della loro arte, mi è venuto in mente lo studio di uno psicologo dal nome impronunciabile: Mihály Csíkszentmihályi, ideatore della teoria del flusso. Questi analizzando il “modus operandi” degli artisti, si accorse che, talmente presi dalla loro arte, si dimenticavano di tutto – persino dei loro bisogni primari: mangiare, dormire, eccetera – per lunghissimi periodi di tempo. Csíkszentmihályi definì questo tipo di attività: “autotelica”, ossia che trova già in sé il suo scopo, la sua raison d’etre.

Da romanziere e anche ex sportivo mi è capitato di sperimentarla. Queste attività autoteliche ci fanno vivere dei momenti di grazia nei quali si è concentrati corpo e anima su quello che si sta facendo. In simili momenti tutto trova giustificazione in sé e ci si sente completamente immersi in quello che si sta facendo.

Perché tiro in ballo questo? Perché mi convince poco l’aforisma di Hello. Perché anche il genio o il talento che vive immerso in questo transitorio stato di grazia autotelica, prima o poi, subisce un brusco risveglio. Per esempio, sempre stando ai risultati dello studio di Csíkszentmihályi: finita la propria tela, consumatasi la propria attività autotelica, l’artista poi quasi se ne disinteressa, come se nemmeno l’avesse creata lui o, comunque, non le dà un’importanza commisurata allo sforzo compiuto per realizzarla. A causa di questi “bruschi risvegli”, quindi, credo che momenti di autocoscienza ce li abbiano tutti, geni compresi o incompresi, che poi – detto fra noi – sempre geni sono.

Esercizio di critica e autocritica per il nuovo anno

Esiste un modo per sgonfiare l’ego ed essere meno io-centrici. Trovate dieci valide ragioni per criticare il vostro libro o film o serie preferita. Fatto questo, trovate altrettanti motivi per criticare voi stessi. A quale scopo? Tutto può essere criticato, tutti possono essere criticati, ma criticare non significa distruggere qualcosa o qualcuno (non necessariamente almeno), bensì capire che niente, nessuno è perfetto. Occorre prendere consapevolezza di ciò che ci sta attorno e di sé. Per farne cosa? Migliorare il mondo e migliorarsi.