Del fine che giustifica i mezzi

Una divisione manichea tra bene e male è un lusso che si può permettere solo chi non governa. Le esigenze cambiano e con esse anche ciò che è giusto o non è giusto fare. A volte ciò che è giusto potrebbe essere ciò che in termini cristiani si definisce male. Allo stesso tempo, però, sembrare buono in senso cristiano è fondamentale per il principe, che deve “apparire religioso”.

“Un principe […] non deve realmente possedere tutte le qualità, ma deve far credere di averle” (p. 167). Perché “[…] se le ha e le usa sempre, gli sono dannose.” Mentre: “Se fa credere di averle, gli sono utili” (p. 167). Per giunta: “[…] egli è spesso obbligato, per mantenere il potere, a operare contro la lealtà, contro la carità, contro l’umanità, contro la religione.” Quindi, ecco la stoccata finale che stronca qualsiasi tentativo di buonismo nell’interpretare il pensiero machiavellico: “[…] non si allontani dal bene, quando può, ma sappia entrare nel male, quando vi è costretto” (p. 169).

Una divisione manichea tra bene e male è un lusso che si può permettere solo chi non governa. Le esigenze cambiano e con esse anche ciò che è giusto o non è giusto fare. A volte ciò che è giusto potrebbe essere ciò che in termini cristiani si definisce male. Allo stesso tempo, però, sembrare buono in senso cristiano è fondamentale per il principe, che deve “apparire religioso”. Questo perché: “Gli uomini, in generale, giudicano più con gli occhi che con le mani, perché tutti vedono e pochi toccano con mano.”

A questo punto Machiavelli esprime quel concetto poi semplificato nella formula “il fine giustifica i mezzi”. Le sue esatte parole: “Nel giudicare le azioni degli uomini, e soprattutto dei prìncipi […] non si guarda ai mezzi, ma al fine. Il principe faccia quel che occorre per vincere e conservare il potere. I mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e lodati da ognuno […]” (p. 169). Per cui: “il fine giustifica i mezzi” non è che la parafrasi più convincente del passo appena citato.

Della volpe, del leone e di quanto la lealtà sia sopravvalutata per uno statista

Sarebbe bello se tutti fossero leali con il prossimo, il mondo sarebbe un posto migliore, pace e serenità per tutti ma, affinché tutto vada liscio e questo clima di distensione duri, la conditio sine qua non sarebbe che tutti, nessuno escluso, viaggiassero sulla stessa pacifica e serena lunghezza d’onda; basterebbe anche solo una stecca fuori dal coro, un solo essere umano sleale per mandare tutto a rotoli. Dunque, sarebbe bello sì, possibile…

La lealtà è sopravvaluta secondo Machiavelli. Prova ne sono queste parole: “Ognuno sa quanto sia lodevole, per un principe, essere leale e vivere con onestà, non con l’inganno. L’esperienza dei nostri tempi ci insegna tuttavia che i prìncipi, i quali hanno tenuto poco conto della parola data e ingannato le menti degli uomini, hanno anche saputo compiere grandi imprese e sono alla fine riusciti a prevalere su coloro che si sono invece fondati sulla lealtà” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 165). Della serie: la lealtà è uno scomodo vestito pruriginoso, che a volte va tolto per sentire meno prurito. Sarebbe bello se tutti fossero leali con il prossimo, il mondo sarebbe un posto migliore, pace e serenità per tutti ma, affinché tutto vada liscio e questo clima di distensione duri, la conditio sine qua non sarebbe che tutti, nessuno escluso, viaggiassero sulla stessa pacifica e serena lunghezza d’onda; basterebbe anche solo una stecca fuori dal coro, un solo essere umano sleale per mandare tutto a rotoli. Dunque, sarebbe bello sì, possibile…

A proposito dei modi di combattere, Machiavelli dice che ne esistono di due tipi: “[…] l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Il primo modo appartiene all’uomo, il secondo alle bestie. Ma poiché molte volte il primo modo non basta, conviene ricorrere al secondo. È pertanto necessario che un principe sappia servirsi dei mezzi adatti sia alla bestia sia all’uomo” (p. 165). Giocoforza: “Il principe è dunque costretto a saper essere bestia e deve imitare la volpe e il leone. Dato che il leone non si difende dalle trappole e la volpe non si difende dai lupi, bisogna essere volpe per riconoscere le trappole, e leone per impaurire i lupi. Coloro che si limitano a essere leoni non conoscono l’arte di governare” (pp. 165-166).

Due esempi del tutto arbitrari, due di tanti che si possono fare: Attila, re degli Unni; Garibaldi, eroe dei due mondi. Il primo fu un formidabile guerriero, però incapace di vedere oltre la successiva battaglia. Il secondo non fu secondo a nessuno in coraggio e spirito battagliero, ma dovette inginocchiarsi al cospetto di un reuccio piemontese. La loro natura leonina è lampante, solo con quella però non si governano gli uomini in tempo di pace, quando i nemici sono camuffati da amici e occorre il fiuto della volpe per stanarli. Per sconfiggere i nemici sul campo di battaglia un principe deve dare libero sfogo alla sua natura leonesca, per governare quella volpesca.

Ha senso essere leali in tutto e per tutto? Si direbbe proprio di no per Machiavelli: “Un signore prudente […] non può né deve rispettare la parola data se tale rispetto lo danneggia e se sono venute meno le ragioni che lo indussero a promettere. Se gli uomini fossero tutti buoni,” solito discorso, “questa regola non sarebbe buona. Ma poiché gli uomini sono cattivi e non manterrebbero nei tuoi confronti la parola data, neppure tu devi mantenerla con loro” (p. 167). Insomma, la prudenza non è mai troppa. Opportunismo machiavellico derivato da un pessimismo antropologico di fondo sulla base del quale: rispettare la parola data conviene solo se non va contro i propri interessi. Ragionamento spietato? Senza dubbio.

Un secolo dopo Machiavelli, un simile modo di ragionare verrà riproposto dal cardinale Richelieu, che per salvaguardare l’interesse nazionale francese (o “ragion di Stato”), pur essendo lui membro del clero cattolico e di un Paese cattolicissimo si allea furbescamente – massimo esempio di “natura volpina” – con le potenze protestanti per vincere la guerra dei Trent’anni e per spostare l’equilibrio di potenza europeo in favore della sua Francia. Si può dire che quello che Machiavelli teorizza, Richelieu lo realizza. Per gli uomini di ieri, di oggi e di ogni tempo risuona profetico questo passo de “Il principe”: “[…] chi meglio ha saputo farsi volpe, meglio è riuscito ad aver successo. Ma è necessario saper mascherare bene questa natura volpina ed essere grandi simulatori e dissimulatori. Gli uomini sono così ingenui e legati alle esigenze del momento che colui il quale vuole ingannare troverà sempre chi si lascerà ingannare” (p. 167). L’ammirazione di Machiavelli per Cesare Borgia è estesa anche – seppure in misura più contenuta – al padre papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia. Di quest’ultimo Machiavelli afferma: “Non ci fu mai uomo che promettesse con così grande efficacia, che giurasse con altrettanto fervore e che poi mancasse di parola come lui” (p. 167).

Mancare la parola data è un comportamento meschino? Secondo la morale lo è. In politica – in determinate circostanze – può essere un modo di agire da statista.

Risicare per non rosicare

Adattarsi significa saper assecondare la corrente e non intestardirsi a nuotare controcorrente manco si fosse dei salmoni ostinati. La corrente va assecondata e non combattuta. Se si segue questo accorgimento, si preserva un proprio spazio di manovra per incidere sugli accadimenti, senz’altro limitato, questo sì, è indubbio, ma pur sempre meglio che nessuno spazio.

Che la “fortuna” giochi un ruolo cruciale nelle nostre vite è innegabile. Ciò detto, che spazio rimane al “libero arbitrio” dell’essere umano? Machiavelli dice che: “[…] affinché il libero arbitrio non sia completamente cancellato, ritengo possa esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, e che essa lasci a noi il governo dell’altra metà, o quasi.” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 217.) Con questo “quasi” non sembrerebbe troppo convinto, pur ammettendo che una buona parte – poco importa se la “metà” precisa – della sua “fortuna” l’uomo se la crea facendo buon uso del “libero arbitrio” di cui dispone. Quindi aggiunge: “E paragono la fortuna a uno di quei fiumi impetuosi che, quando s’infuriano, allagano le pianure, abbattono gli alberi e gli edifici, trascinano masse di terra da una parte all’altra […] Il fatto che i fiumi siano fatti così non impedisce tuttavia agli uomini, nei periodi calmi, di apprestare ripari e argini in modo che, quando i fiumi poi crescono, possano essere incanalati e il loro impeto possa non risultare così sfrenato e dannoso” (pp. 217-219). Costruire “ripari e argini” sempre più contenitivi ed efficienti rimane l’unica cosa da fare all’uomo previdente, che non vuole farsi trovare impreparato dinnanzi al precipitare degli eventi.

È tutta questione di adattarsi o soccombere, secondo Machiavelli, che lo dice con queste parole: “Ritengo inoltre che abbia successo colui che adatta metodi e mezzi alla qualità dei tempi, e analogamente che vada incontro all’insuccesso colui che viceversa non sa adattarsi ai tempi” (p. 219). Adattarsi significa saper assecondare la corrente e non intestardirsi a nuotare controcorrente manco si fosse dei salmoni ostinati. La corrente va assecondata e non combattuta. Se si segue questo accorgimento, si preserva un proprio spazio di manovra per incidere sugli accadimenti, senz’altro limitato, questo sì, è indubbio, ma pur sempre meglio che nessuno spazio. Un’altra metafora può correre in soccorso per capire meglio questo passaggio de “Il principe”. S’immagini di essere un abile marinaio, che sa manovrare con maestria impareggiabile la propria imbarcazione, ma che – nondimeno – è in mare aperto nel bel mezzo di una burrasca. Le chances di cavarsela non dipenderanno soltanto dalla sua pur eccezionale abilità, molta parte – la “metà” o poco più – nella salvezza o meno del marinaio l’avrà l’elemento marino che lo domina e di cui lui è in balia. Cinquanta e cinquanta, nella migliore delle ipotesi: il suddetto marinaio avrà il cinquanta per cento di possibilità di scamparla, però com’è vero che non dipende solo da lui, è pur vero e ragionevole dire che dipende anche da lui.

Bizzarrie della “fortuna”, sentenzia Machiavelli, “[…] magari vediamo che due persone possono aver successo con due modi di comportarsi completamente diversi, dato che per esempio una di queste persone è cauta e l’altra impetuosa. La ragione va trovata nel fatto che esista oppur no un rapporto armonico tra l’operato di queste persone e il carattere dei tempi” (pp. 219-221). Cambiano i tempi e con essi cambiano pure i comportamenti più adatti da tenere. Chi si adegua ha successo, chi no fallisce. Perciò Machiavelli invita a “cambiare coi tempi” per non cambiare in peggio la propria “fortuna” e definisce anche “[…] la variabile del successo: che se uno si comporta con cautela e pazienza nei tempi che esigono queste qualità, allora gli va bene; ma se i tempi cambiano e non cambia anche i suoi comportamenti, allora gli va male” (p. 221). Quindi, a chi recita come un mantra la litania che “andrà tutto bene” per autoconvincersi della buona riuscita di un’impresa, occorre ribadire – sulla scorta dell’insegnamento machiavellico – che “andrà tutto bene” anche se lui lo vorrà e farà in modo con le sue azioni virtuose che così vada. Con la consapevolezza, però, che non dipenderà solo da lui, visto l’influsso della “fortuna” nelle vicende umane. A ogni modo, dovrebbe consolarlo l’idea che per buona parte dipenderà anche da lui (e non è poco).

Per concludere: “[…] se la fortuna è mutevole e gli uomini, viceversa, si ostinano a usare sempre gli stessi metodi, è anche vero che gli uomini hanno successo finché metodi e tempi concordano, e vanno verso l’insuccesso in caso contrario.” Dunque “[…] meglio essere impetuosi piuttosto che cauti, perché la fortuna è donna […]” e per questo motivo, secondo la ristretta e maschilista visione di Machiavelli, figlia di un tempo in cui il maschilismo era ancora più accentuato che nel presente: “Essa si lascia dominare dagli impetuosi, piuttosto che da coloro che si comportano con freddezza. Ecco perché, come donna, essa è amica dei giovani, che sono meno cauti, più impavidi e più audaci nel comandarla” (p. 223). In realtà qui Machiavelli riformula il detto latino riconducibile a uno degli esametri incompiuti di Virgilio secondo il quale: “Audentes fortuna iuvat”. Traduzione: “La fortuna aiuta gli audaci”. Rivisitato nel dannunziano: “Memento audere semper”. Tradotto: “Ricordati di osare sempre”. O il meno raffinato e pure meno fascista (che non guasta), ma di uguale significato: “Chi non risica, non rosica”. I giovani risicano, i vecchi rosicano. Insomma, una storia vecchia come il mondo.