Meglio la democrazia rappresentativa o quella diretta?

Laddove permangono situazioni di crisi economica, marginalità sociale, problemi d’integrazione degli immigrati in fuga dal “climate change” – in prevalenza per problemi di siccità – e da sanguinose guerre nei Paesi di origine, rancore degli autoctoni immiseriti da uno stato d’inflazione perenne con stipendi sempre fermi e prezzi delle merci – anche di prima necessità – in costante aumento, laddove una o più di queste condizioni persiste, allora avrà ancora senso lottare con tutte le proprie forze contro gli intolleranti-ignoranti di cui è pieno il mondo e la cui madre è sempre incinta.

Ha ancora senso la mediazione attuata dalla democrazia rappresentativa?

Profezia di Gustave Le Bon, avveratasi ai giorni nostri: “Quanto agli uomini di Stato, anziché guidare la nazione cercano soltanto di seguirla. Il loro timore dell’opinione pubblica sfiora a volte il terrore e pregiudica la stabilità della loro condotta” (LE BON, G., “Psychologie des foules”, 1895, trad. it. “Psicologia delle folle”, Tea edizioni, Milano, 2004, p. 187).

I politici odierni sono delle banderuole, cambiano opinione a seconda degli umori mutevoli della folla dei loro elettori. Debolezza, questa, che ritroviamo – in una forma più o meno accresciuta – in tutti i governi democratici. Sarò più chiaro: la caccia al consenso rende i politici ostaggi dei loro elettori e delle promesse fatte loro. Con ciò non mi sogno neanche lontanamente di delegittimare il modello della democrazia parlamentare.

Ad ogni modo, non voglio nemmeno mitologizzarlo, poiché di difetti la democrazia ne ha eccome e ammetterli è proprio nel dna di un democratico. Inoltre, tale ammissione può essere un punto di forza se si è disposti a lavorarci sopra per smussare gli angoli e rendere il funzionamento democratico più performante, che non significa eliminare difetti che le appartengono, tutt’al più diminuirli alleviandone gli effetti. Eliminandoli “in toto” si scadrebbe nel suo opposto: la tirannia. E ciò è ampiamente poco auspicabile per una lunga serie di motivi, il più importante dei quali è: uno Stato dominato da un regime tirannico è più aggressivo con i suoi vicini e tende alla sopraffazione molto più di uno Stato democratico. Già solo questo motivo potrebbe bastare per considerare la democrazia il migliore regime di governo possibile.

Questo non vuol dire che chi vive sotto una democrazia, si deve aspettare come ricompensa la kantiana “pace perpetua” a cui si può credere giusto se si è idealisti scriteriati o semplici creduloni. Azioni aggressive possono e – di fatto – sono commesse anche da democrazie in piena regola; basti pensare agli Stati Uniti della dinastia Bush e alle loro guerre di esportazione dei valori democratici, manco fossero degli iPhone da rivendere in tribali Apple Store sperduti nel deserto.

La pace è un periodo momentaneo d’interruzione tra due guerre? Fin qui la storia ha dimostrato la veridicità di tale asserzione. Auspico – come “quasi” tutti credo – che in futuro le cose andranno diversamente, che sapremo fare tesoro degli sbagli madornali compiuti in passato. Vero è che ad oggi non mancano segnali di tensione, che Dio non voglia potrebbero dare vita a nuovi immaginabili – e inimmaginabili – conflitti. Se c’è un dato inconfutabile sulle guerre è che esse sono imprevedibili, o meglio se ne può pure prevedere l’inizio ma non lo svolgimento, tanto meno la fine. Un esempio? Chi mai si sarebbe sognato che l’uccisione dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando potesse innescare un conflitto di caratura mondiale? Tutto questo per dire che il fatto di essere una democrazia, non impedisce di essere una “democrazia in guerra”, per quanto essa resti il più “pacifico” dei regimi di governo.

Piuttosto un governante democratico tende a fidarsi della diplomazia in misura maggiore di un governante despota. Perciò auguro lunga vita alla democrazia, fermo restando che tutti gli esperimenti di esportazione della medesima sono stati e temo saranno: fallimentari. Un Paese dev’essere maturo al punto giusto per far sì che i semi democratici s’innestino e diano frutto. In caso non lo sia e si voglia forzargli la mano rendendolo a tutti i costi “democratico”, si rischia di fare solo danni, peggiorando la situazione anziché migliorarla. È realpolitik la mia, niente più che sano realismo.

Mi permetto una considerazione generale: la democrazia in sé non è in crisi, anzi. È la democrazia rappresentativa a vacillare. Al contrario gode di ottima salute l’ideale rousseauiano di democrazia diretta, che, però, in quanto “ideale” credo sia destinato a non attecchire sul “reale”, se non scendendo – e di molto – a necessari compromessi. Fare politica senza stringere patti, alleanze, senza mediare fra le parti è impensabile. Poiché la politica è essenzialmente mediazione.

Da realista, quale sono, non credo nella piena efficienza della democrazia diretta. Quella rappresentativa è più attuabile, anche se rimane un compromesso, tutto sommato però accettabile se gli organismi di controllo funzionano.

Ciò detto, sono democratico? Certo, ma anche realista. Un ottimista può essere molto più pericoloso e può fare molti più danni di un pessimista. Quanto può essere ottuso l’ottimismo e quanti danni possa fare ce lo hanno insegnato bene – a loro spese – i leader europei, i quali, a cavallo tra il primo e il secondo conflitto mondiale, si fecero abbindolare dalle promesse hitleriane e le cose poi andarono come tutti ben sappiamo.

Tornando alla domanda iniziale: la mia risposta è senz’altro affermativa, ha senso eccome la democrazia rappresentativa, pur con tutte le sue innegabili e – senza dubbio – migliorabili criticità. La mediazione in politica è fondamentale e una modalità alternativa alla democrazia non ce la possiamo permettere, a meno che non vogliamo il ritorno degli “ismi” del Novecento, di cui non so voi ma io ne ho piene le tasche e che guai a dare per morti. Laddove permangono situazioni di crisi economica, marginalità sociale, problemi d’integrazione degli immigrati in fuga dal “climate change” – in prevalenza per problemi di siccità – e da sanguinose guerre nei Paesi di origine, rancore degli autoctoni immiseriti da uno stato d’inflazione perenne con stipendi sempre fermi e prezzi delle merci – anche di prima necessità – in costante aumento, laddove una o più di queste condizioni persiste, allora avrà ancora senso lottare con tutte le proprie forze contro gli intolleranti-ignoranti di cui è pieno il mondo e la cui madre è sempre incinta.

In ultima analisi, che dire della democrazia diretta se non che è una bella utopia. Il fatto che sia bella, però, non la rende meno utopica.

Come s’insegna la storia?

Reputo utile l’esercizio d’insegnamento di una storia “come se” dovessero viverla i ragazzi. Della serie: come vi comportereste se foste dei sanculotti e faceste fatica a procurare un tozzo di pane per i vostri figli? Vi ribellereste? L’assaltereste o no la Bastiglia? Tagliereste o no la testa al re che ha tramato per far saltare le vostre di teste, tessendo una tela di alleanze con le potenze straniere per restaurare l’ancien regime? Oppure se foste dei cittadini della Germania hitleriana, vi opporreste alle politiche razziali o piuttosto le sosterreste con l’azione o l’inazione (che è la stessa cosa, cambia solo la forma di sostegno)?

In occasione del giorno della memoria, vorrei parlarvi di una modalità alternativa d’insegnamento della storia.

A mio avviso, i ragazzi devono capire che bisogna contestualizzare, immedesimarsi nei panni di chi la storia l’ha vissuta sulla sua pelle, da vittima o da carnefice o da entrambe le cose; e non limitarsi a discettare su di essa trattandola come materia inerte, poiché la storia vive e pulsa dentro di noi.

Reputo utile l’esercizio d’insegnamento di una storia “come se” dovessero viverla i ragazzi. Della serie: come vi comportereste se foste dei sanculotti e faceste fatica a procurare un tozzo di pane per i vostri figli? Vi ribellereste? L’assaltereste o no la Bastiglia? Tagliereste o no la testa al re che ha tramato per far saltare le vostre di teste, tessendo una tela di alleanze con le potenze straniere per restaurare l’ancien regime? Oppure se foste dei cittadini della Germania hitleriana, vi opporreste alle politiche razziali o piuttosto le sosterreste con l’azione o l’inazione (che è la stessa cosa, cambia solo la forma di sostegno)?

Ovvio che di puro esercizio speculativo si tratta, ma quanto meno costringe i ragazzi a osservare quel preciso argomento storico da un altro punto di vista, più impegnato e meno distaccato, con una lente d’ingrandimento soggettiva, non più soltanto oggettiva, che poi quello dell’oggettività o imparzialità in storia è un mito. Per questo può rivelarsi una buona idea servirsi dell’ausilio della “cinestoria”, ovvero del cinema al servizio della storia, proponendo alla classe delle scene selezionate di film significativi; scene ricche di pathos, di epicità, di spunti, capaci di riscaldare gli animi facilmente infiammabili degli alunni. Una volta accesa la fiammella dell’interesse, sarà più facile – non automatico, certo – far appassionare alla materia storica il grosso della classe.

Assodato che la capacità di contestualizzare sia una competenza primaria di chi studia la storia, altra competenza fondamentale della disciplina storica è saper attualizzare, che significa comprendere quei nessi che ci portano dalla storia di ieri alla cronaca di oggi. Per esempio: sicurezza e libertà, perché la prima è sulla bocca dei politici di destra e la seconda su quella dei loro colleghi di sinistra? Da dove discendono queste due differenti visioni politiche? Con lo studio della storia i ragazzi impareranno che deriva tutto da Hobbes e Rousseau, due filosofi. E non è un caso se nei licei italiani a insegnare la storia nel secondo biennio e nel quinto anno siano dei professori di filosofia. Questo perché il legame tra storia e filosofia va ben al di là di Hegel e di Ministri dell’Istruzione hegeliani – vedi il fascista nonché idealista Giovanni Gentile –, risale alla notte dei tempi. La filosofia serve a dare un senso agli eventi storici, che altrimenti sarebbero un’insensata elencazione di fatti slegati che mancano di un filo rosso necessario a orientarsi fra di essi.

In definitiva, credo che la filosofia sia la bussola della storia.

Accettazione stoica e amor fati superomistico

Sia negli stoici sia in Nietzsche vi è un’accettazione della propria condizione. Tuttavia quella degli stoici è un’accettazione passiva, subìta.

Esiste una relazione di vicinanza tra il modo di accettare il fato degli stoici e quello di Nietzsche? No, non credo. Lo stoicismo è fin troppo imparentato con il cristianesimo, la cui “morale” viene definita da Nietzsche senza mezzi termini “da schiavi”. La concezione superomistica nietzscheana è di ben altra pasta. Sia negli stoici sia in Nietzsche vi è un’accettazione della propria condizione. Tuttavia quella degli stoici è un’accettazione passiva, subìta. Basta leggere i “Pensieri” di Marco Aurelio o le “Lettere a Lucilio” di Seneca per desumerlo.

L’amor fati di Nietzsche è invece, dapprima, scelta consapevole, volontaria del proprio destino e, successivamente, legittimazione-accettazione dello stesso. Nietzsche elegge il destino a missione da compiere, a qualunque costo; ragion per cui accettarlo è una scelta volontaria, superomistica appunto. È il Superuomo stesso che si fa carico del destino prescelto, qualsiasi esso sia. Sta qui la grandezza e l’originalità del Superuomo, almeno dal punto di vista del suo teorizzatore.

Volere è davvero potere?

Malgrado la componente casualistica, fatalistica o divina dimostrino la precaria e fragile condizione impressa nella filigrana delle nostre esistenze, non possiamo né dobbiamo prescindere dalla componente volontaristica. Altrimenti significherebbe arrendersi senza lottare, quando la lotta è precisamente la condizione necessaria e ineludibile dello stare al mondo. Al contrario, credo che abbiamo bisogno di sviluppare una volontà ponderata, non onnipotente, commisurata al nostro essere creature a cui è dato un certo tempo – per agire e patire, agire è patire – e abitanti un certo spazio.

Volere è davvero potere? Mi è stato obiettato di tenere troppo in conto il detto baconiano “volere è potere”. Rispondo con quella che a me sembra un’ovvietà: se non vuoi, nemmeno puoi. Non è che puoi senza volere. È tecnicamente difficile, per non dire impossibile; anche se i pubblicitari dell’Adidas risponderebbero sulle rime di un loro famoso spot che “impossible is nothing”. Non so voi, ma ripensando alla mia vita, non posso non convenire che quello che ho, ce l’ho proprio perché l’ho fortemente voluto. Per questo do ragione all’affermazione di Francis Bacon, pur non condividendone l’accezione prometeica (da Prometeo, quello che rubò il fuoco sacro agli dèi per favorire il genere umano e inaugurò così l’èra della tecnica). Direi piuttosto d’interpretare – ogni comprensione non può che essere un’interpretazione soggettiva – l’affermazione baconiana più in chiave psicologico-motivazionale.  Ergo per me: volere – il più delle volte, non sempre – è davvero potere.

Dalla volontà baconiana il passo per arrivare alla volontà di potenza nietzscheana non è breve, ma neppure troppo lungo. Nel mio libro “Filosofi da Oscar” mi avventuro in una disamina del capolavoro nietzscheano, “Così parlò Zarathustra”, in particolare della sezione dell’opera intitolata “La visione e l’enigma”. Qui espongo quella che è secondo me la peculiarità della volontà di potenza nietzscheana intesa come “affermazione suprema della vita, che rifugge il tanfo sepolcrale di un vissuto passivo, parassitario”; Nietzsche infatti “valorizza la vita, in quanto valore accorpante tutti gli altri” (“Filosofi da Oscar”, pp. 48-49). Cos’altro aggiungere se non che: il segreto della volontà come di tutte le cose è nella misura, nel “giusto mezzo” direbbe Aristotele. Perciò volere è bene, eccedere però ci porta dritti ad Auschwitz, a compiere cioè le più nefande aberrazioni in nome di una volontà onnipotente.

Mi viene in mente l’immagine montaliana della storia; immagine, questa, applicabile anche alla storia individuale, non solo a quella universale; la storia dipinta come una catena di anelli che non sempre tengono. Ciò per dire che qualcosa che ci sovrasta e che ci sfugge c’è e – ho motivo di credere – ci sarà sempre. Che sia il caso, il fato o Dio non importa, poiché si tratta di parole diverse che indicano lo stesso, identico dato di fatto, la precarietà e fragilità dell’essere umano.

Malgrado la componente casualistica, fatalistica o divina dimostrino la precaria e fragile condizione impressa nella filigrana delle nostre esistenze, non possiamo né dobbiamo prescindere dalla componente volontaristica. Altrimenti significherebbe arrendersi senza lottare, quando la lotta è precisamente la condizione necessaria e ineludibile dello stare al mondo. Al contrario, credo che abbiamo bisogno di sviluppare una volontà ponderata, non onnipotente, commisurata al nostro essere creature a cui è dato un certo tempo – per agire e patire, agire è patire – e abitanti un certo spazio.

A proposito della sciagurata volontà di potenza nietzscheana, mi viene da dire che il bello – e anche il più grande limite – di Nietzsche è che ciascuno può fornire una chiave interpretativa differente del suo pensiero. A ogni modo, se la potenza dev’essere sopraffazione della altrui volontà per affermare ed espandere la propria, be’, allora credo sia meglio – nel senso di meno dannoso – un pensatore “impotente”. La volontà di sopraffazione è sempre e comunque becera, lo dico pur essendo un grande estimatore di Nietzsche. Ciò non toglie che pure i grandi possono prendere delle “grandi” cantonate. Comunque, riflettendo su Nietzsche, non si può non tenere presente il delicato rapporto tra pensiero e patologia; a volte, nei suoi scritti, a emergere non è tanto la sua genialità quanto la sua condizione patologica.

Detto questo, come mia abitudine, da ogni filosofo, Nietzsche compreso, cerco di prendere quello che per me è il meglio, mettendo da parte ciò che ritengo non lo sia. La volontà di potenza “non” è quanto di “meglio” può offrire la filosofia nietzscheana. Di Nietzsche preferisco prendermi altro, per esempio: la concezione dell’amare il proprio destino, o “amor fati”.

Diventare ciò che si è

Uno dei consigli più utili e azzeccati – almeno secondo me – che Nietzsche ci dà è: divenire ciò che siamo. Realizzare cioè la nostra potenza; ciò che si è in potenza appunto. Purché ciò, però, non comporti sopraffare il potenziale altrui; di contro, la volontà di potenza è uno dei più grandi abbagli di Nietzsche. Occorre semmai competere con la potenza dell’altro per affermare la propria; affermazione, questa, che non coincide con sopraffazione.

Dopotutto due o tre intuizioni sensate “Federico” Nietzsche ce le ha avute. Attenzione, però, il pensiero nietzscheano – come per stessa ammissione dell’autore – è dinamite pura. Ergo: va maneggiato con cura. E oltre a essere dinamitardo, a volte – aggiungo io – va preso con le molle e non come oro colato tutto quello che dice. Cosa, questa, che andrebbe fatta peraltro con qualsiasi filosofo. Essere filosofo infatti non significa essere infallibile, al contrario vuole dire confessare apertamente la propria fallibilità, il famoso “so di non saperesocratico.

Uno dei consigli più utili e azzeccati – almeno secondo me – che Nietzsche ci dà è: divenire ciò che siamo. Realizzare cioè la nostra potenza; ciò che si è in potenza appunto. Purché ciò, però, non comporti sopraffare il potenziale altrui; di contro, la volontà di potenza è uno dei più grandi abbagli di Nietzsche. Occorre semmai competere con la potenza dell’altro per affermare la propria; affermazione, questa, che non coincide con sopraffazione.

In questo decisivo punto sta il mio scarto con il Nietzsche-pensiero, la cui filosofia apprezzo in molti passaggi, pur senza condividerla in toto, anzi. Per questo e per altri aspetti siamo ai lati opposti della barricata. Un esempio su tutti? Lui è un feroce aristocratico, io un incallito democratico.

La forza (benefica) delle illusioni

Dunque, secondo me, non tutte le illusioni vengono per nuocere; alcune sono indispensabili per vivere. Un esempio? Prendiamo Freud, uno dei tre “maestri del sospetto” (gli altri due sono Marx e Nietzsche), stando a Derrida. Dei tre è forse quello che ci va giù più duro nel condannare le illusioni. La sua intera teoria psicanalitica che cos’è se non un’illusione di controllo? Freud si è illuso di poter vivere senza illusioni rendendo l’uomo consapevole dei suoi limiti “in quanto uomo”. E che cos’è questa consapevolezza – appunto – se non un’illusione di controllo? L’illusione di chi si sente in pieno controllo del proprio destino, quando poi tutti – in cuor nostro – sappiamo bene che è il caso, il fato o Dio ad avere il controllo sulle nostre vite. E se persino Freud, il paladino dei disillusi, s’illudeva, non c’è che arrendersi all’evidenza: l’illusione ci è necessaria per non impazzire, vista la realtà fondamentalmente inaccettabile della vita, la morte. Piaccia o meno tutti abbiamo bisogno d’illuderci per non spararci un colpo in testa alla maniera di Kirillov, uno dei protagonisti dei “Demoni” di Dostoevskij. D’altronde se non ci si potesse illudere, che senso avrebbe vivere?

L’uomo acquisisce la consapevolezza del proprio essere “nel” tempo la prima volta che fa esperienza della morte. La morte di una persona a noi vicina, o anche di un animale domestico, perfora il “velo di Maya” delle illusioni. Anche se questa consapevolezza deve durare il tempo di un bagliore, poiché per poter vivere – checché se ne dica – ciascuno di noi ha bisogno di alimentare la più dolce e irreale delle illusioni: pensare alla morte come se fosse una cosa a noi “estranea”, che riguarda solo gli altri. Perché questo? Il pensiero della nostra morte ci è intollerabile.

Dunque, secondo me, non tutte le illusioni vengono per nuocere; alcune sono indispensabili per vivere. Un esempio? Prendiamo Freud, uno dei tre “maestri del sospetto” (gli altri due sono Marx e Nietzsche), stando a Derrida. Dei tre è forse quello che ci va giù più duro nel condannare le illusioni. La sua intera teoria psicanalitica che cos’è se non un’illusione di controllo? Freud si è illuso di poter vivere senza illusioni rendendo l’uomo consapevole dei suoi limiti “in quanto uomo”. E che cos’è questa consapevolezza – appunto – se non un’illusione di controllo? L’illusione di chi si sente in pieno controllo del proprio destino, quando poi tutti – in cuor nostro – sappiamo bene che è il caso, il fato o Dio ad avere il controllo sulle nostre vite. E se persino Freud, il paladino dei disillusi, s’illudeva, non c’è che arrendersi all’evidenza: l’illusione ci è necessaria per non impazzire, vista la realtà fondamentalmente inaccettabile della vita, la morte. Piaccia o meno tutti abbiamo bisogno d’illuderci per non spararci un colpo in testa alla maniera di Kirillov, uno dei protagonisti dei “Demoni” di Dostoevskij. D’altronde se non ci si potesse illudere, che senso avrebbe vivere?

Inoltre, le illusioni sono anche importanti per alzare l’asticella dei propri obiettivi. A dare retta alla magra realtà, tutti ci dovremmo accontentare della solita minestra riscaldata. Ecco, le illusioni sono il pepe che dà sapore alla vita. Ovvio che ogni tanto tocca pure fare i conti con la realtà. Ma solo “ogni tanto”, troppo spesso non fa bene e, di sicuro, non aiuta.

L’eccesso è sempre sbagliato, sia esso di realtà o d’illusioni. In questo mi rifaccio ad Aristotele e predico anch’io la via mediana come la più opportuna.

Per chiudere il cerchio del mio ragionamento: la vita è troppo amara senza la dolcezza zuccherosa delle illusioni.

Il mito dell’imparzialità

Nelle materie umanistiche, e nell’insegnamento delle stesse, la neutralità è una solenne baggianata. Piuttosto direi che per esporre il proprio (inevitabile) punto di vista il buon insegnante assume un atteggiamento intelligente e moderato; inoltre, non teme di negoziare le proprie idee; anche perché proprio dal confronto con i propri allievi – insegnare è condividere, l’insegnamento infatti sarebbe inconcepibile senza un reciproco “do ut des” – potrebbe uscirne umanamente arricchito.

Nelle materie umanistiche, e nell’insegnamento delle stesse, la neutralità è una solenne baggianata. Piuttosto direi che per esporre il proprio (inevitabile) punto di vista il buon insegnante assume un atteggiamento intelligente e moderato; inoltre, non teme di negoziare le proprie idee; anche perché proprio dal confronto con i propri allievi – insegnare è condividere, l’insegnamento infatti sarebbe inconcepibile senza un reciproco “do ut des” – potrebbe uscirne umanamente arricchito.

Che l’insegnamento sia retto dal principio “dell’intelligenza sociale”, ce lo conferma pure John Dewey, intendendo appunto con essa: l’imprescindibile e fruttuoso gioco del “dare e avere”. Non c’è insegnante che non dà senza ricevere in cambio, e viceversa.

Anche Jerome Bruner si esprime in tal senso, quando dice: “L’idea […] che sia possibile trattare un argomento di carattere ‘umanistico’ senza palesare il proprio atteggiamento nei confronti di problemi che toccano la sostanza profonda dell’uomo è chiaramente assurda. […] Ciò di cui abbiamo bisogno, infatti, è una base per discutere non solo il contenuto di ciò che sta davanti a noi, ma anche gli atteggiamenti che è possibile prendere nei suoi confronti” (p. 158).

Quindi, si può essere insegnanti di lettere, filosofia, storia, arte, eccetera, e nello stesso tempo rimanere imparziali? La mia risposta è no; non solo la mia, viste le autorevoli opinioni che vi ho riportate. Si può invece essere equilibrati, pur nella propria inevitabile parzialità? Sì, se si è sufficientemente accorti e se non si ritengono le proprie idee dotate del marchio distintivo dell’infallibilità.

D’altra parte, essere umani significa essere appunto “fallibili”. L’infallibilità è prerogativa della divinità, che sta lassù, nell’alto dei cieli. Per chi ci crede. (Io sono fra questi.)

I tre modi d’insegnamento della filosofia

Fra questi tre modi d’insegnamento prediligo quello “per analogie”, pur combinandolo – di tanto in tanto – con gli altri due. Perché? Favorisce il naturale filosofare – fare filosofia cioè – degli allievi. Chi “studia” soltanto, dimentica. Chi “fa” anche, capisce. Studiare non basta, serve capire. Come dico sempre ai miei studenti: “Sono contento che studiate, ma m’interessa di più che capiate…”.

Secondo me ci sono tre modalità d’insegnamento della filosofia: per definizioni, per problemi, per analogie.

L’insegnamento per “definizioni” ha il merito di essere più accurato e rispondente agli autori di cui si effettua la mediazione didattica – di Platone se si sta spiegando Platone, di Aristotele se si sta spiegando Aristotele e così via –, per contro, però, risulta forse troppo lontano dall’esperienza di vita dei discenti.

L’insegnamento per “problemi” è simile a quello della matematica, senonché è il metodo dell’indagine piuttosto che il risultato della stessa che conta per la filosofia.

L’insegnamento per “analogie” è quello sul quale vorrei dilungarmi. Il vantaggio più marcato è la fascinazione. Con il procedimento analogico, per esempio, nel caso si stia affrontando come argomento Platone, si potrebbe portare i propri alunni a paragonare l’idea di Bene in sé al Sole. Entrambi – infatti – sia il Bene sia il Sole illuminano, sono “illuminanti”. Nel libro VII della “Repubblica”, quello del mito della caverna, per intenderci, viene proposta questa suggestiva corrispondenza metaforica tra il Sole e il Bene in sé. Lo svantaggio di questa modalità è la difficoltosa trasposizione mentale dei significati da un piano a un altro. Ricordiamo che, sempre restando a Platone, l’uso di analogie era comprensibile nell’ottica del dualismo. Egli non a caso riconosceva un mondo sensibile delle cose – per esempio, tavolo, cane, uomo, eccetera –, e un mondo soprasensibile delle idee – per restare nell’esempio, idea di tavolo, cane, uomo e via elencando. È incontestabile che, quando si vuole rendere qualcosa con qualcos’altro, un qualche torto lo si produca. Si può tuttavia ovviare a questo “presunto” torto facendo capire ai ragazzi il concetto di proporzionalità: il Sole sta alle realtà sensibili così come l’idea di Bene in sé sta a quelle soprasensibili.

Ciascuno di questi tre metodi d’insegnamento afferisce a una precisa branca filosofica.

L’insegnamento per definizioni è proprio della “logica”.

L’insegnamento per problemi riguarda “l’etica”.

L’insegnamento per analogie rientra nella “teoretica”.

Fra questi tre modi d’insegnamento prediligo quello “per analogie”, pur combinandolo – di tanto in tanto – con gli altri due. Perché? Favorisce il naturale filosofarefare filosofia cioè – degli allievi. Chi “studia” soltanto, dimentica. Chi “fa” anche, capisce. Studiare non basta, serve capire. Come dico sempre ai miei studenti: “Sono contento che studiate, ma m’interessa di più che capiate…”.

Vivere è scegliere

In definitiva, la filosofia, insegnandoci a porre le domande giuste, a dubitare e ad anelare alla conoscenza, ci fa prendere meno abbagli e ci allena a operare le scelte migliori. Se ha ragione Kierkegaard, che afferma che vivere è sostanzialmente scegliere – e io credo ce l’abbia –, la filosofia, o meglio, l’arte filosofica è il più valido allenamento possibile; allenamento al quale nessuno dovrebbe sottrarsi e che è rivolto a tutte le età. Ogni età è buona per filosofare. Anzi. Più tardi si comincia, più decisioni sbagliate si rischia di collezionare nel frattempo.

A mio modo di vedere l’insegnamento della filosofia sottende una premessa irrinunciabile e tre peculiarità imprescindibili.

La premessa è che si tratta di una scienza “non scientifica”, intendendo con ciò la sua lontananza dall’esattezza e la sua vicinanza all’approssimazione – malgrado alcune categorie di filosofi potrebbero dissentire, comprensibilmente dal loro “punto di vista” –, infatti, le generalizzazioni filosofiche sono più simili a un’approssimazione di come stanno le cose piuttosto che a una fedele fotografia del mondo. Scienze come l’ingegneria, la biologia, la chimica, la fisica, eccetera, sono sì queste da ritenersi “esatte”. Anche se sarebbe più opportuno coniare per esse un termine apposito quale “esattibili”. Quant’è vero che non esiste perfezione al mondo ma perfettibilità. Con ciò non significa che queste scienze “esattibili” non facciano mai delle approssimazioni, ma devono ridurle al minimo per potere agire efficacemente e fare ciò per cui sono state ideate. La filosofia altresì non ha il vincolo della “esattibilità”, tutt’al più della “plausibilità”. Una riflessione filosofica infatti o è “plausibile” o non lo è – e, se lo è, può e deve cavalcare a briglia sciolte, come Furia cavallo del West. Riprendendo una celebre suggestione dostoevskijana e adattandola alla filosofia, si potrebbe dire che in essa il due più due non fa necessariamente quattro, ma può anche fare cinque o sei o qualsiasi altro numero.

La prima peculiarità ha a che fare con l’arte. Infatti, oltre che scienza seppure non scientifica, la filosofia è soprattutto un’arte. A essere precisi, l’arte che insegna a porsi le domande giuste, che spesso sono anche le più scomode. Per le risposte “demanda” il compito ad altre discipline, le cosiddette scienze queste sì esatte, o che almeno tendono all’esattezza e per le quali due più due è bene che faccia quattro.  È mio parere che il mondo necessiti di entrambe, sia di quelle esatte sia di quelle meno interessate all’esattezza, come la filosofia.

Che caratteristiche deve avere una domanda “giusta”, o, per meglio dire, “filosofica”? Di solito s’interroga sul “che cosa” di una cosa. Si direbbe uno scioglilingua, anche se in realtà è molto semplice. Per esempio, alcune domande filosofiche possono essere: che cos’è una famiglia? Che cos’è il tempo? Che cos’è la vita? Che cos’è la morte? Sono quattro di numerosi esempi che si possono fare, che, penso, rendono bene l’idea. Sono domande che partono tutte dal “cos’è” di una “cosa”.

La seconda peculiarità è che, come caratteristica della propria arte, la filosofia non si accontenta del porre le domande cosiddette “giuste”, ma impartisce anche una lezione alla quale tutti gli uomini dovrebbero prestare attenzione: insegna a “dubitare” di tutto. Tanto per essere chiaro, “cogito ergo sum” lo ha sì detto in età moderna Cartesio, ma esso era già contenuto “in nuce” nel modo di filosofare del padre della filosofia, Socrate, e in maniera un po’ più embrionale lo si può rintracciare persino nei Presocratici, la cui grandezza non è giusto sminuire, per non parlare di Pirrone, padre dello Scetticismo.

Perché dubitare è tanto importante? Perché permette di vagliare, con il prezioso scandaglio della ragione, ogni aspetto e sfaccettatura della propria vita, incrementando così esponenzialmente le probabilità di prendere decisioni “qualitativamente” migliori.

La terza peculiarità della filosofia riguarda l’essere sempre “filosofia della”: logica, linguaggio, scienza, estetica, politica, teoretica, etica, morale, eccetera. Al contrario di quanto se ne possa pensare, ciò ne costituisce la forza e non la debolezza. Anzi, a dirla tutta, la filosofia non è mai stata: filosofia-e-basta, ma sempre e comunque filosofia-di-qualcosa. Si pensi al mito della nascita di Eros ovvero della filosofia, così come viene enunciato nel “Simposio” platonico. La tensione erotica della filosofia ne è sempre stata la caratteristica saliente. Eros/filosofia è infatti figlio di Poros/espediente ma anche di Penia/povertà. Pur essendo predisposto, da parte di padre, alla conoscenza, ne è tuttavia mancante, come la madre. Per questo aspira alla sapienza. E non si aspira a qualcosa che si possiede già. Se fosse sapiente Eros/filosofia non avvertirebbe il bisogno di ricercarla.

In definitiva, la filosofia, insegnandoci a porre le domande giuste, a dubitare e ad anelare alla conoscenza, ci fa prendere meno abbagli e ci allena a operare le scelte migliori. Se ha ragione Kierkegaard, che afferma che vivere è sostanzialmente scegliere – e io credo ce l’abbia –, la filosofia, o meglio, l’arte filosofica è il più valido allenamento possibile; allenamento al quale nessuno dovrebbe sottrarsi e che è rivolto a tutte le età. Ogni età è buona per filosofare. Anzi. Più tardi si comincia, più decisioni sbagliate si rischia di collezionare nel frattempo.

Per fortuna esiste una “philosophy for children”. Perché infatti ostinarsi a volare basso, pretendere il minimo livello di apprendimento, quando basterebbe osare per allargare gli orizzonti dei più piccoli, i futuri abitanti del domani? Chi si accontenta in ambito educativo e didattico commette un torto contro i suoi allievi, che vorrebbero osare, cercare sentieri poco battuti e che, invece, si vedono frustrati nelle loro aspettative. Pertanto, la parola d’ordine nello schema binario insegnamento-apprendimento dovrebbe essere: “osare”. Per farlo occorre che l’insegnante abbia il coraggio e la voglia di farlo (“volere è potere”, diceva Bacone).

Perché osare? Perché se non osassimo non potremmo mai aspirare alla saggezza. In fondo, che cos’è la saggezza se non porsi di continuo, in ogni occasione, la domanda: “Ho davvero pensato a tutto?”. A più opzioni si pensa prima di scegliere o no una determinata cosa, se farla o non farla, e migliore potrà essere la decisione che alla fine si prenderà.

Costruire una “forma mentis” filosofica aiuta a estendere i propri orizzonti che altrimenti sarebbero più limitati, aiuta a pensare a più dimensioni, finanche in 4D! In maniera tale da avere dei fenomeni biologici e degli accadimenti storici una panoramica globale.

A che serve una “forma mentis” filosofica? Innanzitutto a scegliere bene, quando si sarà costretti a scegliere; obbligo al quale, come insegna Kierkegaard, siamo sottoposti senza tregua.

Dunque, essere umani equivale a essere nelle condizioni di dover scegliere, in ogni istante della propria vita. Motivo per cui: vivere è scegliere.

Missione insegnamento

Il tanto di moda storytelling – l’arte di narrare e, soprattutto, di narrarsi – cos’altro è se non un metodo basato sull’esempio di vita per far capire a chi ti ascolta, perché vuole imparare, che quel contenuto che gli stai comunicando è qualcosa di fondamentale per lui, di perfettamente aderente al suo vissuto quotidiano. Un professore che fa buon uso dello storytelling veicola un basilare messaggio ai propri allievi: chi parla è un essere umano come loro, che insegna partendo dalla sua esperienza di vita, che non abita in una torre d’avorio dalla quale discende a fatica per diffondere il suo verbo e che, finita la lezione, non vede l’ora di ritornarsene lassù, nelle alture da cui proviene. Un insegnamento privo del famigerato storytelling, di propri aneddoti in pratica, manca dell’ingrediente più imprescindibile: la passione.

L’insegnamento è una missione? Certamente lo è. Chi non lo vive come una missione, in tutta probabilità sta facendo questo mestiere per ripiego (doveva fare l’astronauta ma non ha passato i test fisici quindi “si accontenta” d’insegnare fisica a dei liceali) o per opportunismo (voleva fare il calciatore ma siccome ha i piedi storti “si limita” a insegnare scienze motorie a dei pischelli).

Come s’insegna? È una parola. Non esistono ricette preconfezionate e non è che siccome mi sta simpatico il professor Keating de “L’attimo fuggente”, allora mi metto in piedi sopra la cattedra e lascio che inneggino a me come a “Oh capitano, / mio capitano”. Sarei un tantino megalomane a pensare anche solo per un momento questo. Un conto è Hollywood, ben altro paio di maniche è la realtà.

Volare bassi, sempre e comunque, questo è il mio motto. Non fosse per altro, basti la banale evidenza – lo capisce pure un bambino – che, volando bassi, se putacaso ci si dovesse schiantare per terra, forse – e dico “forse” – non ci si romperebbe l’osso del collo.

In tutta franchezza, non credo esistano manuali di didattica che facciano al caso di chicchessia. Per come la vedo io: spalle larghe e pedalare. Piuttosto, per essere agevolati nella pedalata, ci si può lasciare ispirare da individui particolarmente dotati che due o tre cose sensate sull’insegnamento le hanno dette. Copiare e incollare il loro pensiero però non funziona, troppo facile.

Ogni insegnante può parlare per sé soltanto e dire com’è che fa lui a insegnare. Il mio credo didattico è molto semplice, forse è l’unica roba in cui sono minimalista: parto sempre da esempi vicini alle esperienze concrete di vita testate ogni giorno dai ragazzi. Così facendo cerco – non so se ci riesco, anche se lo spero tanto – di metterli nelle migliori condizioni per maturare un apprendimento, vale a dire: produrre una trasformazione della materia appresa. Solo trasformandola, infatti, si può dimostrare di saperla padroneggiare. Perciò lo studio “a pappagallo”, ripetendo parola per parola la lezioncina del sottoscritto o del libro di testo a mo’ di recita scolastica, lo disprezzo perché così si disimpara a pensare. Oltretutto studiare in questa maniera non serve a niente, se non ad accumulare laddove invece bisognerebbe catalogare con ordine gerarchico (qualitativo) i contenuti appresi.

Alcuni bastian contrari potrebbero obiettare che servirebbe quanto meno ad allenare la memoria. Tuttavia, non è poi vero nemmeno questo. Una lezione imparata a forza, con il bastone e senza la carota insomma, sono piuttosto convinto che si tenda a dimenticarla con più facilità di un’altra fatta di esempi vivi, pulsanti. Perché? L’apprendimento mnemonico scivola via, non coinvolge, è distante anni luce dalla vita reale. E non dimentichiamoci il sacro comandamento di Dewey: la scuola non prepara alla vita, è già vita.

Il tanto di moda storytelling – l’arte di narrare e, soprattutto, di narrarsi – cos’altro è se non un metodo basato sull’esempio di vita per far capire a chi ti ascolta, perché vuole imparare, che quel contenuto che gli stai comunicando è qualcosa di fondamentale per lui, di perfettamente aderente al suo vissuto quotidiano. Un professore che fa buon uso dello storytelling veicola un basilare messaggio ai propri allievi: chi parla è un essere umano come loro, che insegna partendo dalla sua esperienza di vita, che non abita in una torre d’avorio dalla quale discende a fatica per diffondere il suo verbo e che, finita la lezione, non vede l’ora di ritornarsene lassù, nelle alture da cui proviene. Un insegnamento privo del famigerato storytelling, di propri aneddoti in pratica, manca dell’ingrediente più imprescindibile: la passione.

Tutti noi – o quasi – che insegniamo vorremmo appassionare. Come fare? È difficile, certo, ma – direi – alla portata di chi ha buona volontà. Noi insegnanti siamo esseri umani e come tali intrisi di debolezze, come e più anche dei nostri allievi. Quindi non possiamo avere lo stesso alto rendimento ogni giorno, ogni lezione, è da pazzi anche solo pensarlo. Ci sono volte in cui siamo meno comunicativi di una lucertola, o magari ci impappiniamo, o più semplicemente siamo stanchi. Eppure nei cosiddetti “giorni no” bisogna essere ancora più abili ad appassionare che nei “giorni sì”. Perché sempre e comunque la passione per quello che si sta comunicando è il paracadute di ogni insegnante che si rispetti.

Laddove termina la passione, comincia il burnout e forse miglior cosa sarebbe lasciar perdere ‘sto lavoro, se non fosse che si deve pur mangiare (non di sola aria fritta vive l’uomo) e lo Stato fa finta di non vedere l’ovvio: l’insegnamento è un mestiere duro, sfiancante e merita un riconoscimento speciale perché nelle mani degli insegnanti c’è il futuro del Paese. Un insegnante stanco, demotivato è un peso che nessuna nazione si può permettere. In gioco ci sono le motivazioni di giovani che, proprio visto il contesto di crisi odierno e gli scenari futuri non proprio idilliaci (ma quando mai è stato roseo il futuro?), hanno a maggior ragione bisogno di insegnanti certamente preparati, ma ancora di più motivati. (Sul grado di preparazione dei neoimmessi o futuri immessi in ruolo scusate l’eccessiva franchezza ma, visto che ne so qualcosa: manca solo ci chiedano una TAC total body per quanto siamo stati testati da abilitazioni, concorsi, anni di prova, altre lauree, master, corsi di aggiornamento e chi più ne ha più ne metta.)

Che brutta parola è l’inglese storytelling e va bene che noi italiani siamo da sempre storicamente esterofili per vocazione, ma forse oggi stiamo un po’ esagerando. Bello è bello sapere l’inglese, il tedesco, lo spagnolo, il francese, il cinese mandarino e anche il giapponese arancino (che ovviamente non esiste ma, chiedo venia, non ho saputo resistere), però non una brutta cosa sarebbe se i nostri studenti conoscessero non dico alla perfezione (che non è di questo mondo), quanto meno un tantino meglio la loro tanto disprezzata lingua: l’italiano. E poi, lasciatemelo dire: se non siamo un po’ fieri noi italiani della nostra lingua, chi pretendiamo che lo siano gli svizzeri del Canton Ticino?

A parte il fatto, dunque, che un po’ mi stona il suono anglofilo della parola “storytelling”, il suo significato è invece musica per le mie orecchie. Questo perché un bravo professore secondo me dev’essere un po’ uno “storyteller”, deve fare suo il metodo narrativo, del saper raccontare e raccontarsi. Tale metodo mi pare più funzionale a un modello didattico incentrato sulla tanto decantata – da Montaigne prima e da Morin dopo – “testa ben fatta” di gran lunga preferibile a quella “ben piena”.

L’apprendimento più duraturo, pertanto, quello che dura una vita intera, sortisce effetti solo quando lo si avverte come indispensabile, quand’è percepito come autotelico (da “telòs”, scopo), ovvero: autogiustificante. Motivo per cui un insegnante appassionato e motivato tenta di far emergere il valore autotelico della propria disciplina. Dico “tenta” perché a volte ci si può provare e pure riuscire, ma non sempre. Anche se si avrà avuto successo poche volte e con pochi soggetti, ne sarà comunque valsa la pena. È di persone che si parla quando ci si riferisce ai destinatari dell’insegnamento, gli studenti. Formarne anche uno solo con una “testa ben fatta” significa già molto non solo per colui che ne avrà beneficiato (il soggetto in questione), ma per tutta la collettività, perché magari si tratterà proprio di quello che porterà l’umanità su Marte o Dio solo sa su quale altro pianeta o sperduta galassia preservandola da estinzione certa.

Per ogni Luke Skywalker in circolazione, ci sarà sempre un più o meno verdognolo maestro Yoda. E, lo confesso, a me schifo non farebbe diventare lo Yoda di qualcuno, se questo potrebbe voler dire salvarci dalla Morte Nera e dai Dart Fener di ‘sto mondo.

Mi sono un po’ lasciato prendere (lo ammetto), ma un bel “chi se ne” non guasta e chiudo – senza troppi peli sulla lingua – con un augurio rivolto ai miei Jedi (i miei studenti): che la forza sia con voi!