Meglio essere amati o temuti?

La parola d’ordine per il “principe saggio” è dipendere da sé e dalle proprie forze, non confidare che altri possano risolvere i suoi problemi, dimostrarsi risoluto, forte e – perché no – crudele all’occorrenza.

Inevitabile sorge il dilemma: “[…] se sia meglio essere amati piuttosto che temuti, o se sia meglio esser temuti piuttosto che amati” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 159). Continua Machiavelli: “La risposta è che si vorrebbe essere l’una e l’altra cosa, ma poiché è difficile mettere insieme le due cose, risulta molto più sicuro, dovendo scegliere, esser temuti piuttosto che amati” (p. 161). Perché? Il motivo è da ricercarsi nel pessimismo antropologico di Machiavelli, che più che “pessimismo” vero e proprio andrebbe considerato: realismo. Ovvero: l’uomo è tutto fuorché buono. Se alcune volte sembra tentato dal bene e lo compie anche, questa è da ritenersi un’eccezione, che non cambia la regola, ossia il male ha più forza di attrattiva del bene per l’uomo. Lo conferma in maniera inequivocabile Machiavelli stesso dicendo: “Gli uomini hanno meno timore di colpire uno che si faccia amare, piuttosto che uno che si faccia temere. L’amore è infatti sorretto da un vincolo di riconoscenza che gli uomini, essendo malvagi, possono spezzare ogniqualvolta faccia loro comodo. Il timore, invece, è sorretto dalla paura di essere punito, che non ti abbandona mai” (p. 161). Farsi temere è bene, farsi odiare no, dunque.

Sempre Machiavelli rintuzza il suo affondo nei confronti della bontà cristiana aggiungendo: “Il principe deve farsi temere in modo tale che, pur senza farsi amare, gli riesca tuttavia di non farsi odiare. Si può essere temuti e allo stesso tempo non odiati. E anzi il principe riuscirà sempre a raggiungere questo risultato se rispetterà i beni dei suoi cittadini e dei suoi sudditi, nonché le loro donne […] Si astenga soprattutto dal prendere la roba degli altri, perché gli uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio” (p. 161). Insomma, si perdona meglio un assassino di un ladro, stando a Machiavelli. È senz’altro ovvio, ancorché non per tutti scontato, che queste parole di Machiavelli vadano soppesate e contestualizzate all’interno di una più ampia cornice storica machiavellica più di quanto Machiavelli stesso sia mai stato; con l’espressione “machiavellica” s’intende la banalizzazione che di Machiavelli si è fatto nel corso dei secoli, tramutandolo in quello che “non” è mai stato, almeno non personalmente, ovvero, una sorta di genio del male, ispiratore – seppure non esecutore – di mille e più efferatezze. Machiavelli è non colpevole dall’accusa di avere agito in vita da “machiavellico”.

Si è detto volutamente non colpevole piuttosto che innocente. Questo perché l’innocenza è un’altra cosa rispetto alla non colpevolezza. Chi può davvero definirsi “innocente”? Oltretutto, bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato di “innocenza”. In un senso stretto, dal momento che si viene al mondo, nessuno è del tutto innocente. Secondo la vulgata cristiana: il peccato originale è una palla al piede che tutti ci trasciniamo dietro nel nostro cammino di vita. Poi senz’altro dipende da noi risultare più o meno peccatori, ovvero: più o meno malvagi. Con un esercizio di tutt’altro che sterile retorica, si potrebbe riutilizzare – e rovesciare – il celebre argomento di Sant’Agostino sul male, da lui definito un deficit di bene. Come? Facile, sostenendo che il bene è nient’altro che una carenza di male. Come si può ben vedere, la questione dell’innocenza di qualcuno è cosa ben più astratta, che interessa più la metafisica che la filosofia politica, che tratta degli uomini, di quello che “sono” e non di ciò che “dovrebbero essere”.

Machiavelli precisa che “[…] gli uomini, mentre amano secondo la volontà loro, temono secondo la volontà del principe” (p. 165). Motivo per cui: “Un principe saggio […] deve fondarsi su quel che dipende dalla volontà sua, non dalla volontà altrui. Deve soltanto cercare di non farsi odiare, come ho già detto” (p. 165). La parola d’ordine per il “principe saggio” è dipendere da sé e dalle proprie forze, non confidare che altri possano risolvere i suoi problemi, dimostrarsi risoluto, forte e – perché no – crudele all’occorrenza. L’essenziale è che la crudeltà non sia gratuita, ma sempre ben motivata da una causa di forza maggiore.

La crudeltà quanto basta

La conditio sine qua non per condurre vittoriosamente degli uomini in battaglia è farsi rispettare da essi e per rendere possibile ciò la crudeltà è solo un mezzo in vista di un fine più grande: la vittoria.

Nel capitolo diciassette de “Il principeMachiavelli ammette l’idea di una crudeltà necessaria (in politica). La prende da lontano cominciando col dire: “[…] ogni principe deve desiderare di essere giudicato clemente, e non crudele” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 159). Poi però prosegue: “Tuttavia deve badare a non far cattivo uso della clemenza. Cesare Borgia era ritenuto crudele; cionondimeno la sua crudeltà riportava l’ordine in Romagna, la unificava, la pacificava e la rendeva fedele. Si vedrà che alla fine il Borgia fu più umano dei Fiorentini i quali, per evitare di essere crudeli, lasciarono che le fazioni provocassero la rovina di Pistoia” (p. 159).

Come dev’essere allora un buon principe, intendendo con “buono” uno che sopra ogni altra cosa voglia fare il bene del suo popolo e non solo il proprio? La risposta ce l’ha Machiavelli ed è: “Infliggendo un piccolo numero di punizioni esemplari, risulterà più umano di coloro i quali, per eccessiva umanità, lasciano scoppiare disordini da cui derivano uccisioni o rapine. Queste, di solito, colpiscono l’insieme dei cittadini, mentre le condanne del principe colpiscono il singolo individuo” (p. 159). Quelli a essere più soggetti a questa “crudeltà necessaria” – sebbene ponderata – sono gli “Stati nuovi”, che sono per loro stessa natura più instabili e inclini – quindi – a ricorrere alla violenza come extrema ratio per sanare conflitti interni che potrebbero minarne l’unità.

Oltretutto per un principe che intende suscitare il rispetto delle truppe una certa dose di crudeltà ben distillata non solo è necessaria ma anche richiesta, perché: “Senza questa reputazione non gli sarebbe possibile tener uniti gli eserciti e indurli a combattere.” Un condottiero del passato che teneva alla reputazione di venire considerato “crudele” era Annibale. Tale reputazione “[…] fece sì che i soldati lo considerassero sempre venerabile e terribile. Senza la crudeltà, le altre sue capacità politiche non sarebbero bastate a ottenere questo risultato. Gli storici, alquanto sconsideratamente, ammirano il risultato e nello stesso tempo condannano la prima causa di esso” (p. 163). Il successo di un’impresa bellica quasi sempre è stato ottenuto con mezzi poco raffinati e i condottieri – come Annibale – non si sono fatti scrupoli di adoperarli per raggiungere il loro scopo. La conditio sine qua non per condurre vittoriosamente degli uomini in battaglia è farsi rispettare da essi e per rendere possibile ciò la crudeltà è solo un mezzo in vista di un fine più grande: la vittoria.

In conclusione, la crudeltà è necessaria per Machiavelli? Quanto basta, come nelle ricette di cucina.

Il dovere di schierarsi

Se c’è una cosa che insegna la storia è che: ogni status quo ha i giorni contati. In storia la stasi è solo mera apparenza. Anche quando le bocce sembrano ferme, in realtà si muovono, anche fosse in maniera impercettibile.

Schierarsi è bene, restare neutrali è male. Perché? Lo spiega Machiavelli: “E succederà sempre che chi non è amico ti chiederà di esser neutrale, e chi ti è amico ti chiederà di dichiarar guerra. I prìncipi indecisi, per evitare i pericoli presenti, decidono il più delle volte di restare neutrali, e il più delle volte precipitano” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 203).

In caso di situazione incerta, la neutralità sarà sempre l’opzione più sconsigliabile. Infatti, anche si andasse in guerra e si perdesse, nulla vieta che non si possa risorgere insieme al proprio alleato sconfitto. Nella benaugurata ipotesi in cui si vincesse, si avrebbe tutto l’apprezzamento e il sostegno dell’alleato vincitore e insieme ci si difenderebbe meglio da eventuali – e possibili – attacchi futuri.

Se c’è una cosa che insegna la storia è che: ogni status quo ha i giorni contati. In storia la stasi è solo mera apparenza. Anche quando le bocce sembrano ferme, in realtà si muovono, anche fosse in maniera impercettibile. Il corso della storia è in continuo movimento. “Se dirò all’attimo: fermati dunque! sei così bello! allora mi potrai gettare in catene, allora andrò volentieri in rovina” fa dire Goethe al suo Faust, che così dicendo spera di rimandare all’infinito la capitolazione. L’attimo storico è inarrestabile così come quello faustiano.

Il fluire eracliteo del fiume è la metafora che meglio azzecca l’andamento mutevole della storia. Per cui si può dire che in storia: nulla è certo, tranne il cambiamento.

Il potere della suggestione

Il popolo si lascia comandare solo da quel principe che esercita su di esso un ascendente. Fondamentale – in tal senso – è per il principe avere il potere di “[…] suggestionare la massa” (p. 117), chi ne è sguarnito non può esercitare l’onere e l’onore del comando.

Contro il volere popolare non è possibile governare. Per costruire il proprio potere “[…] su fondamenta solide” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 117) è necessario portare dalla propria parte il popolo, sia nel caso in cui grazie a esso si è preso il potere sia se lo si è conquistato grazie ai nobili.

Il popolo si lascia comandare solo da quel principe che esercita su di esso un ascendente. Fondamentale – in tal senso – è per il principe avere il potere di “[…] suggestionare la massa” (p. 117), chi ne è sguarnito non può esercitare l’onere e l’onore del comando. Di suggestione delle masse da parte dei capi ne parla Gustave Le Bon ne “La psicologia delle folle”, uno dei testi più letti e studiati – guarda caso proprio insieme a “Il principe” di Machiavelli – dai politici del Novecento, dittatori compresi.

La suggestione è impossibile senza la seduzione, motivo per cui un buon principe dev’essere un seduttore. Come si seduce? Con le lusinghe. Per esempio, si prenda un caso emblematico della nostra attualità politica, il reddito di cittadinanza; è chiaro che chi lo proporrà, lusingando così una larga fetta della popolazione disoccupata, con una tale esca, come effetto immediato otterrà una valanga di consensi in suo favore; certo, se poi costui non rispetterà le promesse fatte, in tempo di democrazia 2.0 ne pagherà il prezzo perdendo tutto il credito politico accumulato e si precluderà la possibilità di venire rieletto. Altri esempi potrebbero essere: promettere posti di lavoro, estendere i diritti civili alle minoranze, diminuire il carico fiscale dello Stato, eccetera.

Tante sono le lusinghe da adoperare in politica, quelle di oggi diverse da quelle di ieri; anche perché oggi i cittadini non sono più sudditi in tante parti del mondo; ragion per cui sono più smaliziati, conoscono i loro diritti e li rivendicano, ne chiedono di continuo l’estensione. Comunque, mutatis mutandis, cambia la forma ma non la sostanza: le lusinghe attecchiscono sul popolo come la ruggine al ferro.

Da Machiavelli a Nietzsche

Per Machiavelli il principe non deve farsi troppi scrupoli nel prendere decisioni dalla moralità discutibile, quantomeno secondo l’usuale morale cristiana; così come per Nietzsche il Superuomo deve andare al di là del bene e del male cristianamente inteso.

Machiavelli riporta alcuni episodi tra cui uno particolarmente utile per comprendere i talenti di Cesare Borgia, il suo principe ideale. Si narra che “[…] non fidandosi della Francia e di altre forze estranee e non volendo correr rischi con esse, decise di ricorrere agli inganni.” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 93.) Famigerato rimane il tranello teso a Paolo Orsini, che Machiavelli riporta restando fedele agli eventi. “Il duca colmò costui di cortesie e lo rassicurò fornendogli danaro, abiti e cavalli, tanto che gli Orsini finirono, per dabbenaggine, col consegnarsi nelle sue mani in Sinigaglia. Cesare Borgia uccise i capi del partito degli Orsini, compreso Paolo, e costrinse i partigiani a diventargli amici. Pose in tal modo fondamenta assai buone al suo potere” (p. 93).

Cosa insegna l’inganno teso contro gli Orsini presso la rocca di Senigallia? Per la morale cristiana suscita riprovazione un simile modo di agire tanto spietato e vigliacco, invece Machiavelli pare sciogliersi come un ghiacciolo al sole nel raccontare questa che lui reputa una prodezza da fuoriclasse della politica dei suoi tempi. Questo perché per Machiavelli morale e politica non sono compatibili. Quel che è certo per lui è che il talento politico di un eccellente principe non si misura sul grado cristiano di bontà, quasi a voler suggerire l’idea che la bontà è un lusso che un consumato politicante non può permettersi.

Per essere incisivi in politica occorre talvolta essere spietati e all’occorrenza vigliacchi, perché l’insegnamento tratto dalla lettura de “Il principe” di Machiavelli è che: “il fine giustifica i mezzi” adoperati per ottenerlo. Per quanto di questa frase non vi è traccia ne “Il principe”. A ogni modo, è innegabile che alcuni passi dell’opera – fra tutti i capitoli diciotto e diciannove – si prestino a trasmettere una filosofia “amorale”, che Nietzsche definirebbe da Superuomo.

A questo proposito, il collegamento tra il principe ideale vagheggiato da Machiavelli e lo “Übermensch” nietzscheano è tutt’altro che infondato. Per Machiavelli il principe non deve farsi troppi scrupoli nel prendere decisioni dalla moralità discutibile, quantomeno secondo l’usuale morale cristiana; così come per Nietzsche il Superuomo deve andare al di là del bene e del male cristianamente inteso. Infatti, sia Machiavelli sia Nietzsche ritengono che per fare la storia e non limitarsi a subirla si debba avere: una condotta inflessibile pur di raggiungere i propri scopi politici secondo il primo e pur di accrescere la propria volontà di potenza per il secondo.

Apologia di Cesare Borgia

Ognuno ha i propri modelli di riferimento, è indubbio quale sia quello di Machiavelli: Cesare Borgia, duca di Valentinois e per questo detto il Valentino.

“Coloro i quali, da semplici cittadini, diventano prìncipi soltanto grazie alla fortuna, lo diventano con poca fatica, ma devono poi penare per restare al potere” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 87). Ognuno ha i propri modelli di riferimento, è indubbio quale sia quello di Machiavelli: Cesare Borgia, duca di Valentinois e per questo detto il Valentino. Vero è però, stando a Machiavelli, che più si fatica a conquistare il potere e più agevolmente lo si conserva. Ciò è stato “vero” non solo per Cesare Borgia, ma anche per Francesco Sforza divenuto – per suoi meriti – duca di Milano.

A ogni buon conto, i rovesci della fortuna si abbattono pure sui grandi uomini, duca di Valentinois compreso. Infatti, morto il padre Alessandro VI (al secolo Rodrigo Borgia), Cesare perse conquiste e fama, anche se aveva usato “[…] tutti gli accorgimenti degli uomini saggi e capaci […]”. Tanta è la stima nei confronti del Valentino, che Machiavelli usa per descriverlo queste parole, che si commentano da sole, “[…] non saprei quali precetti migliori dare a un principe nuovo, se non prendendo come esempio Cesare Borgia. Se i mezzi adoprati non gli giovarono, non fu per sua colpa, ma per una straordinaria ed estrema malvagità della sorte” (p. 89).

La commossa partecipazione di Machiavelli alla vicenda umana del Valentino – non proprio un tenero agnellino – suggerisce questo adagio: la fortuna dà e toglie con uguale arbitrio. Come già sapevano gli eroi della grande tragedia greca: lottare contro la sorte è una missione persa in partenza e al massimo si può sperare in qualche vittoria di Pirro, che non serve di certo a impedire l’inesorabile sconfitta finale. Titanismo viene definito quell’atteggiamento eroico insito in quegli uomini che, malgrado le avversità della vita, si sono battuti senza risparmiarsi fino alla fine; “titanismo” che deriva dalla mitologia greca, di preciso dal racconto mitologico della bruciante sconfitta dei Titani, figli ribelli degli dèi Olimpi (che li sconfissero). Illustre esempio in tal senso è stato Cesare Borgia, il quale soffriva del “mal francese”, la sifilide, che ogni giorno di più contribuì non solo a scavargli la fossa, ma gli rese – oltretutto – più arduo il cammino che ce lo accompagnò.

Ecco altre parole al miele usate da Machiavelli nei riguardi del Valentino: “Nel duca c’erano tanto feroce ardimento e tanta capacità politica […]” (p. 99). Tanto meglio avrebbe potuto fare se non fosse stato per tre fattori: la fortuna avversa manifestatasi attraverso la consistenza degli eserciti nemici; la breve vita del papa suo padre; le sue precarie condizioni di salute. Il paragrafo tredici del capitolo sette de “Il principe” è una plateale sviolinata delle qualità di Cesare Borgia, di cui Machiavelli tesse le lodi sopra ogni altro principe. Nel paragrafo quattordici dello stesso capitolo, però, Machiavelli addebita al Valentino un errore: avere puntato sul candidato sbagliato per l’elezione papale dopo la morte del padre, favorendo il cardinale Della Rovere, poi divenuto Giulio II. Quest’ultimo aveva dei conti in sospeso con Cesare e glieli fece pagare a caro prezzo.

L’arte della dissimulazione

Potrebbe sembrare paradossale il ragionamento di Machiavelli, ma a pensarci bene presenta una logica inoppugnabile. Se aiuti qualcuno a diventare più potente non attui una mossa saggia, perché potresti spingerlo a usare contro di te quello stesso potere che gli hai offerto su un piatto d’argento.

Machiavelli prende come modello negativo il re di Francia, Luigi XII, il quale “cedette la Romagna al papa e Napoli alla Spagna allo scopo di evitare una guerra” e con ciò ignorò il basilare principio per cui: “[…] non si deve mai far nascere un disordine per evitare una guerra, perché non la si evita, ma la si rimanda a proprio svantaggio” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 67). Potrebbe sembrare paradossale il ragionamento di Machiavelli, ma a pensarci bene presenta una logica inoppugnabile. Se aiuti qualcuno a diventare più potente non attui una mossa saggia, perché potresti spingerlo a usare contro di te quello stesso potere che gli hai offerto su un piatto d’argento. Perché questo? Machiavelli non si spinge a dirlo, forzando un po’ il testo è verosimile supporre che sia proprio per la natura vorace del potere, che non è mai pago di sé.

Viene in mente un saggio adagio attribuito a Charles Maurice de Talleyrand-Périgord: un camaleontico uomo politico francese, il quale, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, non si fece scrupoli a cambiare casacca servendo la monarchia, poi la Rivoluzione francese, poi Napoleone, poi di nuovo la monarchia. Tale “adagio” è ritornato in auge nel Novecento per essere stato riproposto dal politico italiano Giulio Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”. Già, perché chi ce l’ha è ben contento e con grande difficoltà se ne allontana, mentre chi lo ha perduto o non lo ho mai toccato con mano è pronto a tutto per riaverlo o averlo.

La stigmatizzazione di Luigi XII offre a Machiavelli lo spunto per ricavare un altro prezioso principio a cui attenersi pena il fallimento, ovvero: “[…] chi determina l’ascesa di un altro va in rovina, poiché questa ascesa è stata da lui determinata o con l’astuzia o con la forza, e l’una e l’altra sono sospette a chi è diventato potente” (p. 69). Non che questo principio abbia bisogno di ulteriori spiegazioni tant’è già di per sé esplicativo. A ogni modo, se ne potrebbe ricavare un generale insegnamento: meglio non strafare mostrandosi astuti o forti, al contrario è bene mostrarsi meno astuti e meno forti di quanto non si è in realtà, così da sviare i nemici – potenziali e non – dalle proprie reali intenzioni. In questo modo, quando gli avversari si renderanno conto di avere davanti degni rivali dotati di grande astuzia o forza sarà per loro troppo tardi per correre ai ripari.

Idealisti vs. realisti, seconda parte

Idealismo e realismo possono ugualmente fare male o bene, a seconda delle situazioni; non c’è una terza via, o figurarsi il mondo per quello che dovrebbe essere, oppure accettarlo per quello che è.

Il fine giustifica o no i mezzi per raggiungerlo? Gira e rigira si ritorna sempre alla frase incriminata e – verosimilmente – mai pronunciata da Machiavelli. Di sicuro non l’ha mai scritta, ma se l’ha detta oppure no in qualche conversazione privata è questione di lana caprina. Mentre inevasa e cruciale rimane la questione se sia o meno buona cosa adoperare ogni mezzo per realizzare il proprio fine. Leggendo “Il principe” di Machiavelli si direbbe di sì, che è lecito agire in un certo modo in vista di un certo risultato; ma, se sul piano teorico la questione parrebbe risolversi, su quello concreto, tangibile ci vorrebbe il Superuomo di Nietzsche per applicarlo. E da Nietzsche all’interpretazione nietzscheana di Hitler il passo è breve e conduce ad Auschwitz e alle altre abominevoli fabbriche della morte del Novecento, dove per raggiungere un degenerato fine sono stati adoperati mezzi abominevoli.

Per ogni esempio, però, se ne può portare uno contrario. Infatti: se il Presidente americano Woodrow Wilson non fosse stato così miope nel suo idealistico programma in undici punti, forse nella Germania dilaniata dal rancore e dalle macerie della Prima guerra mondiale non sarebbe mai sorto un Adolf Hitler. Perché? Semplice, se le potenze vincitrici non avessero umiliato quelle vinte i vaniloqui dell’imbianchino mancato sarebbero rimasti tali e – magari – non avrebbero attecchito su un popolo allo stremo e in attesa del Salvatore di turno (poi rivelatosi una iattura inimmaginabile).

Idealismo e realismo possono ugualmente fare male o bene, a seconda delle situazioni; non c’è una terza via, o figurarsi il mondo per quello che dovrebbe essere, oppure accettarlo per quello che è. Machiavelli abbraccia la seconda ipotesi, perciò afferma che: “Ognuno dirà che sarebbe cosa lodevolissima se […] un principe possedesse soltanto qualità buone, che rispettino i canoni della bontà cristiana. Ma non è possibile averle né rispettarle […] perché la condizione umana non lo consente […] Tutto considerato, ci sono qualità aventi l’apparenza di virtù, che conducono il principe alla rovina, e qualità aventi l’apparenza di vizi, che lo conducono invece alla sicurezza e al benessere” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 153).

Ipotesi di storia controfattuale, ovvero: come sarebbe andato il corso della storia se, per esempio, qualcuno avesse liquidato il Führer quand’era ancora un aspirante pittore con l’ambizione di entrare alla Accademia delle Belle Arti di Vienna? S’immagini di avere una macchina del tempo e, armati di una pistola e della consapevolezza delle morti e delle sofferenze causate da quell’uomo, si avesse la possibilità di puntare l’arma e premere il grilletto per estirpare quell’unica vita in cambio di milioni di altre vite. Come comportarsi? Premere o no il grilletto facendo a seconda: un dispetto alla propria coscienza o un favore all’umanità? Un fedele discepolo di Machiavelli non vi è dubbio che: premerebbe il grilletto.

Postilla semiseria

Il club dei realisti è composto da: Aristotele, l’antenato; Niccolò Machiavelli, il peso massimo della categoria; Richelieu, lo stratega più che cardinale (cattolico di facciata alleatosi con i protestanti per vincere la guerra dei Trent’anni in nome della “ragion di Stato” francese); Thomas Hobbes, il più lupesco dei filosofi; Georg Wilhelm Friedrich Hegel (non ha colpe per il nome tanto lungo), il filosofo della storia che ha sempre ragione (anche quando essa ha palesemente torto); Otto von Bismarck, l’inventore della Germania (e dei problemi da essa causati nel Novecento); Henry Kissinger, il tedesco d’America (o americano di Germania), Segretario di Stato statunitense e anche Premio Nobel per la pace nel 1973 che si è guadagnato per avere risolto il conflitto vietnamita. Omissioni volute: i più grandi condottieri della storia, Alessandro Magno, Cesare, Napoleone (solo per citare i tre più famosi in Occidente).

Il club degli idealisti vanta nientemeno che: Platone, il progenitore; Marco Giunio Bruto, il più illustre dei cesaricidi che nell’atto di assassinare Cesare pare disse, “sic semper tyrannis”, “così sempre ai tiranni”, per il suo ideale repubblicano non si curò di sporcarsi le mani di sangue; Agostino, o Sant’Agostino per i suoi correligionari, il più platonico dei cristiani; Immanuel Kant, il filosofo che ha fatto uscire l’umanità dalla caverna platonica; Woodrow Wilson, il Presidente statunitense che voleva accontentare tutti ma ha finito per scontentare “tutti” (la conferenza di pace di Versailles del 1919 è stata la sua Caporetto); Barack Obama, il Presidente che ha fatto finire l’America dalla padella dei McDonald’s al ciuffo di The Donald. Omissioni volute: i peggiori dittatori della storia, Hitler, Stalin, Mussolini (solo per citare quelli novecenteschi, che per realizzare i loro ideali adoperarono mezzi aberranti, specie i primi due).

Idealisti vs. realisti, prima parte

Un realista non è né migliore né peggiore di un idealista, è meno visionario ma più necessario, è colui che vorresti avere al comando quando le cose si complicano, perché è in situazioni difficili, di eccezione, che lui dà il meglio di sé; è il miglior compagno con cui si possa dividere la trincea, però è il peggiore con cui condividere una bevuta. In una situazione di normalità il realista consiglia di prepararti al peggio, mentre tutti gozzovigliano e pensano a godersi il meglio credendo che a esso non potrà esserci fine; mentre l’uomo saggio, che è realista, sa che solo “al peggio” non c’è limite, per questo si tiene pronto a vendere cara la pelle.

Il principe, così come lo intende Machiavelli, dovrebbe essere dotato di un sano pragmatismo, che lo porti a valutare il mondo e gli uomini per quello che “sono” e non per quello che “dovrebbero essere”. Ciò presuppone una visione realista più che pessimista sia del mondo sia degli uomini che lo abitano. Perché “realista” e non “pessimista”? Il pessimista si bea della propria arguzia intellettuale e non è interessato a risolvere problemi. Il realista non si compiace delle sue idee ed è soltanto focalizzato a risolvere problemi. L’uno ha l’animo del letterato disilluso che porta su di sé il peso del mondo, novello Atlante. L’altro ha una chiara ed evidente vocazione politica, di chi marxianamente non si accontenta di capire il mondo e ha tutta l’intenzione di trasformarlo (si veda l’undicesima “Tesi su Feuerbach” di Karl Marx). Per effettuare questa trasformazione un realista sa bene di doversi sporcare le mani, perché le faccende mondane non si sbrigano rimanendo sul piano ideale che, tutt’al più, deve fungere da trampolino di lancio perché il suo scopo è incidere sulla realtà.

Un realista non è né migliore né peggiore di un idealista, è meno visionario ma più necessario, è colui che vorresti avere al comando quando le cose si complicano, perché è in situazioni difficili, di eccezione, che lui dà il meglio di sé; è il miglior compagno con cui si possa dividere la trincea, però è il peggiore con cui condividere una bevuta. In una situazione di normalità il realista consiglia di prepararti al peggio, mentre tutti gozzovigliano e pensano a godersi il meglio credendo che a esso non potrà esserci fine; mentre l’uomo saggio, che è realista, sa che solo “al peggio” non c’è limite, per questo si tiene pronto a vendere cara la pelle. Il realista non piange lacrime di coccodrillo “a posteriori”, interviene “prima” per non avere dei rimorsi “dopo”, anche se ciò significa non avere scrupoli di coscienza; avere una coscienza è un lusso che non può permettersi. Il realista è bravo a decidere e non si arrovella – inconcludente – nel dubbio, non è un fannullone, è un uomo d’azione, è un interventista e questo è il suo più grande pregio ma anche difetto.

Machiavelli non usa queste parole, però il senso del suo discorso non è tradito da questa interpretazione, che alla fine si riconduce a questo motto capovolto: non ti devi fasciare la testa prima di spaccartela, questo no, piuttosto devi metterti l’elmetto così da prevenire qualche brutto incidente. Prevenzione, è questa la parola d’ordine. Previeni per attenuare il più possibile i rovesci della dea Fortuna, che sarà pure bendata, però prende di mira tutti. La preveggenza è un palliativo che attenua il problema ma non lo risolve e se non lo fa è perché non può.

Il problema dell’uomo, l’unico, vero che ha, la morte, è irrisolvibile. Se si vuole provare a ritardarla più che si può – non è detto che si riesca seppure “il gioco vale la candela” – occorre immaginare il lupo dietro ogni angolo, pronto ad azzannarci alla gola in ogni momento, a mordere la giugulare e recidere con essa la nostra vita. “Attenti al lupo” non è solo una splendida canzone di Lucio Dalla, è un modo di vivere in perfetto “Machiavelli style”, che verrà dopo di lui riproposto da un altro filosofo realista, con il quale c’è da scommetterci che Machiavelli avrebbe volentieri diviso la tavola, questi è Thomas Hobbes. Per denunciare l’alto grado di pericolosità dello stato di natura, Hobbes è ricorso alla celebre formula “homo homini lupus”, l’uomo è lupo per l’altro uomo.

Il lupo come metafora del nemico è solo un modo di vedere – per quello che è – la condizione umana, mortale; non lo fosse stata, i discorsi starebbero a zero, perché vorrebbe dire che l’uomo non sarebbe più quel che è e, di conseguenza, non avrebbe più bisogno di “risolvere problemi”. Finché dovrà impantanarsi in essi e provare a venirne a capo, fino ad allora “Il principe” di Machiavelli non potrà che essere visto come un prezioso compagno di cammino per l’uomo, usato vuoi per tracciare la rotta e vuoi anche per non smarrire la via dell’agire politico.

C’è un passo de “Il principe” in cui riecheggiano forti e chiare le parole di Machiavelli, un passo che lo ingloba nella squadra degli aristotelici “realisti”, mentre la squadra avversaria è quella dei platonici “idealisti”. Il passo è questo: “Molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti nel mondo reale. Ma c’è una tale differenza tra come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui il quale trascura ciò che al mondo si fa, per occuparsi invece di quel che si dovrebbe fare, apprende l’arte di andare in rovina, più che quella di salvarsi. È inevitabile che un uomo, il quale voglia sempre comportarsi da persona buona in mezzo a tanti che buoni non sono, finisca per rovinarsi. Ed è pertanto necessario che un principe, per restare al potere, impari a poter essere non buono, e a seguire o non seguire questa regola, secondo le necessità” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 151).

Aristotele si potrebbe considerare il capostipite di una filosofia realista di cui Machiavelli è degno erede. Aristotele è stato il primo a smontare l’idealismo di Platone. Come? Gli è bastato puntare il palmo della mano verso il basso, verso il mondo terreno (delle copie secondo la vulgata platonica) al contrario del suo maestro ostinato a tenere il dito indice puntato verso l’alto, verso il mondo ultraterreno (delle idee stando sempre alla terminologia platonica). L’immagine dei due filosofi ritratti nelle pose sopra descritte ce l’ha regalata Raffaello Sanzio nel dipinto “La scuola di Atene”.

Se Platone invita a guardare a “ciò che dovrebbe essere”, Aristotele suggerisce di considerare “ciò che è”. Hanno entrambi in parte torto e in parte ragione. Ha ragione Platone a chiedere all’uomo uno sforzo aggiuntivo per non accontentarsi delle cose come sono e per provare a cambiarle in meglio inseguendo un ideale che serve per migliorare il reale. Ha ragione però anche Aristotele che per venire a capo dei problemi non si può prescindere da com’è fatto l’uomo e da come funziona il mondo. La politica è ciò che sta nel mezzo tra ideale e reale. Il politico deve avere un ideale per incidere sul reale, però deve essere disposto a usare i mezzi che il proprio ingegno gli suggerisce per raggiungere il fine che si prefigge.

Politica e morale, ognuna per la sua strada

Di certo Machiavelli è stato il fondatore di una scuola di filosofia politica denominata “realista”; termine che “ab origine” descriveva chi era dalla parte del re; oggi si usa chiamare “realista” chi ha un approccio pragmatico alla risoluzione di problemi anche – e soprattutto – spinosi.

Machiavelli afferma di avere sia una “conoscenza delle imprese dei grandi uomini” sia una “lunga esperienza delle cose moderne”; la prima dovuta a “una continua lettura delle antiche” gesta, la seconda da un’esperienza sul campo come segretario della repubblica fiorentina dal 1498 al 1512 (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 45). Già con queste poche battute è possibile farsi un’idea della sua persona: politico al servizio della repubblica fiorentina tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, ma anche profondo conoscitore della cultura classica greco-latina e perciò perfetta incarnazione dell’anima di un periodo storico fra i più controversi. L’umanesimo-rinascimento ha partorito fra le più geniali menti dell’umanità, cionondimeno si è contraddistinto per: guerre, intrighi, torture, avvelenamenti e altre nefandezze. In questa fase, l’uomo è stato capace di dare – allo stesso tempo – tutto il meglio e tutto il peggio di sé.

“Il principe” ha avuto e continua ad avere schiere di estimatori. Benito Mussolini era un grande estimatore di Machiavelli e in effetti questa predilezione non sembra casuale. Il capolavoro di Machiavelli, “Il principe”, pare scritto apposta per uomini con velleità di potere, dittatori e non, neanche fosse un libretto delle istruzioni su come governare con il pugno di ferro. Di certo Machiavelli è stato il fondatore di una scuola di filosofia politica denominata “realista”; termine che “ab origine” descriveva chi era dalla parte del re; oggi si usa chiamare “realista” chi ha un approccio pragmatico alla risoluzione di problemi anche – e soprattutto – spinosi. Di solito la politica realista sposa un’etica del male minore, malgrado sarebbe più corretto dire che il realista pensa che una cosa sia la politica, tutt’altra la morale di cui l’etica è figlia.

Dunque, qual è il testamento politico lasciatoci in eredità da Machiavelli? Chi vuole fare politica non deve essere un chierichetto, perché politica e morale devono andare ognuna per la sua strada. Certo, finché può un politico deve agire secondo la morale corrente (quella cristiana se si fa parte del cosiddetto “mondo occidentale”), non perché sia giusto in sé, ma semplicemente perché gli conviene per accrescere il proprio consenso e poter continuare a perseguire i propri obiettivi politici. Insomma, il pensiero di Machiavelli è una ventata di aria fresca nel cuore dell’Europa cristiana, dove da più di mille anni ha dilagato la convinzione che virtuoso significasse essere in sintonia con l’idea cristiana di bene e di male.

L’umanesimo di Machiavelli consiste nell’avere riproposto e riverniciato il concetto greco-latino di virtù intesa alla maniera greca, ovvero: “aretè”, parola che designa la capacità di eccellere in quello che si fa. Per esempio, secondo tale definizione è “virtuoso” quel falegname che lavora con maestria il legno tanto da crearci i più diversi e funzionali oggetti, oppure è virtuoso quel politico capace di prendere le decisioni più difficili e nelle condizioni di maggiore urgenza al fine di risolvere un problema concreto. In fondo è tutta questione di analizzare il problema e scegliere un modo – il più indolore possibile – per risolverlo, a costo di scegliere di arrecare il minore danno possibile, il “male minore” appunto.