Meglio antipatico che incompetente

Un’inclinazione erronea da combattere nei propri studenti è il vittimismo, che li porta – a volte – a far dire loro bugie che hanno “le gambe corte” e che il meno dotato degli azzeccagarbugli potrebbe facilmente sconfessare. Nel corso degli anni ne ho sentite di lamentele su colleghi che – per esempio – non fornirebbero motivazioni dopo avere assegnato un voto. In tutta franchezza, faccio fatica a immaginarmi un collega che non motiva un proprio voto. Può darsi che gli studenti confondano il dare una motivazione, che loro “non” accettano, con il non darne alcuna.

Hanno ancora un senso i voti? Comincio col rispondere che “un senso” per me ce l’hanno ed è quello di stimolare il miglioramento senza il quale ogni giorno non saremo spinti a fare meglio del giorno prima e così via. Questa tendenza a farci migliorare è ciò che salverei del voto.
Un’inclinazione erronea da combattere nei propri studenti è il vittimismo, che li porta – a volte – a far dire loro bugie che hanno “le gambe corte” e che il meno dotato degli azzeccagarbugli potrebbe facilmente sconfessare. Nel corso degli anni ne ho sentite di lamentele su colleghi che – per esempio – non fornirebbero motivazioni dopo avere assegnato un voto. In tutta franchezza, faccio fatica a immaginarmi un collega che non motiva un proprio voto. Può darsi che gli studenti confondano il dare una motivazione, che loro “non” accettano, con il non darne alcuna. Magari questi docenti avranno dato loro una motivazione più o meno stringata, ciononostante loro polemizzano e allora vanno in giro a calunniare il singolo docente. Questa è una cosa che proprio non sopporto, lo confesso. Anche perché gli studenti che te lo raccontano – di solito – cercano il tuo appoggio esterno, che io mi guardo bene dal prestare perché “fino a prova contraria” do ragione e tendo a credere ai miei colleghi, vista la natura – spesso – “strumentale” delle lamentele degli studenti che nove volte su dieci coincidono con un brutto voto.
Come insegna l’etica di Aristotele, la verità sta nel mezzo. Cosa voglio dire? La ragione – di solito – non ce l’ha mai al cento per cento una sola parte; magari una parte ha più ragione dell’altra, non è insolito però che colpe e meriti siano condivisi. In fondo la giustizia stessa – così come dovrebbe essere concepita in un paese civile e democratico – ci invita a credere “fino a prova contraria” alla non colpevolezza di un presunto reo, si chiama: “presunzione d’innocenza”. E non utilizzare questa forma di cortesia con un collega, non concedendogli quantomeno la “presunzione d’innocenza”, oltre a essere un comportamento scorretto, mi pare anche chiaro indizio di giustizialismo.
Ammetto di non nutrire simpatia alcuna per delatori e forcaioli che – talvolta con la bava agli angoli della bocca – chiedono di far saltare teste a destra e a manca al solo fine di salvare la loro di testa. La Rivoluzione francese dovrebbe pur averci insegnato qualcosa… un conto è la giustizia e ben altro paio di maniche è il giustizialismo. Motivo per cui “fino a prova contraria” credo alla buona fede di un collega e solo in caso di prova schiacciante ai suoi danni sono disposto a riconoscerlo colpevole; la prova in questione dev’essere però incontrovertibile. Cosa intendo per “incontrovertibile”? Dimostrata coi fatti e non con le chiacchiere, perché a chiacchierare alle spalle sono tutti bravi, quando si tratta però di portare dei “fatti” a supporto, solo in pochi si fanno avanti (ammesso e non concesso che si facciano “avanti”).
Dunque, di chi è la colpa del brutto voto dato ai nostri eccezionali figli, dei docenti forse? No, fino a prova contraria. Poi le eccezioni ci sono, altrimenti non avrebbe più senso la regola. La norma però parla chiara: i docenti sono esseri umani che possono sbagliare, ma se – in effetti – lo fanno è quasi sempre in buona fede. Come dicevano quei gran filosofi dei miei nonni: “Solo chi non alza mai un dito, non sbaglia mai”. Purtroppo, essendo umani, quel “quasi sempre” comprende alcune eccezioni, ma da qui a farmi credere a tutte le malefatte che sento dire dei miei colleghi, troppo ce ne vuole. Tra l’altro non sono così ingenuo da credere di non essere mai stato vittima io stesso di simili calunnie. Fare il professore e dover mettere dei voti rende simile a un arbitro di calcio: come sa bene chi frequenta gli stadi, ogni tanto qualcuno lo si scontenta, è inevitabile direi. Inoltre, non ambisco a ottenere l’unanimità dei consensi attorno alla mia persona; se lo facessi significherebbe che sarei un totalitarista incline a promuovere il culto della mia persona. Per quanto nutra stima nei confronti di me medesimo, certi giorni non mi vado per niente a genio; dunque, mi guardo bene dal voler suscitare unanimi simpatie. E poi, a dirla tutta, per quanto la simpatia giovi, un professore così come un dottore, un politico, un uomo di legge, un parrucchiere, un cuoco – e qualsiasi altro mestierante che non ho menzionato – non dev’essere per forza di cose simpatico, purché sia bravo. Solo la bravura è davvero richiesta nell’esercizio di una professione. La simpatia è accessoria, sopravvalutata e vi dirò di più: meglio antipatico che incompetente.

Tutta colpa loro

Non è colpa nostra, si difendono i giovani di oggi. E hanno ragione. Non è colpa loro, ma di quegli adulti che li abituano a essere sempre difesi e li lasciano impuniti. Questa abitudine nociva alla deresponsabilizzazione è tutta colpa loro.

Penso ci sia un problema generazionale. Stiamo crescendo ragazzi sempre più deresponsabilizzati. Laddove invece proprio il principio responsabilità – come insegna il filosofo Hans Jonas – è alla base di una vita da cittadini moralmente integri; cittadini consapevoli del loro ruolo nel mondo, che sanno come comportarsi per preservare questa loro casa comune che è il pianeta Terra.
Un serio problema di deresponsabilizzazione sta coinvolgendo genitori e figli, con questi ultimi che vengono difesi a spada tratta dai primi e sono sempre “innocenti” anche ben oltre la prova contraria; in realtà genitori siffatti stanno insegnando ai loro figli – più che a essere maturi – l’immaturità. Inoltre, questa condizione di “tutto è lecito” che vivono i ragazzi in famiglia si ripercuote poi anche a scuola ed è un’insana abitudine che non può non influenzare in maniera negativa il loro comportamento. In che modo? Si riflette in un atteggiamento generale, rispetto al passato, più presuntuoso. Studiano il pomeriggio prima, si presentano all’interrogazione il giorno dopo, non prendono il voto che vogliono e polemizzano. Mentre, invece, molto più maturo sarebbe da parte loro un atteggiamento equilibrato, perché se un professore dà un voto, quale che sia, non lo attribuisce certo per simpatie personali o favoritismi presunti. Lo dà perché pienamente convinto che “quello” è il voto per “quella” prestazione che ha ascoltato durante l’interrogazione o ha corretto in occasione della verifica scritta.
Come qualunque altro professore, pur mettendoci tutta la buona volontà del mondo, non sono così folle da credermi infallibile nel giudizio. Posso solo assicurare di metterci il massimo dell’impegno per essere equo; “giusto” non credo sia umanamente possibile esserlo; questo perché da credente ritengo che la giustizia non sia una prerogativa di questo mondo; al massimo “hic et nunc” si può ambire a un’approssimazione di giustizia, ben consci che quella terrena non sarà mai una giustizia perfetta, tutt’al più perfettibile e sempre un po’ claudicante, temo. Con “equo” intendo che ci tengo a essere – quanto più mi riesce – “uniforme” nella valutazione.
Quando devo correggere delle verifiche scritte di una classe tendo a cominciarle e finirle nello stesso giorno, così da minimizzare eventuali difformità di giudizio dovute a circostanze esterne – stati fisici o stati d’animo alterati – che da un giorno a un altro possono portarmi a essere più o meno severo. Sembra una sciocchezza ma tale non è per me. In quanto esseri umani siamo creature umorali, che – a livello inconscio e a seconda dell’umore – tendono a modificare i loro comportamenti. Quindi, sapendolo, credo sia opportuno prendere delle contromisure. Nella fattispecie: correggere i compiti l’uno di fila all’altro. Si tratta di una regola di condotta che m’impongo e che cerco – nei limiti del possibile – di applicare. Da quest’anno, per combattere la possibile disparità nella valutazione delle interrogazioni, m’impegno a concentrarle in uno stesso periodo, in maniera tale che fra il primo e l’ultimo degli interrogati non trascorrano che pochi giorni, minimizzando così un eventuale influsso di fattori esterni.
Detto ciò, forse proprio perché desidero avere un atteggiamento di equanimità nei confronti di ogni mio studente, forse per questo mi rammarico doppiamente quando qualche mio studente non “prende con filosofia” il voto che gli ho assegnato; in tal caso a dispiacermi è la mancanza di consapevolezza della prestazione offerta; e se non si è consapevoli, significa che si è poco maturi. Come un serpente che si morde la coda, la scarsa maturità in molti casi è causata da una distorta percezione di sé a cui spesso contribuiscono quei genitori che tengono sul palmo di una mano i loro figli e per i quali i frutti dei loro lombi non possono che essere infallibili.
Non è colpa nostra, si difendono i giovani di oggi. E hanno ragione. Non è colpa loro, ma di quegli adulti che li abituano a essere sempre difesi e li lasciano impuniti. Questa abitudine nociva alla deresponsabilizzazione è tutta colpa loro.