Chi non rischia, non ottiene nulla

Adattarsi significa saper assecondare la corrente e non intestardirsi a nuotare controcorrente manco si fosse dei salmoni ostinati. La corrente va assecondata e non combattuta. Se si segue questo accorgimento, si preserva un proprio spazio di manovra per incidere sugli accadimenti, senz’altro limitato, questo sì, è indubbio, ma pur sempre meglio che nessuno spazio.

Che la “fortuna” giochi un ruolo cruciale nelle nostre vite è innegabile. Ciò detto, che spazio rimane al “libero arbitrio” dell’essere umano? Machiavelli dice che: “[…] affinché il libero arbitrio non sia completamente cancellato, ritengo possa esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, e che essa lasci a noi il governo dell’altra metà, o quasi.” (MACHIAVELLI, N., “Il principe”, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 217.) Con questo “quasi” non sembrerebbe troppo convinto, pur ammettendo che una buona parte – poco importa se la “metà” precisa – della sua “fortuna” l’uomo se la crea facendo buon uso del “libero arbitrio” di cui dispone. Quindi aggiunge: “E paragono la fortuna a uno di quei fiumi impetuosi che, quando s’infuriano, allagano le pianure, abbattono gli alberi e gli edifici, trascinano masse di terra da una parte all’altra […] Il fatto che i fiumi siano fatti così non impedisce tuttavia agli uomini, nei periodi calmi, di apprestare ripari e argini in modo che, quando i fiumi poi crescono, possano essere incanalati e il loro impeto possa non risultare così sfrenato e dannoso” (pp. 217-219). Costruire “ripari e argini” sempre più contenitivi ed efficienti rimane l’unica cosa da fare all’uomo previdente, che non vuole farsi trovare impreparato dinnanzi al precipitare degli eventi.

È tutta questione di adattarsi o soccombere, secondo Machiavelli, che lo dice con queste parole: “Ritengo inoltre che abbia successo colui che adatta metodi e mezzi alla qualità dei tempi, e analogamente che vada incontro all’insuccesso colui che viceversa non sa adattarsi ai tempi” (p. 219). Adattarsi significa saper assecondare la corrente e non intestardirsi a nuotare controcorrente manco si fosse dei salmoni ostinati. La corrente va assecondata e non combattuta. Se si segue questo accorgimento, si preserva un proprio spazio di manovra per incidere sugli accadimenti, senz’altro limitato, questo sì, è indubbio, ma pur sempre meglio che nessuno spazio. Un’altra metafora può correre in soccorso per capire meglio questo passaggio de “Il principe”. S’immagini di essere un abile marinaio, che sa manovrare con maestria impareggiabile la propria imbarcazione, ma che – nondimeno – è in mare aperto nel bel mezzo di una burrasca. Le chances di cavarsela non dipenderanno soltanto dalla sua pur eccezionale abilità, molta parte – la “metà” o poco più – nella salvezza o meno del marinaio l’avrà l’elemento marino che lo domina e di cui lui è in balia. Cinquanta e cinquanta, nella migliore delle ipotesi: il suddetto marinaio avrà il cinquanta per cento di possibilità di scamparla, però com’è vero che non dipende solo da lui, è pur vero e ragionevole dire che dipende anche da lui.

Bizzarrie della “fortuna”, sentenzia Machiavelli, “[…] magari vediamo che due persone possono aver successo con due modi di comportarsi completamente diversi, dato che per esempio una di queste persone è cauta e l’altra impetuosa. La ragione va trovata nel fatto che esista oppur no un rapporto armonico tra l’operato di queste persone e il carattere dei tempi” (pp. 219-221). Cambiano i tempi e con essi cambiano pure i comportamenti più adatti da tenere. Chi si adegua ha successo, chi no fallisce. Perciò Machiavelli invita a “cambiare coi tempi” per non cambiare in peggio la propria “fortuna” e definisce anche “[…] la variabile del successo: che se uno si comporta con cautela e pazienza nei tempi che esigono queste qualità, allora gli va bene; ma se i tempi cambiano e non cambia anche i suoi comportamenti, allora gli va male” (p. 221). Quindi, a chi recita come un mantra la litania che “andrà tutto bene” per autoconvincersi della buona riuscita di un’impresa, occorre ribadire – sulla scorta dell’insegnamento machiavellico – che “andrà tutto bene” anche se lui lo vorrà e farà in modo con le sue azioni virtuose che così vada. Con la consapevolezza, però, che non dipenderà solo da lui, visto l’influsso della “fortuna” nelle vicende umane. A ogni modo, dovrebbe consolarlo l’idea che per buona parte dipenderà anche da lui (e non è poco).

Per concludere: “[…] se la fortuna è mutevole e gli uomini, viceversa, si ostinano a usare sempre gli stessi metodi, è anche vero che gli uomini hanno successo finché metodi e tempi concordano, e vanno verso l’insuccesso in caso contrario.” Dunque “[…] meglio essere impetuosi piuttosto che cauti, perché la fortuna è donna […]” e per questo motivo, secondo la ristretta e maschilista visione di Machiavelli, figlia di un tempo in cui il maschilismo era ancora più accentuato che nel presente: “Essa si lascia dominare dagli impetuosi, piuttosto che da coloro che si comportano con freddezza. Ecco perché, come donna, essa è amica dei giovani, che sono meno cauti, più impavidi e più audaci nel comandarla” (p. 223). In realtà qui Machiavelli riformula il detto latino riconducibile a uno degli esametri incompiuti di Virgilio secondo il quale: “Audentes fortuna iuvat”. Traduzione: “La fortuna aiuta gli audaci”. Rivisitato nel dannunziano: “Memento audere semper”. Tradotto: “Ricordati di osare sempre”. O il meno raffinato e pure meno fascista (che non guasta), ma di uguale significato: “Chi non risica, non rosica”. Ovvero: chi non rischia, non ottiene nulla. Proverbio toscano come Machiavelli, non a caso.

Preveggenza = saggezza

Da parte sua, Machiavelli suggerisce di essere previdenti perché, com’è risaputo, “prevenire è meglio che curare”. Per chi è solito non prevenire, Machiavelli avverte: “Avviene quel che i medici dicono a proposito della tisi, che all’inizio è facile da curare ma difficile da diagnosticare, e che col passar del tempo, non essendo stata all’inizio né diagnosticata né curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare.”

Ne “Il principeMachiavelli sostiene che “[…] l’imprevidenza può indurre gli uomini a scegliere cose che al momento hanno buon sapore, e all’interno sono ripiene di veleno.” (MACHIAVELLI, N., Il principe, 1532, Bur Rizzoli, Milano, a cura di Piero Melograni, 1999, p. 143.) Per comprendere più a fondo queste parole, si tenga conto di questa attualizzazione. S’immagini di trovarsi in un Paese in quarantena per il dilagare di un imprevedibile quanto pericoloso virus. Gli abitanti sono invitati dagli esperti virologi a restarsene nelle loro case per rallentare quantomeno il preoccupante numero di contagi. In barba alla raccomandazione degli esperti e in preda ai morsi di una lancinante crisi di solitudine, alcuni decidono di ritrovarsi nella piazza principale della loro città per esorcizzare tutti insieme la paura. Fanno bene o fanno male? Se si tiene conto di quanto afferma Machiavelli a proposito di gustare un cibo dal “buon sapore”, ma dall’effetto velenoso, si direbbe proprio che commettano un errore madornale.

Da parte sua, Machiavelli suggerisce di essere previdenti perché, com’è risaputo, “prevenire è meglio che curare”. Per chi è solito non prevenire, Machiavelli avverte: “Avviene quel che i medici dicono a proposito della tisi, che all’inizio è facile da curare ma difficile da diagnosticare, e che col passar del tempo, non essendo stata all’inizio né diagnosticata né curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare.” (p. 63)

Su questo tema – forse perché memore che “repetita iuvant” – Machiavelli ritorna in più punti de “Il principe”. Sulla stessa lunghezza d’onda vi è pure quest’altro brano: “[…] il principe che non individua il male fin dal suo primo manifestarsi non è veramente saggio. Ma questa capacità è concessa a pochi. E se si volesse cercare la prima causa della rovina dell’impero romano, la si troverebbe nel fatto che esso cominciò ad assoldare i Goti” (p. 143).

Verrebbe da chiedersi: cosa se ne fa dell’istinto di sopravvivenza l’essere umano destinato comunque alla lunga – nella più fortunata delle ipotesi – a non sopravvivere? Obiezione alla quale si può rispondere in due modi. Il primo è per allungarsi la vita rimandando il più in là possibile la propria dipartita, della serie: non è mai ora per la propria “ora”. Il secondo è per continuare a sopravvivere nei propri discendenti; ciò se non altro per confortare il singolo che le sue gesta verranno ricordate da altri che verranno dopo di lui. Tutto considerato, si può convenire che quest’ultima ipotesi è pur sempre più auspicabile di quella opposta: la “damnatio memoriae”.

Machiavelli al tempo del coronavirus

Nel caso di una pandemia mondiale né l’esempio storico di Kutuzov e nemmeno quello di Quinto Fabio Massimo porterebbero a risultati apprezzabili: temporeggiare sarebbe il peggiore dei mali possibili. E allora qual è l’atteggiamento più consono, più machiavellico per risolvere problemi reali e non astratti, che è ciò che esattamente si prefigge un politico? In altri termini, come affrontare da discepoli realisti di Machiavelli il gravoso momento presente condizionato dal dilagare del coronavirus?

Per comprendere appieno il controverso autore de “Il principe”, ritengo più plausibile adottare una linea interpretativa che distingua tra l’uomo Machiavelli, da una parte, e il filosofo Machiavelli, dall’altra. L’uomo Machiavelli è stato tutto fuorché l’accezione che, nel corso dei secoli, è stata assegnata all’aggettivo “machiavellico”, vale a dire: malvagio, doppiogiochista, cospiratore, intrigante, insomma, capace di qualunque scelleratezza pur di tenere saldamente il potere o accrescerlo. Infatti, andando a guardare la sua biografia, non si trovano conferme che avesse simili tratti caratteriali. Il filosofo Machiavelli, invece, è stato il massimo teorizzatore del realismo politico, ovvero di un certo modo di pensare e fare politica: il modo di chi crede che, a volte, per ottenere un bene più grande occorra scendere a compromessi con la propria coscienza.

A discolpa di Machiavelli, va detto che l’idealismo morale e politico, di stampo kantiano, alla lunga potrebbe essere più nocivo del realismo machiavellico. Agire secondo la propria massima morale, darsi un imperativo categorico e non muoversi di un millimetro dalle proprie posizioni è un atteggiamento tanto nobile quanto estremistico. Perché?

Si prenda il problema del carrello ferroviario ideato dalla filosofa Philippa Ruth Foot nel 1967. Si tratta di un esperimento mentale molto noto. Il carrello sta per trucidare cinque persone intrappolate su un binario. Un uomo assiste alla scena e, decidendo di abbassare la leva dello scambio, potrebbe fare in modo che il carrello devi su un altro binario dove però è incastrata una persona che in tal caso morirebbe, a seconda delle versioni: un operaio o una bambina. Che fare in una situazione del genere? Meglio tirare la leva del treno e lasciare che muoia una persona, o non fare niente ottenendo come risultato la morte di cinque persone? Se si è kantiani fino al midollo e ci si è ripromessi di salvaguardare la vita propria e altrui in ogni circostanza, non si muoverebbe un dito e si permetterebbe che avvenga un danno maggiore, perché in nessun caso si ammetterebbe l’ipotesi di concedere un male minore. Se si decidesse d’intervenire, d’altra parte, si contravverrebbe alla massima morale kantiana di agire in maniera tale da non nuocere ad anima viva e con ciò si tradirebbe anche l’imperativo categorico “non uccidere”. Ancora oggi i filosofi si arrabattano nel provare a risolvere questo dilemma etico che – per definizione – appare ed è irrisolvibile. Sarebbe facile se rimanesse soltanto una questione teorica, ma così non può essere per un medico – per esempio –  che in particolari circostanze – purtroppo attuali – deve decidere quale vita salvare, o per chi ha un ruolo politico ed è chiamato a prendere delle decisioni riguardanti la collettività, ad agire “hic et nunc”. Non è più teoria, bensì routine.

In politica non fare niente è già fare qualcosa, significa temporeggiare. A volte questo produce successi incredibili. Si pensi al generale Kutuzov, artefice con la sua tattica attendista della disfatta dell’esercito napoleonico durante la campagna di Russia, oppure a Quinto Fabio Massimo, che tenne lontano da Roma il condottiero cartaginese Annibale impegnandolo in battaglie diversive in giro per la penisola. Altre volte però temporeggiare è la peggiore delle opzioni, perché non fare niente porterebbe a danni irreparabili, mentre intervenire con tempestività e decisione, anche con misure antipopolari, potrebbe limitarli.

Nel caso di una pandemia mondiale, né l’esempio storico di Kutuzov e nemmeno quello di Quinto Fabio Massimo porterebbero a risultati apprezzabili: temporeggiare sarebbe il peggiore dei mali possibili. E allora qual è l’atteggiamento più consono, più machiavellico per risolvere problemi reali e non astratti, che è ciò che esattamente si prefigge un politico? In altri termini, come affrontare da discepoli realisti di Machiavelli il gravoso momento presente condizionato dal dilagare del coronavirus?

Come il signor Wolf di “Pulp Fiction”, un realista machiavellico “risolve problemi” e sa bene che, per ogni situazione, c’è una soluzione diversa. Un conto è filosofeggiare a vuoto, un conto è farlo per decidere. Machiavelli promuove una filosofia politica finalizzata a prendere decisioni. Per questo “Il principe” si profila come un manuale per decisori, cioè per politici. Kant filosofeggia per altri filosofi come lui, che s’interrogano sull’uomo astratto, ideale, lontano anni luce dall’uomo reale, concreto. Chi la pensa come Kant e ha una posizione estrema sulle questioni morali e politiche, non conosce mezze misure, né quello spirito di adattamento necessario per prendere decisioni giuste, anche – e soprattutto – nei momenti più difficili.

Mi dispiace dirlo, ma l’idealismo kantiano incoraggia un atteggiamento estremistico, per quanto nobile e lodevole in teoria, che – alla prova dei fatti – potrebbe risultare più dannoso dello spietato realismo machiavellico.

Gli estremismi, persino se buoni nelle intenzioni – com’è il caso dell’estremismo morale kantiano – sono nocivi perché creano disequilibri, che sono la condizione all’origine dei conflitti si sa quando cominciano, ma non quando finiscono. Il pensiero di Machiavelli è figlio della politica dell’equilibrio sancita dalla pace di Lodi del 1454. In essa si riconosceva la sostanziale incapacità di ciascuno degli Stati italiani del Quattrocento di prevalere in maniera netta e incontestabile sugli altri. Da ciò è derivata una politica di sostanziale equilibro, di compromesso insomma. In uno scenario del genere ogni idealismo si sarebbe rivelato nella migliore delle ipotesi inconcludente, nella peggiore disastroso.

In generale, è convinzione dei realisti di oggi che l’idealismo sia stato un ideale politico storicamente fallimentare in ogni epoca. Ciò perché gli uomini nobili sono un’eccezione che conferma una regola: la maggior parte degli uomini è buona o cattiva a seconda delle convenienze del momento, perlopiù però è cattiva. Capire questa spiacevole verità è la chiave per stabilire quei principi utili per governare altri esseri umani. Dopo averli capiti e stabiliti c’è però un ulteriore passaggio da compiere: avere la forza del leone e la scaltrezza della volpe per attuarli.